Luca e Francesco Cavalli - Sforza Europa. Supremazia di un continente |
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Attingendo ai risultati di indagini finora scarsamente note al grande pubblico, Diamond riscrive la storia dell'uomo moderno, o forse dovremmo dire che la scrive per la prima volta, perché si basa su informazioni che solo di recente si sono rese disponibili, ma da cui non sarà possibile prescindere in futuro. Il racconto prende le mosse dal «grande balzo in avanti» di 70000 anni fa, quando gli uomini anatomicamente moderni si diffusero su tutto il pianeta, raggiungendo Nuova Guinea e Australia almeno 60000 anni fa, l'Europa intorno ai 40000, le Americhe forse già 30000 ma senz'altro dopo i 15000 anni fa. In questa espansione - osserva l'autore - gli uomini sterminarono tutte le grandi specie di mammiferi della preistoria, come il mammut in Eurasia e nelle Americhe, i marsupiali giganti e certi enormi uccelli senz'ali simili a struzzi in Nuova Guinea e in Australia, il moa in Nuova Zelanda, e in America elefanti, cavalli, cammelli e bradipi giganti. Queste estinzioni in massa produssero un risultato irrevocabile: da interi continenti scomparvero tutte, o quasi tutte, le specie di mammiferi che si sarebbero potute addomesticare e allevare in epoca successiva, quando se ne sarebbe presentata la necessità. A partire da oltre 10000 anni fa, agricoltura e allevamento si sviluppano indipendentemente in più parti del mondo; 10500 anni fa in Medio Oriente, 9500 in Cina, 5500 in Centroamerica e nelle Ande, 4500 nelle regioni atlantiche degli attuali Stati Uniti, e forse sempre indipendentemente in Nuova Guinea 9000 anni fa, subito a sud del Sahara 7000, in Africa occidentale 5000, e in Etiopia in data incerta. Inizialmente la produzione di cibo rappresenta un'alternativa a caccia e raccolta, utile a integrare la dieta, ma in breve volgere di tempo si rivela così vantaggiosa da soppiantarle. Numerosi fattori giocano a favore della coltivazione dei campi: la diminuzione degli animali selvatici decimati dalla caccia (come le gazzelle in Medio Oriente); la nuova abbondanza, invece, di cereali selvatici, a seguito di mutamenti nel clima; lo sviluppo di tecnologie di raccolta e conservazione (lame d'ossidiana, cesti, mortai, metodi di immagazzinamento). Un ettaro di terreno coltivato nutre da 10 a 100 volte più contadini che cacciatori/raccoglitori se incolto, e l'aumento di popolazione determinato dalla maggiore disponibilità di alimenti rende irreversibile la scelta di produrre il proprio cibo. Gli agricoltori neolitici si dimostrano genetisti capaci. Le piante con cui lavorano sono state plasmate dall'evoluzione per riuscire a sopravvivere e riprodursi, non per essere cibo per l'uomo. Il chicco di grano è protetto da una scorza robusta. I piselli, quando sono maturi, esplodono lanciando i semi tutt'intorno. È necessario selezionare pazientemente gli occasionali mutanti, le piante con baccelli che non esplodono e con chicchi rivestiti di scorza sottile, e continuare a modificarli per renderli sempre più adatti alle esigenze umane. È cosi che nell'arco di settemila anni la pannocchia di granturco, ad esempio, passa da una lunghezza di un centimetro alle dimensioni attuali. Le piante coltivate procurano anche tessuti, coperte, funi e reti. Gli animali domestici forniscono carne, latte, fertilizzante per i campi, e una fonte di energia fondamentale, perché tirano gli aratri e sospingono le macine dei mulini. Forniscono anch'essi tessuti: lana e seta. Saranno gli unici mezzi di trasporto per via di terra disponibili fino all'invenzione del treno. Il cavallo viene trasformato in un formidabile strumento di combattimento. Tre semplici fattori hanno dato un forte vantaggio iniziale a quella regione del mondo che va dal Medio Oriente alla valle dell'Indo verso est, all'Europa e al Nordafrica verso ovest: la produzione di cibo vi ha avuto inizio con buon anticipo sul resto del mondo; è stata la terra d'origine della stragrande maggioranza di piante coltivabili e degli animali che si prestano a essere allevati; è distribuita su una fascia di uguale latitudine, per cui gli agricoltori hanno potuto diffondersi capillarmente, portando con sé piante e animali già adattati a quel clima, e insieme a essi ogni loro invenzione. Questo ha consentito uno straordinario aumento di popolazione e uno sviluppo tecnologico senza uguali in altre parti del mondo, se non in Cina, perché la tecnologia si sviluppa più rapidamente in grandi regioni agricole con grandi popolazioni umane, numerosi inventori potenziali, e molte società in competizione. Non c'è animale che l'uomo non abbia provato ad addomesticare, né pianta che non abbia provato a coltivare, come non c'è invenzione che non sia stata usata, se era utile. Ma molti dei cereali più nutrienti si trovavano concentrati in Medio Oriente, e gli animali da allevare erano scarsi o assenti in altre parti del mondo. Sugli altipiani della Nuova Guinea si sono coltivate piante locali per oltre 9000 anni, ma non vi erano animali che si prestassero all'allevamento (sterminati nel Paleolitico), e la cacciagione locale è piccola e poco nutriente. La mancanza di proteine ha stimolato il cannibalismo, durato fino a oggi. La savana africana è ricca di meravigliosi mammiferi, ma nessuno di loro è mai stato addomesticato, semplicemente perché non si lasciano addomesticare. Già 27000 anni fa si trovano figurine di terracotta e tessuti in Cecoslovacchia, ma finché i gruppi umani non sono divenuti sedentari o non hanno posseduto animali da trasporto non hanno saputo che farsene di pentole e telai, troppo pesanti da portare con sé negli spostamenti; la ceramica ricompare in Giappone solo 13000 anni più tardi, utilizzata da una popolazione stanziale. Inventata nella steppa asiatica, la ruota raggiunge l'Atlantico come il Pacifico. Inventata in Messico, viene usata solo come giocattolo, e non raggiunge mai l'unico animale americano usato per trasporto, il lama, allevato nelle Ande centrali. Chi non ha mai avuto bisogno dell'agricoltura non l'ha mai sviluppata; gli indiani della California, ad esempio, che abitavano una delle zone più fertili del mondo, avevano troppa abbondanza di pesce e di piante selvatiche per avere bisogno di produrre il proprio cibo. È molto probabile che gli europei abbiano ricevuto parecchie malattie infettive dagli animali domestici con cui hanno convissuto: vaiolo e morbillo, tifo e influenza, tubercolosi, peste bubbonica, colera e cosi via; ma nel corso dei millenni hanno sviluppato una relativa immunità. Quando spagnoli e portoghesi, francesi e inglesi sbarcarono in America, i germi che portano con sé fanno strage, sterminando fra il 50 per cento e il 100 per cento delle popolazioni locali. Cortéz sbarca in Messico nel 1520. Nella sua truppa c'è uno schiavo malato di vaiolo. L'epidemia che colpisce gli aztechi è l'arma finale dei conquistadores; in meno di un secolo, la popolazione messicana crolla da venti milioni a poco più di un milione e mezzo di persone. La stessa epidemia devasta gli inca a sud, e determina la scomparsa della grande civiltà pellerossa del Mississippi prima ancora che vi giungano fisicamente i coloni francesi. La popolazione di Hispaniola, che conta un milione di persone quando vi sbarca Colombo nel 1492, nel 1535 è ridotta a zero da epidemie e massacri. Ancora nel 1837, quando un battello a vapore che risale il Missouri trasmette il vaiolo agli indiani mandan, una delle popolazioni culturalmente più avanzate delle Grandi Pianure, la popolazione di un villaggio crolla da 2000 a meno di 40 persone in poche settimane. I batteri europei sterminano gli aborigeni in ogni parte del mondo, dalle isole del Pacifico all'Australia, al Sudafrica, spianando la strada ai cannoni e alle armi d'acciaio dei conquistatori. Partire presto e con un immenso vantaggio ecologico (flora, fauna, clima) le civiltà mediorientali sono le prime a sviluppare un'articolata organizzazione sociale, secondo una dinamica che si riscontra uguale in ogni altra parte del mondo dove è sorta l'agricoltura: settori della popolazione si liberano della necessità di lavorare per vivere (che è universale per ogni individuo fra i cacciatori/raccoglitori), e sorgono gruppi di specialisti, re, burocrati, sacerdoti e guerrieri. Nasce la «cleptocrazia»: un'elite si appropria di parte della ricchezza prodotta dalla società e vive con maggiore agiatezza, variamente giustificando questa appropriazione. Quando gli europei, nel Rinascimento, sviluppano la navigazione oceanica e si dirigono verso ogni angolo del pianeta, le migliaia di anni di vantaggio accumulate si sono tradotte in una formidabile superiorità nelle dimensioni delle popolazioni, nella produzione di cibo su vasta scala, nell'organizzazione sociale, nelle tecnologie, nei mezzi di comunicazione. La scrittura ha alle spalle 5000 anni di sviluppo, che ne fanno uno strumento senza eguali per muovere eserciti e organizzare il dominio nei paesi conquistati. Anche in Centroamerica esiste la scrittura (nell'impero azteco), già da quasi 1000 anni prima che arrivino gli spagnoli, ma è ancora allo stadio in cui si trovava in Medio Oriente 1000 anni dopo essere stata inventata; uno strumento riservato alla burocrazia di palazzo. In tempo storici, l'asse del potere si sposta lentamente verso Occidente, dalla Mesopotamia alla Grecia, a Roma, all'Europa occidentale. Gli imperi mediorientali dell'antichità e la civiltà greca escono di scena, vittime di una sorta di inconsapevole suicidio collettivo, a seguito del degrado ambientale indotto da irrigazione e deforestazione. Al principio del 1400 è la Cina a detenere il primato tecnologico. Ha inventato, fra le altre cose, la polvere da sparo e la bussola, la ghisa, la carta e la stampa. Quasi un secolo prima che gli europei affrontino la navigazione oceanica, la Cina invia regolarmente fino alla costa orientale dell'Africa spedizioni che contano fino 328000 uomini, imbarcati su flotte di centinaia di navi, di dimensioni ben superiori alle caravelle di Colombo. Ma verso la metà del secolo prevale una fazione isolazionista, che vieta le costruzione di flotte e fa chiudere tutti i cantieri. Nell'immenso e unificato impero cinese, la decisione di un gruppo al potere determina il futuro dell'intera nazione. Nella più piccola Europa, frammentata in centinaia di staterelli, Colombo si rivolge a cinque diversi principi, e alla fine ne trova uno disposto a finanziare il suo viaggio. La Cina si richiude su se stessa per secoli, mentre l'Europa occidentale colonizza due terzi del pianeta. In un'opera che ai tempi conobbe un grande successo, il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane, completato nel 1855, il diplomatico francese Joseph-Arthur de Gobineau poneva le basi del razzismo europeo moderno, teorizzando la superiorità intrinseca (oggi diremmo «biologica») dei popoli di pelle bianca sugli altri abitanti del pianeta, e mettendo in guardia i suoi contemporanei dalla mescolanza con genti di colore, che avrebbe inevitabilmente determinato il declino della civiltà occidentale. Benché francese, Gobineau attribuiva ai tedeschi il primato della purezza razziale, e non sorprende che in Germania, dove già andava sviluppandosi un forte movimento razzista autoctono, la sua visione conquistasse numerosi adepti nei decenni successivi: fra i più noti Wagner, Nietzsche, Hitler. I progressi della genetica in questo secolo hanno confutato le affermazioni di Gobineau: non esistono fattori biologici che conferiscano ai bianchi una superiorità innata. Il colore della pelle e la forma del corpo rappresentano semplici adattamenti al clima di diverse regioni. La nozione di «razza» si applica bene a cani e cavalli, ma non può essere trasferita alla specie umana. Se oggi non è più possibile, se non per ignoranza o in malafede, mantenere una posizione razzista sul piano biologico, rimane però diffuso un razzismo di tipo culturale. Si invoca la superiorità della propria cultura per spiegare le ragioni della ricchezza o del successo della società di cui si è parte. Cosi in Italia ci sono settentrionali che disprezzano i meridionali perché non hanno sviluppato, poniamo, la grande industria, e dappertutto vi è chi giudica primitive le società che non hanno, ad esempio, una letteratura scritta. Negli ultimi cinquecento anni gli europei hanno occupato due interi continenti (America e Australia), rimpiazzando popolazioni che li avevano abitati per decine di migliaia di anni. Hanno portato gli africani a lavorare come schiavi in Europa e in America e hanno imposto il loro potere alla maggior parte del mondo. Ancora oggi, molti sono convinti che ciò sia accaduto perché gli europei dispongono di un'intelligenza superiore. Il lavoro di Jared Diamond fa giustizia di questo pregiudizio, mostrando con chiarezza come le attività umane di cui è fatta la storia siano state rese possibili, in sostanza, dalla geografia e dall'ecologia, che hanno dato un vantaggio di partenza ad alcune regioni particolari. Forse l'alta opinione che gli occidentali hanno avuto di sé per tanto tempo svanirà comunque nel xxi secolo, quando l'asse del mondo si sarà spostato a Oriente. Speriamo almeno che la conoscenza della storia aiuti i futuri padroni del mondo a non essere, a loro volta, razzisti.
Epilogo Io gli direi: le forti disparità tra le vicende dei continenti non sono dovute a innate differenze nei popoli che li abitano, ma alle loro differenze ambientali. Penso che se gli abitanti dell'Australia e dell'Europa si fossero scambiati di posto nel tardo Pleistocene, oggi sarebbero gli aborigeni ad occupare le Americhe, mentre gli europei sarebbero ridotti ad abitare le zone più aride dell'Australia. Certo si tratta di un esperimento impossibile, e forse la mia affermazione non ha senso; ma gli storici sono comunque in grado di valutare la mia ipotesi pensando a casi quasi simili già accaduti. Cos'è successo, ad esempio, quando dei contadini europei furono trapiantati in Groenlandia e nelle Grandi Pianure americane, o quando altri contadini che venivano (in ultima analisi) dalla Cina emigrarono nelle Chatham, nelle foreste pluviali del Borneo o sui suoli vulcanici di Giava e delle Hawaii? Questi esperimenti del passato mostrano che uomini dello stesso popolo si sono estinti, sono ritornati a fare i cacciatori-raccoglitori o hanno costruito società complesse: il tutto a seconda dell'ambiente in cui si trovavano. Certo, i continenti differiscono tra loro sotto innumerevoli aspetti, ognuno dei quali può avere ripercussioni sulla storia di chi li abita. Ma elencarli tutti non può essere una risposta appropriata alla domanda di Yali. Penso che ci si debba concentrare sui quattro più importanti. Il primo riguarda le differenze in fatto di specie selvatiche animali e vegetali adatte per la domesticazione. Questo perché l'agricoltura era necessaria per l'insorgere di due fenomeni - l'aumento della popolazione e la nascita delle élite non produttive grazie ai surplus alimentari - che stanno alla base delle società economicamente complesse, socialmente stratificate, politicamente centralizzate. Gran parte delle specie selvatiche non possono essere domesticate, e le produzioni alimentari della nostra storia si sono basate su un numero abbastanza piccolo di piante e animali. Il numero di specie potenzialmente utili era assai diverso in ogni continente, anche a causa (nel caso dei mammiferi) delle grandi estinzioni del tardo Pleistocene, particolarmente sistematiche in America e in Australia. Alla fine, l'Africa si ritrovò meno ricca dal punto di vista biologico dell'assai più vasta Eurasia, l'America ancora meno e l'Australia meno di tutti - così come la Nuova Guinea, la terra di Vali, grande un settantesimo dell'Eurasia e assai colpita dalle estinzioni. In ogni caso, la domesticazione avvenne in modo indipendente solo in pochissime aree. Risulta qui cruciale un altro insieme di fattori: poiché nel campo della tecnologia e delle idee i popoli importano dall'esterno molto più di quanto inventino, è essenziale che queste possano circolare. La possibilità di diffusione e migrazione all'interno di un continente ha un grosso peso nella storia delle società che lo abitano, che nel lungo periodo tendono a condividere le innovazioni (come ci ha mostrato l'episodio delle «guerre del moschetto» in Nuova Zelanda). I popoli che inizialmente mancano di un oggetto o di una tecnica di grande importanza, posseduti invece dai vicini, in genere o li acquisiscono o soccombono. Ecco quindi che le differenze tra i continenti nascono anche dalla minore o maggiore possibilità di spostamento. In Eurasia questa era molto alta, perché è un continente orientato secondo l'asse est-ovest e ha in genere barriere ecologiche e geografiche non insuperabili. Ciò aiuta molto gli spostamenti di piante e animali, che lungo i paralleli possono trovare condizioni climatiche sempre simili; e aiuta anche la diffusione di certe tecniche, che non devono essere adattate a condizioni ambientali diverse. In Africa e specialmente nelle Americhe l'asse nord-sud e i molti ostacoli geografici rendono questi movimenti di cose e idee più difficili. Anche in Nuova Guinea è cosi, a causa della tormentata orografia dell'isola che ha impedito a lungo, ad esempio, l'unificazione politica e linguistica. Importante è anche lo scambio tra i continenti, non solo al loro interno. Tra l'Eurasia e l'Africa subsahariana negli ultimi 6000 anni c'è stato un intenso flusso, che ha portato la seconda ad adottare quasi tutti gli animali domestici della prima. Nessuna interazione fu mai possibile, invece, con le Americhe, separate dall'oceano alle basse latitudini, e dalle avverse condizioni climatiche a quelle alte. L'Australia, isolata dall'Asia dalle acque dell'arcipelago indonesiano, ricevette da questa solo il dingo. L'ultimo insieme di fattori riguarda l'area e il numero di abitanti. Un continente più vasto e/o più popoloso ospita un maggior numero di società in competizione, e ha in potenza più inventori e invenzioni. C'è anche maggior urgenza ad accettare le novità, perché chi non ci riesce può essere eliminato dai concorrenti. Questo fu il fato dei pigmei e di molti altri popoli di cacciatori-raccoglitori sconfitti dagli agricoltori. E fu anche il fato dei testardi e conservatori coloni della Groenlandia, sconfitti dagli eschimesi che avevano mezzi di sussistenza più adatti a quelle latitudini. L'Eurasia, tra le grandi masse del pianeta, aveva di gran lunga il maggior numero di popoli, mentre l'Australia era particolarmente sfavorita. Le Americhe, nonostante la loro grande area, erano frammentate dalla geografia e dall'ecologia, e funzionavano in realtà come un aggregato di piccoli continenti mal collegati. Tutti questi fattori sono dati da differenze geografiche che possono essere quantificate oggettivamente e non sono opinabili. La mia impressione che i guineani siano in media più intelligenti degli eurasiatici è soggettiva e contestabile; il fatto che la Nuova Guinea sia assai più piccola e abbia meno specie di mammiferi dell'Eurasia è un dato di fatto. Ma se provate a far notare ad uno storico queste differenze, arrufferà le penne e parlerà di «determinismo geografico». È un'etichetta che sembra avere spiacevoli connotazioni, come se chi lo propugna sostenesse che la creatività umana non conta nulla e che noi siamo robot programmati dal clima, dalla fauna e dalla flora. Questo non è affatto vero. Senza la creatività e l'inventiva, a quest'ora staremmo probabilmente mangiando ancora carne cruda e usando attrezzi di pietra. In tutti i popoli esistono persone geniali; è solo che certi ambienti forniscono più materiale con cui partire e condizioni più favorevoli per continuare. Le risposte alla domanda di Yali sono più lunghe e complesse di quanto lui avrebbe voluto. Gli storici, comunque, potrebbero trovarle troppo concise e semplicistiche. Condensare 13000 anni di storia in meno di 400 pagine rende la brevità e la semplificazione necessarie, ma dà anche un vantaggio: la prospettiva a lungo termine e su vaste aree permette intuizioni che uno studio più particolareggiato non consentirebbe. Naturalmente, molti dei problemi sollevati dalla domanda di Yali rimangono irrisolti. Oggi possiamo proporre solo qualche risposta parziale e un programma di ricerca per il futuro. La sfida è quella di trattare la storia dell'umanità come una scienza, alla pari di scienze a carattere storico come l'astronomia, la geologia e la biologia evolutiva; mi è sembrato appropriato concludere il libro con uno sguardo al futuro della storia e con un esame dei problemi irrisolti. Un primo modo per proseguire le ricerche iniziate qui è di tipo quantitativo. Le differenze geografiche e biologiche tra i continenti possono essere individuate più in dettaglio: ad esempio la tabella 8.1 (che riporta la distribuzione delle erbacee a seme grande) potrebbe essere estesa ad altri tipi di colture, come i legumi; e la tabella 9.2 (con i mammiferi candidati alla domesticazione) potrebbe spingersi a spiegare quante sono le specie che falliscono, continente per continente, le varie parti del «test» in cui ho suddiviso la domesticazione. Sarebbe interessante farlo soprattutto per l'Africa, che ha la più bassa percentuale di successo: c'è una caratteristica negativa particolarmente diffusa in Africa, e perché compare proprio lì con maggiore frequenza? Altri tipi di dati che si potrebbero raccogliere riguardano, ad esempio, le velocità precise di diffusione lungo gli assi est-ovest e nord-sud. Un altro modo per continuare l'opera è scendere a scale spaziali e temporali più limitate. Ad esempio, molti lettori si saranno chiesti perché, all'interno dell'Eurasia, furono gli europei e non gli indiani o i cinesi a colonizzare America e Australia, a diventare i più progrediti dal punto divista tecnologico e a dominare il mondo moderno. Uno storico vissuto tra l'8500 a. C. e il 1450 avrebbe avuto difficoltà a prevedere per l'Europa un futuro di preminenza rispetto a India e Cina, che in tutti questi 10000 anni sono state più avanti di lei. Dall'8500 a. C. fino all'ascesa della civiltà greco-romana dopo il 500 a. C., tutte o quasi le maggiori scoperte della porzione occidentale dell'Eurasia sono avvenute nella Mezzaluna Fertile: l'agricoltura e l'allevamento, la scrittura, la metallurgia, la ruota, lo stato e così via. Fino al 900 circa, l'Europa al di là delle Alpi non ha contribuito in modo significativo alla civiltà del Vecchio Mondo, perché riceveva invenzioni e idee dal Mediterraneo, dalla Mezzaluna Fertile e dalla Cina. Anche più tardi, tra il 1000 e il 1450, la scienza in Europa era poco esportata e molto importata, soprattutto dalle società islamiche diffuse dall'India al Nordafrica. In questi stessi secoli la Cina era la più avanzata società al mondo dal punto di vista tecnologico. Quando, allora, la Cina e la Mezzaluna Fertile bruciarono l'enorme vantaggio accumulato con la partenza anticipata sull'Europa? Le cause prossime della preminenza europea sono ben note: la nascita di una classe mercantile, il capitalismo, il concetto di protezione dell'ingegno tramite il brevetto, la mancanza di despoti assoluti, la tradizione critica di origine greco-giudeo-cristiana. Ci chiediamo però cosa abbia portato a tutto questo. Per la Mezzaluna Fertile la risposta è semplice. Una volta esauritasi la spinta iniziale dovuta alla grande disponibilità di specie domesticabili, questa parte del mondo non aveva più alcun vantaggio particolare sulle altre. Dopo la nascita dei primi stati nel iv millennio a. C., il centro mondiale del potere rimase inizialmente in zona, oscillando tra babilonesi, assiri, ittiti e persiani. Con le conquiste di Alessandro Magno alla fine del IV secolo, il potere si spostò, in modo irrevocabile, verso ovest. Dopo l'ascesa di Roma fece un altro passo in quella direzione, e ne fece altri dopo la caduta dell'impero. La causa principale di queste dinamiche ci è chiara non appena associamo il termine «Mezzaluna Fertile» a ciò che oggi rappresenta quella zona. «Fertile» non lo è più di certo, e l'effimera ricchezza di alcuni stati della regione dovuta al petrolio nasconde la realtà di un'area povera, incapace di provvedere al proprio sostentamento. Nei tempi antichi, gran parte della Mezzaluna Fertile e del Mediterraneo orientale (Grecia inclusa) era coperta di foreste. Il modo in cui si è giunti al deserto attuale è stato chiarito da archeologi e studiosi di paleobotanica. Gli alberi sono stati abbattuti per far posto alle colture o per ottenere legno da usare per le costruzioni, come combustibile o per altri usi ancora. A causa delle scarse precipitazioni e quindi della bassa fertilità naturale, la ricrescita della vegetazione non riusciva a tenere il passo con le distruzioni, specialmente in presenza di un grande numero di capre. Venuta meno la copertura vegetale, l'erosione si accentuò e le valli fluviali si coprirono di sedimenti, mentre l'irrigazione causò un accumulo di sali nel terreno. Questi processi, iniziati nel Neolitico, erano ancora presenti in età moderna. Gli ultimi boschi nell'area di Petra, l'antica capitale dei nabatei, furono abbattuti dagli ottomani per la costruzione della ferrovia di Hejaz, alla vigilia della prima guerra mondiale. Le prime società della Mezzaluna Fertile e del Mediterraneo orientale, dunque, ebbero la sfortuna di sorgere in un'area ecologicamente fragile, e commisero un suicidio ecologico distruggendo le loro risorse. All'Europa occidentale e settentrionale questo fato fu risparmiato, non perché fossero abitate da popoli più previdenti, ma perché il loro ambiente era più resistente, con maggiori precipitazioni e rapida ricrescita della vegetazione. Oggi gran parte di queste zone è ancora in grado di ospitare l'agricoltura, 7000 anni dopo il suo arrivo. In Europa arrivarono colture, animali, tecniche e alfabeti della Mezzaluna Fertile, che dopo questi doni si autoeliminò come centro di potere e innovazione. Cosa successe invece alla Cina? I suoi vantaggi iniziali erano molteplici: inizio dell'agricoltura quasi contemporaneo alla Mezzaluna Fertile; grande diversità ecologica da nord a sud e dalla costa all'interno, con conseguente ricchezza di colture, animali e tecniche; area grande e produttiva, e popolazione assai numerosa; ambiente meno arido e fragile di quello del Vicino Oriente - tanto che la Cina è ancora coltivata oggi, a 10000 anni dalla nascita dell'agricoltura, anche se con problemi ambientali sempre più gravi e più seri di quelli europei. Questi vantaggi le permisero nel Medioevo di diventare la prima nazione tecnologica al mondo. Qui furono inventati tra le altre cose la ghisa, la bussola, la polvere da sparo, la carta, la stampa e tanto altro. Era una straordinaria potenza marittima, che nei primi anni del XV secolo era in grado di allestire flotte di centinaia di navi lunghe anche 120 metri, con equipaggi di 28000 uomini, che si spingevano fino alle coste orientali dell'Africa. Perché queste formidabili navi non doppiarono il Capo di Buona Speranza e arrivarono in Europa, prima che Vasco de Gama facesse il percorso opposto? Perché non attraversarono il Pacifico arrivando in America prima di Colombo e delle sue tre piccole navi? In breve, cosa fece perdere alla Cina la sua supremazia tecnologica? La fine di questa grande flotta ci da un indizio prezioso. Sette di queste grandi spedizioni partirono dalla Cina tra il 1405 e il 1433. Furono sospese all'improvviso a causa di un'aberrazione politica: la lotta di potere all'interno della corte tra la fazione degli eunuchi e i loro avversari. I primi erano i responsabili della marina, per cui quando i secondi vinsero bloccarono le spedizioni, smantellarono la flotta e proibirono la navigazione transoceanica. È un episodio che ricorda il rifiuto delle autorità inglesi di passare all'illuminazione elettrica, l'isolazionismo degli Stati Uniti tra le due guerre, e molti altri passi indietro motivati da beghe politiche locali. Ma in Cina la cosa era più grave, perché l'intera regione era unita in un impero. Una decisione di pochi fermò la navigazione in Cina, e da temporanea divenne definitiva, perché non rimasero più cantieri che avrebbero potuto, in seguito, costruire altre navi. Per contrasto, vediamo cosa avvenne prima di una ben nota spedizione partita dalla frammentata Europa. Colombo, italiano di nascita, era inizialmente al servizio del duca d'Angiò e poi del re del Portogallo. Quando questi si rifiutò di fornirgli le navi, egli si rivolse al conte di Medina-Celi, e infine ai regnanti di Spagna, che in principio nicchiarono ma alla fine si decisero a finanziarlo. Se l'Europa fosse stata unita sotto il dominio di uno dei tre che rifiutarono, la scoperta dell'America avrebbe corso gravi rischi. Quando la Spagna iniziò la sua conquista, altri stati si accorsero della ricchezza che affluiva dal Nuovo Mondo e sei si affrettarono a unirsi all'impresa. La stessa cosa accadde per i cannoni, l'illuminazione elettrica, la stampa, le pistole e mille altre invenzioni: c'era sempre qualche regnante che si opponeva per sue personali idiosincrasie, ma una volta che la cosa era adottata in una nazione si diffondeva alla fine in tutta Europa. In Cina accadeva l'esatto opposto. Per motivi apparentemente inspiegabili, furono banditi gli orologi, i filatoi ad acqua, e dopo la fine del XV secolo quasi tutta la tecnologia meccanica. Questi effetti perversi dell'omogeneità politica si fanno sentire ancora nel nostro secolo, come accadde con la follia della Rivoluzione Culturale degli anni sessanta e settanta, in cui per decisione di pochi uomini le scuole del paese furono virtualmente chiuse per cinque anni. L'unità della Cina e la disunità dell'Europa hanno una lunga storia. Le aree più significative della prima furono unite per la prima volta nel 221 a. C., e con brevi interruzioni lo sono rimaste fino a oggi. Il sistema di scrittura fu sempre lo stesso fin dalle origini, la lingua anche per molto tempo, e la cultura sostanzialmente omogenea da duemila anni. L'Europa invece non si è neanche avvicinata all'unificazione: era divisa in un migliaio di staterelli nel XIV secolo, che si ridussero a 500 nel 1500, arrivarono al minimo di 25 negli anni ottanta e oggi (nel momento in cui scrivo) sono quasi 40. In Europa ci sono 45 lingue, ognuna con il suo alfabeto modificato, e una diversità culturale ancor maggiore. Anche i blandi tentativi di unificazione politica nell'Unione europea incontrano oggi mille ostacoli. Il vero problema connesso con la perdita di preminenza della Cina sta nella sua immutabile unità, e nella cronica disunità europea. La risposta può venirci da uno sguardo alla carta. L'Europa ha una linea costiera più frastagliata, con cinque grandi penisole abbastanza isolate, in ognuna delle quali sono sorte lingue e culture caratteristiche: la Grecia, l'Italia, la penisola iberica, la Danimarca e la Scandinavia. La costa della Cina è meno accidentata, e l'unica penisola importante è la Corea. In Europa ci sono due isole (Gran Bretagna e Irlanda) abbastanza grandi da esser diventati stati indipendenti con lingue ed etnie ben definite (una arrivò ad essere una delle principali potenze europee). Le isole più grandi della Cina, Hainan e Taiwan, sono la metà dell'Irlanda; nessuna è stata una potenza indipendente, salvo Taiwan negli ultimissimi anni. Il Giappone, per contro, era molto più isolato dalla Cina di quanto l'Inghilterra lo fosse dal continente. L'Europa è suddivisa in unità etniche, linguistiche e politiche da alte catene di monti, mentre la Cina, ad est del Tibet, non ha barriere di questo tipo. In compenso è attraversata da ovest a est da due grandi fiumi navigabili, con un ampio bacino e una fitta rete di canali che facilitano le comunicazioni. Grazie a ciò, sorsero molto presto due soli centri dominanti che l'assenza di barriere fece alla fine riunire. I fiumi d'Europa non sono cosi lunghi e non uniscono molte aree diverse; nacquero dunque vari centri di preminenza, nessuno abbastanza grosso da dominare gli altri stabilmente. Dopo l'unificazione del 221 a. C. nessun'altra realtà locale poteva avere la possibilità di resistere a lungo in Cina; ci furono periodi di temporaneo sbandamento, ma alla fine l'unità tornò sempre. L'Europa non fu mai unificata del tutto, nonostante gli sforzi di Carlo Magno, Napoleone e Hitler; anche l'impero romano nella sua massima espansione non ne copriva più di metà. La geografia diede alla Cina un vantaggio iniziale, e i suoi diversi centri di agricoltura e innovazione poterono tutti scambiarsi colture e idee: ad esempio, il miglio, il bronzo e la scrittura arrivarono dal nord, il riso e la ghisa dal sud. Questa assenza di barriere - in questo libro da me sempre sottolineata come grande beneficio - alla fine le si ritorse contro, perché permise un'uniformità assoluta in cui la decisione di un despota poteva cambiare il corso della tecnologia. L'Europa invece si ritrovò divisa in decine o centinaia di stati indipendenti in continua competizione, che erano costretti ad accettare le innovazioni per poter sopravvivere: le barriere geografiche erano sufficienti a prevenire l'unificazione politica, ma non il passaggio delle idee. Nessuno mai in Europa potè spegnere la luce come in Cina. Quanto abbiamo visto mostra che la facilità di contatti ha avuto effetti sia positivi sia negativi sul progresso tecnologico. Come tendenza di lungo periodo, le aree favorite sono probabilmente quelle moderatamente collegate. L'evoluzione degli ultimi mille anni in Cina, Europa e (forse) India mostra gli effetti di una connessione rispettivamente alta, media e bassa Altri fattori, ovviamente, contribuirono alle differenze. La Mezzaluna Fertile, la Cina e l'Europa erano anche variamente esposte alle minacce esterne, soprattutto dei pastori nomadi dell'Asia centrale. Uno di questi gruppi (i mongoli) arrivò a distruggere i canali di Iran e Iraq, ma nessuno riuscì a penetrare nelle foreste dell'Europa centrale oltre la piana ungherese. Altri fattori ambientali sono ad esempio la posizione centrale della Mezzaluna Fertile nel controllo del commercio tra Cina, India ed Europa, e l'isolamento della Cina, che la rende una sorta di enorme isola continentale. Ricordando quanto abbiamo detto nei capitoli xin e xv a proposito della Tasmania e di altre zone, questo isolamento potrebbe spiegare alcuni suoi passi indietro. Comunque sia, questo discorso mostra che i fattori ambientali sembrano contare anche a scale più piccole, nel tempo e nello spazio. Qui c'è anche da trarre una salutare lezione: le condizioni cambiano, e la supremazia nel passato non garantisce quella nel futuro. Forse le diversità geografiche su cui in questo libro tanto si è insistito non hanno più senso nel mondo moderno, dove le nuove idee si diffondono istantaneamente su internet e le merci si spostano in aereo da un continente all'altro. Le future competizioni tra i popoli della Terra si svolgeranno secondo nuove regole, e potranno emergere nuove potenze - come sembrerebbe con Taiwan, la Corea, la Malaysia e soprattutto il Giappone. Ma pensandoci bene le nuove regole non sono che varianti delle vecchie. È vero, il transistor inventato negli Stati Uniti nel 1947 fece un salto di migliaia di chilometri e diede inizio all'industria elettronica giapponese - ma non fece un salto più corto per approdare in Congo o in Paraguay. Le nazioni che arrivano al potere sembrano quelle vicine agli antichi centri di produzione agricola, o quelle popolate da chi proveniva da quei luoghi. Il Giappone, al contrario del Congo, fu abile a sfrattare la tecnologia del transistor perché i suoi abitanti avevano alle spalle una lunga storia di alfabetizzazione, tecnologia e governo centralizzato. La Mezzaluna Fertile e la Cina, culle dell'agricoltura, dominano ancora il mondo, grazie ai loro discendenti diretti (la Cina moderna), o ai popoli vicini da loro influenzati (il Giappone, la Corea, l'Europa), o alle colonie di questi ultimi (le Americhe, l'Australia, il Brasile). Le prospettive di un futuro dominio degli africani, degli aborigeni o degli indiani americani rimangono assai scarse. La morsa degli avvenimenti dell'8000 a. C. è ancora forte. Per rispondere alla domanda di Yali non possiamo trascurare i fattori culturali e il ruolo di alcuni singoli individui nella storia. Circa i primi, molti sono un prodotto della variabilità ambientale, come abbiamo visto con numerosi esempi. Ma potrebbero (come ci dice la teoria del caos) esserci fattori locali, minori, che per motivi banali si fissano e predispongono un'intera società a scelte importanti. Queste potrebbero essere le variabili che rendono la storia imprevedibile. Nel capitolo XIII ho parlato della tastiera QWERTY, che fu adottata all'inizio per motivi banali dovuti alla costruzione delle prime macchine per scrivere nel 1860, alla loro diffusione commerciale, alla sua adozione nel 1882 da parte di una certa signora Longley, fondatrice di una scuola di dattilografia a Cincinnati, e ai successi del suo allievo prediletto Frank McGurrin, che umiliò un concorrente dotato di tastiera non-QWERTY in una competizione molto pubblicizzata nel 1888. In tutti questi stadi, la preferenza avrebbe potuto cambiare e andare per caso a un altro tipo di tastiera: non c'era niente nell'ambiente americano che favorisse in modo intrinseco la QWERTY. Una volta presa la decisione, però, non si tornò più indietro, e un secolo dopo i computer si ritrovarono con Guglielmo il Conquistatore e il re zulù Shaka, tanto per fare qualche nome. Qual è la loro vera importanza? Ad un estremo c'è la visione dello storico Thomas Carlyle, secondo cui «la storia universale è in fondo la storia dei Grandi Uomini che la fecero». All'altro c'è quella di Bismarck, che al contrario di Carlyle aveva molta pratica dei meccanismi politici: «Compito di uno statista è ascoltare i passi di Dio che marcia attraverso la storia, e cercare di salire sulle Sue code». Anche le idiosincrasie individuali sono schegge impazzite della storia. Forse vanificano la ricerca di cause generali, ma per gli scopi di questo libro sono irrilevanti. Anche il più acceso sostenitore dell'importanza dei Grandi Uomini non riuscirebbe mai a interpretare il corso più ampio della storia con questo principio. Forse Alessandro il Grande diede un colpetto alle vicende di un'Eurasia che già conosceva l'agricoltura, la scrittura e il ferro, ma la sua persona non aveva nulla a che vedere con la nascita e lo sviluppo di questi fattori fondamentali, né con il fatto che mancassero in Australia. La questione dell'importanza e della durata delle influenze individuali rimane comunque aperta. La storia non è in genere considerata una scienza: si parla di «scienza della politica», di «scienza economica», ma si è restii a usare l'espressione «scienza storica». Gli stessi storici non si considerano scienziati, e in genere non studiano le scienze sperimentali e i loro metodi. Il senso comune sembra recepire questa situazione, con espressioni come: «La storia non è che un insieme di fatti», oppure: «La storia non significa niente». Non si può negare che sia più difficile ricavare principi generali dallo studio delle vicende umane che da quello dei pianeti; ma la difficoltà non mi sembra insormontabile. Molte scienze «vere» ne affrontano di simili tutti giorni: l'astronomia, la climatologia, l'ecologia, la biologia evolutiva, la geologia e la paleontologia. Purtroppo l'immagine comune delle scienze è basata sulla fisica e su altri campi che applicano gli stessi metodi, e i fisici non tengono in gran conto le discipline come quelle indicate sopra - dove opero anch'io, nel campo dell'ecologia e della biologia evolutiva. Ricordiamoci però che la radice della parola scientia sta nel verbo scire, cioè conoscere; e la conoscenza si ottiene con i metodi appropriati alle singole discipline. Ecco perché sono solidale con gli studenti di storia. Le scienze storiche intese in questo senso allargato hanno molte caratteristiche in comune che le rendono diverse dalla fisica, dalla chimica e dalla biologia molecolare. Ne isolerei quattro: metodologia, catena di cause ed effetti, previsioni e complessità. Il metodo principe per acquisire conoscenza in fisica è l'esperimento, in cui si manipolano i parametri il cui effetto si sta indagando, si esegue un esperimento di controllo con i parametri costanti, si ripete il processo più volte e si ottengono dati quantitativi. Questa strategia è cosi radicata che viene identificata dal senso comune con la scienza tout court. Certo non può essere usata dalle scienze storiche: non si può interrompere la formazione delle galassie, fermare e far ripartire gli uragani, far estinguere sperimentalmente gli orsi o ripetere in laboratorio l'evoluzione dei dinosauri. La conoscenza, in questi campi, arriva dall'osservazione, dall'analogia e dagli esperimenti naturali. Le scienze storiche si preoccupano di trovare le cause prossime e remote dei fenomeni. In fisica concetti come «causa remota», «scopo» e «funzione» sono senza senso, eppure sono utili per capire i sistemi viventi. Uno studioso di biologia evolutiva che si accorge che le lepri artiche diventano bianche in inverno e marroni in estate non si accontenta di conoscere i fenomeni biochimici che regolano la muta, ma vuole sapere qualcosa sulla funzione (evitare i predatori?) e sulle cause remote (selezione naturale?) A uno storico non basta sapere che l'Europa del 1815 del 1918 aveva appena raggiunto la pace: vuole capire perché pochi anni dopo la seconda, e non dopo la prima, scoppiò un'altra guerra globale. I chimici, invece, non cercano uno scopo in una collisione tra due molecole, né le cause remote di quello scontro. Un'altra differenza riguarda la previsione. In chimica e in fisica una teoria ha successo se riesce a prevedere correttamente il comportamento futuro di un sistema. Nelle scienze storiche possiamo dare spiegazioni a posteriori (ad esempio perché l'impatto di un asteroide 66 milioni di anni fa ha causato l'estinzione dei dinosauri) ma è difficile fare previsioni a priori (quale specie si estinguerà) senza una dettagliata conoscenza del presente. In alcuni casi si fanno previsioni su cosa i dati futuri ci potranno mostrare del passato. I sistemi storici sono estremamente complessi, perché sono caratterizzati da un numero enorme di variabili correlate. Piccoli cambiamenti a basso livello possono avere grandi effetti ad alto livello (un camion non frena in tempo nel 1930 e milioni di vite umane si salvano). Molti biologi affermano che un sistema vivente è in ultima analisi determinato dalle sue componenti fisiche e dalle leggi della meccanica quantistica; ma la sua complessità implica che le leggi deterministiche a livello elementare non si traducono in fenomeni generali prevedibili. La meccanica quantlstica non ci fa capire perché l'arrivo dei predatori placentati ha causato l'estinzione di molti marsupiali australiani, o perché gli Alleati hanno vinto la guerra. Ogni ghiacciaio, nebulosa, uragano, società e specie - e anche ogni cellula delle specie sessuate - è unico, perché è governato da molte variabili ed è fatto di molte parti; mentre le particelle elementari di un fisico sono identiche per ogni tipo. Ecco perché quest'ultimo può formulare leggi deterministiche universali, mentre un biologo e uno storico cercano tendenze di natura statistica. Con buona possibilità di non sbagliarmi, posso affermare che tra i prossimi 1000 nati allo University of California Medical Center, dove lavoro, i maschietti saranno non meno di 480 e non più di 520. Ma non potevo prevedere che i miei due figli sarebbero stati maschi. Gli storici si accorgono che una tribù ha più probabilità di diventare una cbefferìe se la sua popolazione è densa e numerosa e se c'è il potenziale per un surplus alimentare; ma non potevano dire che le chefferìes si sarebbero formate in Messico, Guatemala, Perù e Madagascar, e non in Nuova Guinea e a Guadalcanal. Nei sistemi storici, inoltre, lunghe catene di cause ed effetti possono separare il risultato finale dalle cause remote, magari appartenenti ad altri campi di studio. I dinosauri sono stati probabilmente sterminati da un asteroide, la cui orbita era completamente determinata dalla meccanica celeste. Ma un paleontologo di 67 milioni di anni fa non avrebbe potuto prevedere la loro imminente fine, perché mai avrebbe pensato agli asteroidi. Similmente la Piccola Era Glaciale del 1300-1500 causò la fine della colonia norvegese in Groenlandia, ma nessuno storico (e nessun climatologo, probabilmente) avrebbe potuto prevederla. Le difficoltà degli storici sono spesso quelle di chi si occupa di astronomia, climatologia, ecologia, biologia evolutiva, geologia e paleontologia. In vari modi, tutte queste discipline soffrono dell'impossibilità di far esperimenti controllati, della complessità insita nell'enorme numero di variabili, dell'unicità di ogni sistema, dell'impossibilità di formulare leggi universali e previsioni sul comportamento futuro. La previsione, in realtà, è possibile solo su larga scala spaziale e temporale: cosi come potevo prevedere il rapporto fra i sessi in 1000 neonati ma non il sesso dei miei figli, posso dire quali sono i fattori che hanno governato lo scontro tra America ed Eurasia, ma non prevedere chi vincerà le elezioni. I dettagli di un dibattito televisivo possono far cambiare l'esito di una votazione, non il fatto che gli europei conquistino l'America. Come possono gli studiosi di storia trarre profitto dalle altre scienze? Adottando un metodo che si è rivelato utile: quello dell' esperimento naturale. Nell'esperimento naturale si confronta il comportamento di due sistemi in assenza o in presenza (o con effetti forti o deboli) di un dato fattore. Gli epidemiologi non possono somministrare sperimentalmente grandi quantità di sale alla popolazione, ma possono identificare gli effetti dell'assunzione di sale confrontando due gruppi che «naturalmente» differiscono per questo particolare. Gli antropologi culturali non possono togliere e dare risorse a piacere ai popoli che studiano, ma possono (come abbiamo fatto nel capitolo li) verificare come si siano comportate le società polinesiane in presenza di diversi ambienti naturali. Molti altri esperimenti naturali si possono fare in questo modo, comparando magari le società insulari che si sono sviluppate in sostanziale isolamento (Giappone, Madagascar, Hispaniola, Nuova Guinea, Hawaii e molte altre), o le popolazioni locali all'interno di aree omogenee. Gli esperimenti naturali si prestano ovviamente a critiche di carattere metodologico. Possono essere accusati di individuare erroneamente gli effetti della variazione naturale in quelle che sono in realtà variabili addizionali, o di inferire non sempre correttamente cause ed effetti a partire dalla correlazione delle variabili. Sono obiezioni studiate in dettaglio, perlomeno in alcune scienze storiche. L'epidemiologia impiega da tempo con successo delle procedure standardizzate per risolvere problemi simili a quelli che sorgono nello studio della storia. Anche gli ecologi hanno dedicato molta attenzione alla questione, e usano l'esperimento naturale quando l'intervento diretto sulle variabili ambientali è immorale, illegale o impossibile. In biologia evolutiva si usano ora metodi anche più raffinati per giungere a conclusioni attraverso l'esame comparato di alcune specie la cui storia evolutiva è nota. In breve, riconosco che comprendere i meccanismi della storia è molto più complesso che comprendere quelli dei fenomeni deterministici. Però esistono metodi per analizzare i problemi di carattere storico che funzionano bene in molte discipline: per questo motivo, le vicende delle nebulose, dei dinosauri e dei ghiacciai sono in genere classificate come «scienze». Ma l'introspezione ci può far conoscere molto più sulla storia degli uomini che su quella dei dinosauri. Ecco perché sono ottimista, e penso che lo studio storico delle società umane potrà essere affrontato con metodi simili a quelli delle altre scienze. Faremo un grande regalo alla nostra società se capiremo cosa ha plasmato il mondo moderno, e cosa potrebbe plasmare il futuro. |