Mattinata splendida a Mosca: temperatura ideale, cielo sereno, fiumi di gente in giro dappertutto. I nostri inviati imparano subito che un cappuccino nella capitale russa non è come a Roma (infatti costa quasi 4 euro), e che i problemi derivanti dalla burocrazia non finiscono mai: la sospirata consegna della tessera di accreditamento del MID (ministero degli esteri) slitterà di “qualche giorno” perché, racconta il peraltro gentilissimo funzionario, “il capufficio sta lasciando il posto e quello nuovo deve ancora insediarsi”. Insomma, tocca aspettare. Nell’attesa, incontriamo il vecchio amico Kolja Bogdanov, che ci accompagnerà per tutto il viaggio e che è il nostro manager, press agent, organizzatore nonché baby sitter (insomma, baby…). Dopo aver prestato un doveroso omaggio a Carlo Marx effigiato davanti al teatro Bolshoj, tentiamo una (prima) visita a un dirigente del Partito comunista russo, che si occupa di politiche agricole e che per telefono ci ha promesso un aiuto per visitare delle fattorie rimaste “collettive”. La visita avviene nel suo ufficio alla Duma (è deputato e vicepresidente di una commissione), dopo severissimi controlli di sicurezza; ma è una visita assai deludente: pochi minuti in tutto, iniziati con un poco incoraggiante “sono occupato facciamo in fretta”, proseguiti con un “abbiamo scritto tutto quel che vi può interessare sulla Pravda di ieri” e terminati con un “allora ok, abbiamo finito, per la visita alla fattoria chiamatemi domani”. Grazie e arrivederci. Il suo assistente è più gentile e cerca perlomeno di scambiare qualche battuta, ma insomma è chiaro che la disponibilità è alquanto limitata - almeno per quanto riguarda il contatto diretto. Niente di diverso dai tempi dell’Urss, da questo punto di vista: il dirigente politico “medio” odiava e odia la discussione, l’esposizione del proprio pensiero; amava e ama il doklad, il rapporto formale fatto di cifre e tabelle, assoluto e indiscutibile, “oggettivo” per definizione anche se magari inventato dall’inizio alla fine. L’incontro merita di essere seguito da una visita al “cimitero delle statue”, cioè il nuovo Museo all’aperto della scultura, dove sono state collocate, tra le altre, molte statue e monumenti dell’epoca sovietica, rimossi negli anni Novanta dalle collocazioni originarie. Primeggia, anche per dimensioni, la gigantesca statua di Felix Edmundovic Dzerzhinskij: il creatore della CeKa, antesignana dei servizi segreti (evolutasi poi in NKVD, GPU, KGB, fino all’attuale FSB) dominava la piazza della Lubjanka - dove appunto sorge la tenebrosa sede della polizia politica - fino all’agosto ‘91; fallito il putsch antigorbacioviano, venne rimossa e portata qui. Poco distanti si trovano le figure del primo capo del governo sovietico Sverdlov, un marmo rosso di Stalin, vari Breznev marmorei, vari bronzei operai muscolosi con grossi martelli e via dicendo. Mario ne è affascinato quasi quanto dalla folla nella metropolitana, e scatta miriadi di fot Una giornata tutta di appuntamenti in giro per la città: un piccolo assaggio del mondo intellettuale moscovita, chiamato con presunzione dal manifesto a pronunciarsi nientemeno che sui legami tra la società russa odierna, stretta fra un capitalismo rampante e uno stato autoritario e paternalista, e gli ideali innovativi della Rivoluzione d’Ottobre, novant’anni più tardi. Il primo incontro è con il critico d’arte Victor Misiano, che proprio di questo tema si sta occupando attraverso una serie di mostre di nuovi artisti. Misiano ci accoglie nel suo studio-negozio in uno dei quartieri più chic della capitale e ci traccia un ritratto folgorante della nuova gioventù russa, accomunata paradossalmente al pionerismo volontarista dei bolscevichi dall’amore per il lavoro, per la produzione - anche se oggi mirata al benessere individuale e non al progresso sociale, il che fa una bella differenza. A poca distanza, dall’altro lato della famosissima piazza Pushkin, la redazione della rivista Novyi Mir, un tempo portabandiera del dissenso intellettuale con Pasternak e Tvardovskij, offre un panorama di gravi difficoltà: mobili cadenti, scale vecchie e fetide, un senso di tristezza. Il suo direttore Andrej Vasilevskij ci spiega come il trait d’union tra vecchia e nuova Russia sia costituito dal “bisogno di giustizia”, intesa come giustizia sociale. Una corsa poi fin davanti alla terrificante nuova cattedrale del Cristo Salvatore (costruita alla fine dell’800, abbattuta da Stalin, ricostruita da Eltsin nel ‘93), dove ha sede l’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle scienze e dove il professor Valery Podoroga vede l’eredità del passato soprattutto nell’assenza, nei russi, di una piena comprensione del senso della proprietà individuale (teoria assai interessante). E infine, insieme alla redattrice della rivista letteraria Znamja Larissa Spiridonova, un viaggio fino alla dacia del poeta Andrej Vosnesensky, nei boschi del “villaggio degli scrittori” di Peredelkino. Vosnesensky è uno dei vati della Russia postbellica, insieme a Evtushenko; nonostante i guai fisici che lo affliggono dopo un grave incidente d’auto, pubblica ancora potenti raccolte di poesie e di opere poetico-grafiche, e non risparmia frecciate al potere, ai suoi metodi e ai suoi obiettivi. L’aiuto promessoci da un alto dirigente del Kprf (acronimo che sta per Partito Comunista della Federazione Russa) si concretizza subito in un viaggio alle porte di Mosca per visitare delle aziende agricole e constatarne, parlando con i contadini, il degrado rispetto all’epoca sovietica. C’è qualche piccolo paradosso - per esempio che veniamo portati in campagna con una lussuosa e nuovissima limousine tedesca dai sedili in pelle e i vetri affumicati, accompagnati da un gentilissimo deputato regionale comunista che di agricoltura non sa assolutamente nulla (però è proprietario di un ristorante in città, dove poi ci offrirà un sontuoso pranzo); e c’è anche qualche piccola difficoltà imprevista - per esempio che su un totale di sei ore e mezza di escursione ne partono quattro chiusi in macchina in un traffico che definire infernale è poco, due per visitare la casa-museo di Lenin, restando una mezz’ora scarsa in cui un simpatico ex agronomo dell’ex kolkhoz locale, sul bordo di un campo, ci racconta le miserie e le sfortune dei contadini del distretto (restando peraltro piuttosto vago sul fatto che oggi lavorano quasi tutti in fabbrica). Ma nel complesso la gita è interessante e piena di spunti, anche se non molto esaustiva circa le condizioni delle campagne. Per esempio è interessante sentire come un po’ alla volta le autorità stiano cercando di trasformare il museo di Lenin - cioè la casa dove il leader rivoluzionario passò gli ultimi accidentati anni della sua vita e infine morì, nel gennaio del ‘24 - in un museo della vita nobiliare prerivoluzionaria: Lenin occupò sempre solo una parte della villa di campagna nazionalizzata appena dopo la rivoluzione, lasciando il resto delle stanze più o meno come stava; ora i soldi statali stanno andando in misura sempre maggiore verso l’arricchimento di quelle stanze “non leniniane”, mentre la parte tenuta per settant’anni come un sacrario viene trascurata (finanziariamente) e forse destinata alla chiusura. Ma del resto anche il nostro accompagnatore, deputato comunista, ci confessa di non aver mai visitato prima questo museo… Quanto ai nostri due inviati, Mario si è ovviamente entusiasmato esaminando i gloriosi reperti leniniani - documenti, foto, un disco con la voce del leader, imponenti diorami con scene rivoluzionarie; Astrit sacrilegamente ha voluto sedersi sulla panchina che Vladimir Ilic prediligeva - ma lo ha fatto in compagnia del primo segretario del Partito del distretto, dunque senza rischi di scomuniche. Domani, in ogni caso, il pellegrinaggio in casa comunista continuerà, e ad alto livello… Una giornata intensissima a Mosca, con due visite di grande livello: nella redazione della Pravda e nel teatro di Yurij Ljubimov. Due istituzioni - il giornale e l’uomo di teatro - quasi coetanee: Ljubimov compie fra poco novant’anni, la Pravda era stata fondata da Lenin poco prima della sua nascita. Ma la loro parabola, almeno per ora, appare abbastanza diversa: il giornale, per settantacinque anni voce potentissima nell’Urss e nel mondo, oggi ha una tiratura più o meno come quella del manifesto, e campa stentatamente dopo aver attraversato vicissitudini drammatiche; il regista invece, dopo le difficoltà della lunga stagione di lavoro sotto l’occhiuto controllo del partito, oggi spazia allegramente e in gloria per l’intero spettro del repertorio possibile, tutto allegro all’idea delle prossime vacanze in Italia. Come che sia, entrambi ci accolgono con una cordialità e una disponibilità straordinarie. Alla Pravda c’è quasi un gemellaggio con i “compagni del manifesto”, il direttore e il redattore politico ci intrattengono per ore, davanti a un enorme mappamondo regalato dal maresciallo Zukov, eroe vincitore della guerra contro Hitler, colmandoci anche di omaggi legati alla storia del giornale. Fa un po’ impressione trovarsi a chiacchierare cordialmente, da pari a pari, discutendo di tirature, orari di stampa, sponsor e impaginazione col direttore di un giornale che dettava legge a mezzo mondo. Ma i tempi cambiano, e molto: fa ancora più impressione che nel grande palazzo da molti decenni sede del giornale oggi la Pravda occupi solo poche stanze, accanto a rivistine e giornaletti qualsiasi; peggio ancora, che nell’atrio a pianterreno occorra chiedere a diverse persone prima di trovarne una che sa dove sia la redazione. Al teatro Taganka, il regno di Ljubimov, l’atmosfera è professionale e rilassata, tutti sembrano di buon umore (deve andare in scena la “prima” di una pièce del poeta inglese Tony Harrison); ma anche qui non mancano le curiosità “à la russe”. In nostra presenza, il maestro in persona deve prendere il telefono e chiamare un suo amico generale dell’esercito per procurarsi in tutta fretta un po’ di polvere da sparo, necessaria alla messa in scena, che si trova in vendita in tutte le armerie ma solo a chi esibisce un tesserino di cacciatore: non c’è notorietà che tenga, i venditori non transigono e i due cacciatori cui i trovarobe sono finora ricorsi hanno rifiutato di prestarsi all’acquisto “per non rischiare di essere accusati di terrorismo”. Così Ljubimov deve chiamare il generale per cercar di risolvere l’inghippo con i rapporti personali. Dove i nostri eroi ottengono – attraverso amicizie – il permesso di visitare una clinica, reparto maternità, e aggirarvisi da padroni insieme alla direttrice Elena P. È una clinica periferica, in un paesino a un’ora di treno da Mosca: ma appare subito molto efficiente e ben curata, con delle palazzine in un grande parco; le attrezzature non sono stratosferiche, ma sono comunque complete (incubatrici e macchinari per trattamento dei neonati “problematici”, prematuri, ecc.) e il personale, completamente femminile, è numeroso, attento e davvero cordiale. L’atmosfera è molto positiva e allegra, una specie di grande famiglia di donne – escluso qualche neonato maschio e il terzetto dei maturi inviati del manifesto – e possiamo assistere direttamente a un parto (dei più facili, per fortuna), con relativi applausi e congratulazioni all’inconsapevole e piangente ma sanissimo Ivan e alla povera Lena, la mamma, un po’ frastornata ma tutto sommato felice nonostante noi. Altre mamme si prestano volentieri a posare per Mario con le loro creature. Di padri non si vede neanche l’ombra: non che sia vietata la loro presenza, ci viene spiegato, anzi se vogliono possono assistere al parto, aiutare, insomma fare come credono; ma “non usa” – non usa neanche stare un po’ con le proprie compagne e i propri neonati, a quanto pare – e quindi l’unico uomo che vediamo nelle due ore trascorse alla clinica sarà, nel giardino, il marito della direttrice, impegnato a fumare e a dare una sistemata alla macchina. Per noi questo è un po’ strano, ma in clinica lo considerano normale, quasi ovvio. Sarà, ma il dubbio che tutto ciò sia indice di rapporti familiari e di coppia un po’ difficoltosi, rimane. Interessanti sono invece le informazioni che ci vengono date durante la visita: per esempio sulla politica di incentivazione demografica delle autorità, dopo molti anni di disinteresse completo. La clinica di maternità viene ora sovvenzionata molto bene con fondi del governo regionale, per tenere le migliori attrezzature e una dotazione di farmaci completa (il tallone d’achille nella maggior parte dei nosocomi russi); tutto il trattamento – dai controlli in gravidanza al ricovero per il parto ai controlli successivi – è completamente gratuito per tutti; e le madri al secondo figlio ricevono un credito a fondo perduto di circa 8.000 euro, utilizzabile per acquisto di prodotti per l’infanzia o per l’educazione dei bambini. E le nascite, dice la direttrice Elena, sono abbastanza sostenute: il problema demografico russo non sta nella scarsità di neonati ma nella prematurità dei decessi. Non resta che fare un salto al cimitero – quello famoso, accanto al monastero di Novodevici, dove sono le tombe dei grandi di Russia. Majakovskij ci guarda un po’ dall’alto in basso, ma con comprensione. In serata, partenza per San Pietroburgo, la culla della rivoluzione. Giornata poco produttiva a San Pietroburgo. Appuntamenti che saltano, iniziative che non riescono o riescono solo in parte. Cacciati dall’ostello “Stella Rossa”, si torna alla carica con il tradizionale albergo “Ottobre”, e finalmente la nostra scelta rivoluzionaria va in porto: ci costa caro, e sarà solo per una notte, ma una stanza rumorosissima nell’hotel delle rimembranze leniniste la otteniamo. Poi si cerca senza troppa fortuna di penetrare nel tempio della danza russa, il teatro Kirov, ora teatro Mariinskij (sarebbe “di Maria”, intesa non come la Madonna ma come la principessa imperiale che lo fece costruire nell’Ottocento). Ci vien detto che dovremmo prima accordarci con il direttore commerciale del teatro per i diritti sulle foto, e decidiamo di lasciar perdere. Una corsa in mezzo a un traffico impazzito, nelle mani di un autista uzbeko che non ha la minima idea delle strade pietroburghesi e pensa che la guida consista solo nel premere l’acceleratore più forte possibile, e finiamo a intervistare un poeta ebreo ex dissidente, Aleksandr Kushner, che ci racconta le sue passate pene e la sua comprensibile avversione per l’Ottobre e il regime che ne seguì; anche oggi, peraltro, Kushner non ha l’aria di passarsela troppo bene, almeno dal punto di vista economico. Ma si sa che i poeti raramente sono ricchi. Pranzo in un piccolo caffè di periferia gestito da una signora armena, poi un pomeriggio a zonzo per la città, compresa una visita d’obbligo al museo dell’Ermitage, cioè al Palazzo d’Inverno, gremito di turisti; la sera, mentre Mario e Kolja continuano a girare in cerca di foto significative, Astrit si concede una cena con amici pietroburghesi in un ristorantino dal nome programmatico, “La via della Rivoluzione”, ovvero “Viva i pranzi del comunismo” (che riprende uno slogan tipico del settantennio, con un gioco di parole intraducibile tra “Objeda” e “Pobjeda”, cioè “pranzi” e “vittoria”). Si può dire che sia un locale alla moda, visto che di ristoranti e caffè ispirati alla nostalgia dei tempi sovietici cominciano ad essercene parecchi in giro per la Russia: l’arredo è tipico degli anni ’60, i muri sono tappezzati di manifesti e striscioni dell’epoca, le cameriere hanno divise in tono e soprattutto la birra e’ artigianale, all’antica, e i piatti sono quelli tradizionali sovietici, con nomi scherzosamente evocativi come “Ricordo della dacia del ministro” (per la cronaca, strati di melanzane, pomodori e succo di melograno, passati al forno). Abbastanza buffo: e gradevole il fatto che si mangi bene spendendo poco. Interessante anche la clientela, apparentemente di giovani beneducati “middle class”. Quanto agli amici, raccontano di come si vive e lavora nella nuova Russia, tirando fuori anche parecchi aspetti sorprendenti. L’ultima giornata pietroburghese - a parte una visita d’obbligo al gigantesco monumento in memoria dell’assedio tedesco - dovrebbe essere dedicata agli operai: l’obiettivo è una delle più grandi fabbriche della città, le Officine Kirov, che poi sarebbero le storiche Officine Putilov, culla degli eventi rivoluzionari nella Russia di inizio secolo. Ci aspetta un’altra delusione: nonostante le promesse reiterate della leadership comunista cittadina (“Visitare la fabbrica e incontrare gli operai? Ma certo, figuriamoci, non c’è nessun problema”, di aveva detto due giorni prima il segretario del partito, Fjodorov), arrivati al dunque non c’è verso di entrare nella fabbrica. Due dirigenti del sindacato aziendale ci aspettano per guidarci… nel museo, che è senza dubbio molto interessante ma insomma è chiaro che l’idea era diversa. Il museo comprende la storia della fabbrica, dal 1801 a oggi, tutte le produzioni – e ne ha fatte parecchie, dai cannoni ai binari ferroviari, dai carri armati ai sommergibili ai tram, per arrivare oggi ai trattori, alle turbine delle centrali elettriche e ai laminati d’acciaio – nonché una ricostruzione degli eventi rivoluzionari, soprattutto quelli del 1905 e quelli del febbraio 1917, in cui gli operai delle Putilov svolsero un ruolo di punta. Nell’Ottobre il ruolo della fabbrica fu inizialmente minore, per crescere poi nei mesi successivi, quando la maggioranza degli operai prese la testa delle forze armate rivoluzionarie; e importantissima fu poi la resistenza alle truppe naziste fra il 1941 e il 1944, quando per 900 giorni il fronte, durante l’assedio di Leningrado, fu fermato a soli quattro chilometri dalla fabbrica. Fuori dal museo, e stante il gentile rifiuto dei due sindacalisti di farci parlare con qualche operaio, non resta che aspettare davanti ai cancelli per l’uscita del turno; ma, nuova delusione, ci rendiamo conto che ormai anche nelle fabbriche più tradizionali dell’ex Urss i turni “di massa” sono un ricordo. I lavoratori escono alla spicciolata, da porte diverse, a orari diversi. E soprattutto quasi tutti quelli che riusciamo a fermare per qualche minuto o qualche secondo sono… ingegneri (anche tenendo presente che la qualifica di ingegnere in Russia non è come in Italia ma corrisponde a una sorta di perito tecnico). Nessuno attribuisce un particolare significato al fatto di lavorare in un luogo-simbolo della rivoluzione d’ottobre; anche il più anziano che troviamo – 50 anni di lavoro in questo posto – alla domanda “cosa le dice oggi la parola rivoluzione” risponde con un franco “niente”. Non resta che partire alla volta di un altro, e opposto, luogo-simbolo: le isole Solovki, primo campo di detenzione per “politici” istituito dal potere sovietico, nel remoto e gelido Mar Bianco. Si parte in serata, e sarà un lungo viaggio. Per andare da San Pietroburgo alle isole Solovki occorre prendere il treno che va dritto a nord, e restarci per diciassette ore, scendendo nel porto di Kem. È un vecchio treno malandato e puzzolente; finestrini bloccati, niente aria condizionata – alla partenza da San Pietroburgo il caldo all’interno è insopportabile – conduttori sgarbati e per nulla disponibili. Una di loro si premurerà anche di far venire nel nostro scompartimento (e solo nel nostro) la polizia – su ogni treno ci sono sempre due poliziotti – per un controllo vagamente minaccioso e aggressivo dei passaporti. Solo l’esibizione delle tessere di accreditamento del ministero degli esteri blocca l’evidente tentativo dei due agenti di estorcere del denaro. Ma un cattivo incontro con la polizia è un ottimo viatico per una visita a un luogo simbolo della repressione. Al mattino, la temperatura esterna è scesa di una ventina di gradi rispetto alla sera precedente, e anche il tempo è passato dal sole sfavillante al grigio piovigginoso fisso. Kem è poco più di un villaggio, dall’aria molto malmessa e triste; in giro si vedono facce distrutte dall’alcol e la povertà è palese. Abbiamo tempo di parlare solo con l’autista che ci porta dalla stazione al porto d’imbarco per le Solovki: un ex palombaro di 65 anni arrivato in questo posto una ventina d’anni fa, che ci conferma le difficoltà del nord russo, fabbriche chiuse, lavori precari, povertà a volte estrema. Parla più volte di “Leningrado”, al che Mario va in visibilio. Poco dopo però, nel bar del porto, tre ragazzine con lo zaino, anche loro in attesa del battello per le isole, dicono di venire da “Piter”: ed è chiaro che loro “Leningrado” significa poco o nulla, giusto un vecchio nome della loro città. Il porto consta di un vecchio molo semidistrutto; il bar stesso è un ex vagone ferroviario (sorvoliamo sui “bagni”, inavvicinabili); le poche case intorno sono assai tristi. Ma appaiono anche dei segni di tutt’altro genere: c’è un albergo piuttosto grande, formato da varie costruzioni di legno nuovissime; ci sono sei pullman turistici parcheggiati e un consistente numero di auto, molte delle quali assai costose e lucide, con targa di Mosca. Qualche centinaio di metri più in là ci sono una vecchia chiesetta e degli edifici in legno abbandonati: lì il regista Pavel Lungin ha girato nel 2004 il film L’isola. Nella chiesetta vive un ex militare, rimasto lì vent’anni fa dopo la smobilitazione del reparto di fanteria di marina che era dislocato in questo posto. Impressionante, semiaffondato a meno di 50 metri dalla riva, un grande barcone di legno che veniva usato, ci racconta l’ex militare, per trasportare i detenuti in arrivo fino alle isole Solovki. Oggi il viaggio in battello è senz’altro più confortevole di allora, due ore e mezzo di mare. E lo sbarco è su un altro mondo. Dov’è il celebre primo GULag (la sigla del russo Gosudarstvennie Upravlenije Lagerja, direzione statale dei campi)? A prima vista, sulle isole Solovki non ce n’è traccia. Un grande monastero-fortezza che risale ai tempi di Ivan il terribile, qualche chiesa sparsa nei boschi, qualche edificio di legno malconcio ma comunque in uso. Ed è tutto. Ma le guide che ci portano in giro per il monastero e per l’isola maggiore spiegano che il campo di prigionia speciale fondato nel 1923 era dappertutto: solo che ormai gli unici segni della sua presenza sono un piccolo, commovente museo dentro il monastero, una ancor più piccola esposizione di foto e lettere nella chiesa che sta in cima a una collina, qualche minuscola targa ricordo qua e là, un monumento “alle vittime della repressione” in mezzo al paese (mille anime in tutto). Il fatto è che il primo lager sovietico è stato chiuso nel 1939, sostituito da una caserma per le forze armate, e che nei quasi settant’anni passati da allora nessuno si è più curato di tenere in vita quelle memorie – anzi, è stato fatto ogni sforzo, fino ai primi anni Novanta, per cancellarle del tutto, come se da lì non fossero mai passati centomila detenuti politici, e come se in quel fazzoletto di terra boscosa non giacessero le ossa di ventimila di loro. Il monastero è tornato ad essere un monastero, le chiese chiese, le baracche costruite dai detenuti per il proprio alloggio ospitano oggi un ristorante, un negozio, gli alloggi delle guide per i turisti che d’estate fioccano sulle isole come la neve d’inverno, sbarcando ogni giorno a centinaia dalle due navi che fanno la spola con la terraferma. Le guide, tutte ragazze giovani e competentissime, non sono “indigene”: sono tutte studentesse o insegnanti di Arkhangelsk o di altre città della regione, e vengono qui per una redditizia stagione estiva. La ricettività del posto è impressionante: quattro o cinque alberghi o strutture assimilabili, molte case private in affitto, più i dormitori messi a disposizione dai monaci per i pellegrini devoti, che arrivano in parecchi per una visita in uno dei luoghi più santi e celebrati del paese. Il tutto, nonostante un clima davvero poco invitante (ma cosa si pretende, a poca distanza dal Circolo Polare, in mezzo a un mare dove foche, orche e balene sono protagoniste?). I nostri viaggiatori trovano prima il sole splendente nel cielo sereno, dopo un’oretta tutto è coperto e piove fitto, con un vento gelido, poi torna il sole, poi si scatena – di notte – un temporale da apocalisse, la mattina fa un freddo da morire con un vento che occorre tenersi per non cadere, poi riecco il sole… Le stradine dell’isola maggiore (grande come Malta, più o meno) sono distrutte, totalmente tappezzate da enormi buche colme d’acqua; i pochi veicoli si muovono a passo d’uomo, i pedoni devono destreggiarsi nel fango – e tra le zanzare, che sono miliardi. Insomma, muoversi non è facile per niente. Ventiquattr’ore, due guide e molto freddo dopo il nostro arrivo, si riparte. Stavolta con un piccolo aereo, verso Arkhangelsk. Arkhangelsk, dove arriviamo dalle Solovki (mini-aeroporto con una pista cortissima fatta di lastre d’acciaio) dopo un’ora di bimotore a elica che sorvola distese d’acqua grigia e una costa verde senza tracce di vita, non è affatto il villaggio di igloo, capanne e container che la sua posizione sulla carta geografica farebbe immaginare. Si presenta al contrario come una città graziosa e vivace, grande (parliamo di 350mila abitanti, mica bruscoli), piena di automobili perennemente bloccate in vasti ingorghi di traffico, con grandi stabilimenti industriali. Non è sul mare ma sul tratto terminale di un fiume enorme (la Dvina settentrionale) di cui nelle scuole italiane si ignora l’esistenza; ha un bel lungofiume con una fila di caffè, la spiaggia e gli annessi bagnanti – anche perché ci capitiamo con 28 gradi all’ombra, quasi venti in più delle isole da cui veniamo, che sono alla stessa latitudine, e con un sole che spacca. E ha soprattutto un gran porto, e i cantieri navali. È una città più antica di San Pietroburgo, ma fondata anch’essa da Pietro il Grande. Se ne parliamo tanto, pur essendoci stati pochissimo tempo, è perché la sua storia è legata alla Rivoluzione di cui cerchiamo le tracce: qui infatti sbarcarono nel novembre 1918 i contingenti stranieri che volevano aiutare l’esercito “bianco” del generale Wrangel a combattere contro l’Armata rossa. Americani, inglesi, francesi, giapponesi e… italiani, che per parecchi mesi stazionarono in un’area attorno alla città senza riuscire a combinare granché, decimati dal freddo, dalle enormi difficoltà logistiche nonché dalle truppe di Trotskij. Giornali e riviste locali continuano ancor oggi a pubblicare articoli su questa vicenda storica (l’ultimo, il diario-testimonianza di un sottufficiale americano inchiodato per mesi al chilometro 455 della strada per Mosca), anche se con un particolare tono di distacco e di “neutralità”. In Italia non solo non si sa cos’è la Dvina, ma si è anche rimossa quella nostra invasione, pur costata parecchie vite sia a noi che ai russi. Di nuovo durante la Seconda guerra mondiale Arkhangelsk fu cruciale, di nuovo vi arrivarono navi americane e inglesi, ma questa volta per rifornire l’Armata rossa in lotta contro la Wehrmacht. Il nostro giro della città è rapido, perché un altro aereo ci aspetta per riportarci a Mosca, scalo obbligato verso la nostra meta successiva: dal grande nord al grande sud della Russia europea, dal gelido Mar Bianco fino alle steppe prossime al Mar Caspio. Volgograd, nata come Tsaritsin e meglio nota come Stalingrado, ci attende. Un aereo dopo l’altro, dormendo poco e passando ore nelle sale d’attesa degli aeroporti, i nostri arrivano a Volgograd. Mario non tenta nemmeno di pronunciarne il nome: per lui c’è soltanto Stalingrado, l’epopea della battaglia, la vittoria decisiva contro il nazismo; si informa subito di eventuali superstiti, di rovine conservate, di monumenti, musei, memoriali. Trova tutto quel che cerca, e anche di più: Volgograd va fiera del suo titolo di città-eroe (un titolo che hanno anche tante altre città, comprese tutte le maggiori), esibito dappertutto; ed è la città russa che più ha mantenuto il look sovietico-celebrativo, a partire dalla toponomastica, rimasta intatta dall’epoca non solo genericamente sovietica, ma staliniana (via dei Soviet, piazza degli Eroi del comunismo, ecc.). Infine è una delle pochissime, se non l’unica, che mantiene sui più alti edifici del centro le grandi insegne luminose con l’Ordine di Lenin, l’Ordine dell’Urss e via dicendo. Il nostro albergo comunque è pieno di giovani e chiassosi turisti americani. Fa molto caldo – anche se a un sole potentissimo si alternano ripetutamente improvvisi scrosci di pioggia – e per le strade si ha l’impressione (dovuta soprattutto all’impressionante numero di giovani donne a passeggio con abbigliamento davvero ridotto al minimo) di trovarsi in una città balneare. D’altra parte la città è sdraiata per settanta chilometri lungo il Volga, imponente come un mare, e anche se la balneazione non è un granché ci sono spiagge dappertutto. Il nostro primo obiettivo è il municipio, ma con grande sorpresa ci rendiamo conto che quasi nessuno sa dove sia: mentre tutti sanno dov’è l’amministrazione regionale (un grandioso edificio neoclassico anni ’50 sul viale principale), le persone cui chiediamo lumi ci mandano in tutte le direzioni salvo quella giusta, e alcune sembrano persino non capire bene cosa sia il municipio, che alla fine troviamo alloggiato in un modesto edificio moderno in una via secondaria. Per quel che vale, sembra il segno di chi conta e chi no nelle gerarchie del potere. Comunque nelle ultime elezioni la città si è data, questa primavera dopo molti anni, un sindaco comunista; anche la regione peraltro ha un governatore comunista. Il giovanissimo vicesindaco, Dmitrij Lunyov (28 anni e tre lauree) è un comunista molto diverso da quelli che normalmente si incontrano in Russia: gentilissimo e alla mano, ideologia nel cassetto, scarsi rimpianti del passato (che del resto non ha potuto conoscere realmente, data la sua età) e un gran fervore sociale in primo piano – fare, fare, fare, cose concrete per migliorare la vita dei cittadini. Una bella persona, appassionato amante della sua città. “La” cosa da vedere a Volgograd, alias Stalingrado, è senza nessun dubbio Mamaev Turgan. Il nome significa collina di Mamaev, il quale era un khan tartaro del XIV secolo che su questa collina aveva la sua tenda; adesso, però, è il luogo dove sorge il più grandioso e impressionante monumento del paese, dedicato alla terrificante battaglia svoltasi in questa città fra l’agosto del 1942 e il marzo 1943 nella quale si immolarono quasi due milioni di vite umane. Il complesso è formato da una collina artificiale con scalinate, piazze, tombe, mausolei, fiamme eterne, immensi gruppi di figure potentissime, il tutto sormontato da una faraonica statua alta quasi novanta metri raffigurante la Madre Patria con la spada in mano (la spada da sola, per la cronaca, è lunga 11 metri e pesa 14 tonnellate). Non è un monumento pacifista, contro la follia della guerra, assolutamente no: è un gigantesco inno all’eroismo bellico, al sacrificio della vita, alla vittoria che sola conta; la Madre ha un’aria inferocita e grida brandendo lo spadone – sta guidando l’assalto. C’è una folla variopinta e festiva, anche piuttosto incongrua con l’aspetto sacrale e militaresco del luogo; troviamo anche il gruppone di ragazzi americani che affolla il nostro albergo; molte bancarelle qua e là dentro il complesso monumentale vendono ricordini, dai portachiavi fatti con (presunti) proiettili recuperati agli accendini-granata, dai berretti di fanteria ai ritratti di Stalin. Mentre Mario si dedica a fotografare tutto e tutti, Astrit e Kolja esplorano il complesso guidati da Ikar, ottantenne guida turistica fai-da-te (nel senso che non dipende da nessuna organizzazione, anche se conosce il monumento come le sue tasche); il suo racconto è solenne, con tutte le fasi della battaglia, i suoi significati, gli eroismi (e le mostruosità, come i reparti che sparavano nella schiena a chi non avanzava contro il nemico); e con la spiegazione delle relative simbologie pietrificate nella gigantesca opera. Assistiamo anche al cambio della guardia. Fra le 30 tombe “speciali”, grandi e subito ai piedi della Grande Madre, dedicate a chi ha avuto il titolo di Eroe dell’Urss o altri meriti particolari, spicca quella del cecchino Zaitsev, reso celebre ovunque dal recente film di Annaud “Il nemico alle porte”, in cui era interpretato da Jude Law. Zaitsev è morto nel ’91 a Kiev, ed è stato traslato qui solo l’anno scorso. Resta comunque una sgradevole gerarchia della morte: dai 30 morti “superstar”, alcuni dei quali nemmeno morti qui in battaglia ma anni dopo a casa propria, si passa ai 7.200 scritti sulle lapidi marmoree dentro il mausoleo della fiamma eterna, ai 37.000 circa che hanno avuto l’onore di essere comunque sepolti – senza nome – dentro l’area monumentale, agli oltre 600.000 che sono stati identificati e sepolti in fosse comuni per tutta la città. Nelle stesse fosse comuni sono finiti un numero imprecisato – forse 400.000 di caduti russi non identificati e di civili. E infine i tedeschi: anche loro hanno lasciato più di seicentomila morti a Stalingrado, ma quasi tutti sono stati bruciati in grandi pire subito dopo la battaglia. In cerca del kolchoz
Martedì, 17 Luglio 2007
Ancora nella bella Volgograd, a giudizio unanime del nostro anziano trio la città più ricca di splendide ragazze che si sia mai vista. La mattina passa piacevolmente in compagnia di Aleksej Serov, giovane regista del Teatro della Gioventù, uno dei numerosi della città. Aleksej ci spiega come organizzerà la prossima festa cittadina, in settembre, con sfilate, recite storiche e una coreografica celebrazione dell’amore con 500 coppie di sposi che poseranno sulla grande scalinata che scende verso il Volga, gettando alla fine dei fiori nel fiume. A parte questa coreografia un po’ pagana, sponsorizzata totalmente dall’amministrazione cittadina (tornata comunista dopo molti anni), Aleksej ci parla del suo teatro, quasi tutto repertorio classico ma messo in scena con una compagnia di giovanissimi: la protagonista del prossimo spettacolo, una pièce di Aldo Niccolai, è Yulija, attrice appena ventitreenne ma già affermata. Serov non rimpiange affatto il passato sistema, se non per il fatto che c’era più tempo da dedicare alla cultura; oggi in compenso, dice, la cultura stessa è accessibile in modo molto più completo, senza limitazioni ideologiche o politiche. Fuori dal Teatro c’è un ristorante self-service molto grazioso, dove si mangiano ottime cose a prezzi ragionevoli; e si fa pure in fretta, cosa importante perché incombe una nuova spedizione in campagna, dopo quella di Mosca, alla ricerca di un’azienda agricola visitabile. Dall’amministrazione cittadina ce ne segnalano una, chiamata “Giardini del Don” (il fiume Don è molto vicino a Volgograd, solo una settantina di chilometri). Ci andiamo, con un taxi il cui autista si rivelerà la cosa più interessante del viaggio, ma ci aspetta la solita delusione: l’azienda in realtà è una fabbrica che produce succhi di frutta ricavandoli dalle sue migliaia di ettari di frutteti, ma i cancelli sono chiusi e non si apriranno neanche dopo una lunga trattativa telefonica con dirigenti e, in ultimo, proprietario. Pare che il giorno dopo debba arrivare la delegazione di una ditta italiana per firmare un importante contratto (non si sa di che genere) e che nessuno dei protagonisti desideri una pubblicità intempestiva. Restiamo con una certa curiosità e torniamo verso Volgograd. L’autista ci racconta le sue vicende di lavorante nelle aziende che producono angurie: per lui fare il tassista in città è un deciso salto di qualità della vita. Per strada incontriamo le rovine di un kolchoz, denominato “Il Bolscevico”: edifici abbandonati, campi incolti, pochi ubriachi in giro. Una volta, pare, c’era un allevamento di maiali, ma adesso è solo una desolazione senza pari. In città i nostri eroi si concedono una cena in un caffè in riva al Volga, pesce d’obbligo, prima di recarsi alla stazione e salire sul treno dove dovranno restare per due giorni e tre notti. Destinazione Novosibirsk, capitale della Siberia occidentale.
Dopo una notte molto tranquilla, nel nostro treno come al solito sigillato (anche il finestrino con la scritta “uscita d’emergenza” è stato bloccato e addirittura avvitato al telaio) e senza aria condizionata, il primo risveglio è alle cinque del mattino, nella stazione di Saratov. Dove sale a farci compagnia come quarto ospite dello scompartimento un giovane capitano delle truppe del ministero dell’interno, che come prima cosa prepara la sua cuccetta, appoggia per terra due enormi borsoni, un coltellaccio sul tavolino, e si mette giustamente a dormire. Il secondo risveglio, mentre il treno lentamente procede verso nord, è nei pressi della città di Baklanovo, dove si passa su un lunghissimo ponte che è anche una diga di sbarramento del Volga. Il paesaggio è piatto come una tavola, siamo nella regione della steppa; anche le coltivazioni appaiono piuttosto magre. In lontananza si vedono dei villaggi, segnalati dalla nuova presenza universale, le antenne per la rete cellulare. Il treno va pianissimo, anzi non va proprio: resta fermo quasi due ore in una stazioncina di campagna, probabilmente perché ci sono dei lavori sulla linea, che poi per parecchi chilometri è a binario unico. Ora si susseguono immensi campi di cereali e barbabietole, ma non si vede un’anima al lavoro. Intorno alla stazione di Pugaciovsk si susseguono rovine e abbandono: edifici bruciati, carcasse di veicoli, una totale desolazione. Facciamo una puntata al vagone ristorante, dove la conduttrice, che sembra uscita da un cartoon disneyano (potrebbe essere Medusa, la perfidona della Sirenetta) si offre a carico nostro un bicchierone di vino e un piatto di formaggio. Mario però ne è entusiasta, e alla fine anche Medusa ci racconta il suo lato umano, le difficoltà del lavoro, il marito che se ne è andato e tutto il resto. A Samara, la più grande città sul percorso, arriviamo con un’ora di ritardo e facciamo un po’ di spesa. Da lì in poi il treno piega decisamente verso est, in direzione degli Urali e incontro alla sera che avanza (già Samara è un fuso orario avanti rispetto a Mosca e Volgograd, e la tappa successiva, Ufa, è avanti di due ore). Il paesaggio migliora un po’, la terra appare più ricca e anche i villaggi che si vedono sembrano in condizioni migliori – si vedono parecchie auto, gli orti sono ben curati, ci sono molti animali. I nomi delle stazioncine sono già prevalentemente tartari, come Tunguz, Bugur e simili, ma appaiono ancora quelli totalmente sovietici come “Piano Quinquennale” o, con scarsa fantasia, “1226 km”. Al calar della sera tiriamo fuori una bottiglia di “Konyak” russo e il nostro compagno capitano si scioglie subito, raccontandoci la sua vita (mezzo mongolo mezzo russo, moglie, figlia, carriera, ecc.) e prestandosi persino a una serie di foto di Mario. Nella notte, il treno corre verso la capitale della Bashkiria, Ufa, e attraversa la catena degli Urali. Sveglia mentre il treno percorre il tratto fra Ufa e Celjabinsk, cioè attraversa la catena dei monti Urali – l’unico pezzo un po’ interessante dell’intero percorso. Dopo Celjabinsk inizia la Siberia vera e propria, cioè una pianura senza fine, umida o paludosa, con pochi alberi e un’infinità di laghetti più o meno tondeggianti. Scarsissimi i tratti coltivati, quasi inesistenti e lontani l’uno dall’altro i villaggi o le città, nessuna delle quali sembra rivestire il benché minimo interesse, almeno a giudicare dalle stazioni e da quel che si vede intorno. Insomma, una noia mortale, per cui la facciamo breve e mettiamo un po’ di foto ferroviarie, scattate a personale, passeggeri e noi stessi. L’unico brivido, si fa per dire, è quando ci rendiamo conto che il treno nel suo percorso deve attraversare un angolo del Kazakhstan – neanche tanto angolo, poi, visto che ci impiega più di tre ore, fermando in due stazioni. E il visto kazako? Ovviamente non ce l’abbiamo: ma i timori di essere fatti scendere dal treno in frontiera sono subito fugati: la frontiera non c’è. E a Petropavlovsk, la fermata principale in Kazakhstan, nessuno si sogna neanche di controllare i documenti di chi scende. In compenso, poco dopo, due poliziotti kazaki sul treno rompono le scatole non poco per via di una bottiglia di cognac aperta (quella della sera precedente): non si può bere sul treno in territorio kazako. Ma, a parte il fatto che in effetti oggi nessuno aveva bevuto, tutta la manfrina sembra fatta solo per estorcere un po’ di soldi. Fermamente non cediamo di un passo, sfidiamo gli agenti a fare il test alcolico e i due, sconfitti, se ne vanno. Nella notte il treno corre verso Omsk, dove si infilerà sui binari della Transiberiana “vera”; e al mattino dovremmo arrivare a Novosibirsk. Una mattinata ancora di treno, un po’ sconquassati anche dal cambio di fuso: gli orari ferroviari russi hanno un’ora costante, quella di Mosca, ma qui siamo ormai tre fusi avanti, per cui l’arrivo a Novosibirsk, previsto per le 7,45, avviene in effetti puntualmente alle undici meno un quarto “locali”. La sveglia, comunque, è poco dopo l’alba “reale”. Sistemati gli orologi, ripreso contatto con la terraferma e lasciati i bagagli alla stazione, si parte alla conquista della città – o più prosaicamente di una camera in albergo, che non abbiamo pensato a prenotare ritenendola una cosa facile da rimediare al momento. Ahiahiahi, che errore: nella capitale della Siberia, nonché suo cuore economico, culturale e politico, nessuno ha posto, o se ce l’ha non lo dà a stranieri senza invito di un’organizzazione ufficiale – sembra di essere ritornati ai tempi dell’Urss: abbiamo casualmente scoperto una permanenza “rossa”, anche se delle peggiori. Tentiamo anche la via delle stanze in case di privati, ma con scarso successo. Alla fine, troviamo delle camere brutte e care… nell’albergone proprio davanti alla ferrovia, che avevamo all’inizio scartato dicendo “qui no, per carità”. La città ha un aspetto vivacissimo e da metropoli moderna: negozi negozi negozi, scarpe italiane mobili italiani occhiali italiani; banche su banche, bar e caffè. Le cose cambiano un po’ quando si cercano dei servizi: i trasporti sono fantasiosi per frequenza e percorso, impossibile trovare una lavanderia, gli accessi pubblici a internet pare siano quattro in tutto (la posta centrale, l’hotel più lussuoso della città e due “club”, uno dei quali si chiama Bomba, entrambi semiclandestini e nascosti in altrettante cantine. Nei due club, poi, gli avventori sono in maggioranza bambini o adolescenti che fanno videogames in rete). La sera ci lasciamo tentare da una delle attrazioni di Novosibirsk, la gita in battello sul fiume Ob (uno dei più grandi del mondo, per la cronaca, che qui è largo vari chilometri). Sarebbe un modo piacevole di passare un’oretta al fresco al tramonto, anche perché il paesaggio urbano e suburbano dal fiume è molto interessante, pieno di ponti spettacolari, di isole, di spiagge da una parte, di installazioni portuali dall’altra; l’unico guaio è che la stessa idea l’hanno avuta centinaia di persone (soprattutto coppie di giovanissimi) per cui il battello è pieno come un uovo e non c’è posto neanche per girarsi. Come che sia, è divertente; i passeggeri che non si sono sbronzati a bordo – non si sa come sia possibile data la mancanza di spazio per alzare il gomito, eppure l’hanno fatto in tanti – rimediano subito all’arrivo: l’imbarcadero è circondato da decine di locali che vendono birra e shashlik (spiedini alla brace) con musica a tremila decibel. C’è chi balla, ma quasi tutti pensano soprattutto al resto. Con una certa fatica, il nostro trio si avvia verso l’albergo quando è ormai notte. Dramma mattutino: Mario ha perso la scatola della sua medicina, che deve prendere ogni giorno. In farmacia non si trova (c’è una cosa analoga secondo il farmacista, ma lui non si fida). Che fare? Insisti e insisti si riesce a scoprire che il farmaco desiderato è registrato in Russia e quindi qualche farmacia dovrebbe pur tenerlo; ma vari tentativi vanno a vuoto. Finalmente il registro centrale delle farmacie di Novosibirsk indica il negozio X, in via Y: lì ci deve essere. E in effetti c’è: Mario è salvo e il dramma ha il suo lieto fine. Astrit invece cerca di rimediare a una rottura di occhiali, ma senza successo: risultano ahimè irreparabili. Fortuna che ne ha due paia. Di corsa quindi ai nostri appuntamenti della giornata, che sono in un palazzo nella Prospettiva Rossa (si chiama proprio così, in russo Krasnij Prospekt), cioè la principale arteria cittadina, spezzata a metà da Piazza Lenin. Il palazzo era un tempo la sede del Comitato politico esecutivo regionale (in breve, del governo): oggi dobbiamo incontrarvi dei dirigenti del Partito comunista, che probabilmente non si sono mai mossi da lì attraverso gli anni e i sistemi politici. L’ingresso è rimasto sempre quello, scalinata solenne e colonne doriche, ma dietro la porta si apre una specie di bazar con chioschi d’ogni tipo, aranciate e quadri dozzinali, libri e telefonini, a zonzo vecchiette tremule e bellone seminude, tipi in cravatta e crani rasati in canotta a rete. Al piano di sopra, ogni partito ha le sue stanze, frammiste a uffici commerciali, studi notarili e agenzie turistiche. Le stanze del Kprf (Partito comunista della federazione russa) sono accanto a quelle del Ldpr (Partito liberaldemocratico russo, cioè quello ipernazionalista di Vladimir Zhirinovskij). Ci accoglie con vera cordialità il primo segretario, che è anche deputato alla Duma federale, e ci intrattiene raccontandoci un sacco di cose; Mario ha modo di discutere (a gesti) con un suo giovane collega del giornale locale; poi subentra un altro deputato, anzi, il vicepresidente del comitato parlamentare federale per i problemi dell’agricoltura, anche lui cordiale e simpatico (ci mostra persino le foto di quando era bambino) ma dal quale per un’ora ascoltiamo soltanto vecchi slogan tronfi e decisamente implausibili sul paradiso sovietico dell’agricoltura, contrapposto all’inferno di oggi. Vorremmo ricordargli le massicce importazioni di grano americano degli anni ’80, o l’uso sistematico dell’esercito per la raccolta delle patate che altrimenti marcivano nel campo, o il fatto che fino agli anni ’60 i contadini russi non avevano diritto di lasciare il proprio villaggio, né più né meno dei servi della gleba; ma lasciamo perdere. Del resto anche lui, come i suoi colleghi di Mosca e di Volgograd, ci promette una visita, domani, in un’azienda agricola dei dintorni. E tre: le prime due sono fallite, chissà se questa sarà la volta buona? Il ministero delle ferrovie russo ha oltre un milione di dipendenti, e si vedono tutti: non solo c’è moltissimo personale sui treni, ma lungo ogni linea ferroviaria si vedono di continuo gruppi di operai e tecnici intenti a qualche lavoro di manutenzione o miglioramento, tutti con i loro giubbetti rifrangenti arancione e il casco. Un esercito, anzi, una vera popolazione. Se si percorre la ferrovia Baikal-Amur (BAM) verso il suo centro nevralgico, la città di Tynda, parlare di popolazione a proposito dei ferrovieri diventa una realtà letterale: non solo la più gran parte dei passeggeri del treno sono in qualche modo legati alla ferrovia, professionalmente o per storie familiari, ma si entra in un territorio in cui tutti gli abitanti sono in questa condizione. La storia epica (e tragica) della BAM la racconteremo in futuro, ma basti qui accennare al fatto che fino al 1976 l’intera regione era praticamente disabitata, fatti salvi alcuni piccoli nuclei di evenki (il popolo “indigeno” di origine mongolo-manciù) e qualche minuscolo avamposto tecnico-militare russo, a presidio della strada che corre da sud a nord, verso la lontana Yakutia. Per costruire la BAM, fra il ’76 e l’87, affluirono qui decine, centinaia di migliaia di volontari da tutta l’Urss: e molti di loro, la maggior parte, qui rimasero aspettando il promesso eldorado. Invece venne, ben presto, il crollo dell’Urss: e l’eldorado ancora non è in vista, anzi. Ma ormai la regione ha questa sua “nuova” popolazione, fatta di ferrovieri, di ex-costruttori di ferrovie, di tanta gente che intorno a questo progetto grandioso ha costruito la propria vita. Sul lento treno che ci porta a Tynda parliamo con qualche vicino – siamo in un vagone cosiddetto “plazkarty”, cioè senza scompartimenti chiusi e con un numero di cuccette molto alto, dove è facile fare un po’ di conversazione se non di vera conoscenza. Le soste sono lunghe – la ferrovia è a un binario solo, tocca fermarsi spesso per lasciar passare i treni nella direzione opposta – la velocità è bassa (la linea non è elettrificata e si va a diesel), il paesaggio è grandioso e solenne ma cupo, tra montagne scure di pietre e boschi, valli paludose dove gli alberi sembrano tutti morti. I racconti sono nostalgici: come quello di Tatjana, energica e simpatica signora sulla cinquantina, che ci parla con nostalgia di quell’epopea in cui tantissimi come lei, giovani e pieni di entusiasmo, vennero qui con lo zaino in spalla a “costruire il futuro”. Anni duri ma bellissimi, “amicizia, lavoro, canzoni e amore”: tantissimi matrimoni sono nati, per così dire, fra le traversine; e poi la sensazione di essere davvero avanguardie, pionieri, amati e coccolati dallo stato: “Lo stato provvedeva a tutto, dopo i primi tempi in tenda o nei vagoni ci diedero subito le case, man mano che venivano costruite, e poi una buonissima paga, e tutto quello che altrove mancava o era difficile da avere”. Tynda è una cittadina assai graziosa – compatibilmente con gli standard architettonici sovietici, non entusiasmanti, e con la sua totale mancanza di passato: la città è nata 30 anni fa. Il nostro terzetto ha passato la notte confortevolmente nelle “camere di riposo” della stazione ferroviaria, che è senz’altro l’edificio più bello e importante della città; una visita superficiale del centro ci porta a scoprire un fantastico monumento “al posatore di binari”, una statuona di cemento che con tratti da fumetto giapponese anni ’80 (in effetti è del 1984 e forse qualche influsso dal non lontano Giappone c’è stato) raffigura un uomo nell’atto di dare una poderosa martellata – presumibilmente per inchiodare una traversina. Poi, a parte il solito Lenin (piccolo, però), gli altri monumenti sono tutti intitolati a eroi ferrovieri locali. C’è un grande teatro, dove troviamo la simpaticissima signora Olga, che ci racconta del suo arrivo nel 1976 in una Tynda ancora inesistente, dei mesi passati vivendo nei vagoni ferroviari e lavorando nell’officina elettrica – la città era il centro della nuova linea, collegato alla vecchia transiberiana con 300 km di rotaie; dalla base di Tynda avanzavano, verso est e verso ovest, le squadre di costruttori. Così come Vladimir, tassista dongiovanni con un braccio solo, arrivato a Tynda nel ’77, anche Olga racconta di esser stata, all’epoca, piena di entusiasmo anche politico, come gran parte dei volontari komsomoltsy, i giovani inquadrati nella Gioventù comunista: “Allora pensavamo davvero di costruire il comunismo, di fare grande la patria, e in qualche modo era vero: costruivamo sul serio una cosa grande e importante, e vivevamo sul serio in modo comunitario, tutti insieme, tutti amici, tutti solidali. Era bellissimo, sono stati anni meravigliosi”. Olga non si lamenta troppo dell’oggi, “in fin dei conti non si sta male”, ma rimpiange quel clima e quel senso di pionierismo; rimpiange la disgregazione della grande patria comune, che ha portato alla partenza di tanti amici ucraini, georgiani, kazaki con cui c’era invece una grande amicizia. E poi, nessuno dei progetti grandiosi di sviluppo della regione è più andato avanti: lo stop era già avvenuto negli ultimi anni dell’Urss, e dopo il ’91 è diventato totale. “Molti uomini hanno perso il lavoro e si sono dati al bere, così anche se adesso il lavoro ci sarebbe, non sono più capaci di far niente; noi donne abbiamo tenuto molto meglio”. E’ una donna anche Tatjana, la guida del museo BAM che ci illustra la storia meno nota di questa ferrovia, quella degli anni Trenta quando a costruire un primo tratto di trecento chilometri furono centinaia di migliaia di prigionieri del Gulag, in condizioni spaventose e praticamente a mani nude. Questa prima BAM entrò in funzione nel 1941: ma solo l’anno dopo fu smontata completamente, i binari furono trasportati a ovest per costruire a tempi di record una ferrovia speciale nelle retrovie di Stalingrado e rifornire le truppe impegnate nella battaglia decisiva contro la Wehrmacht.
Da Tynda, “capitale” della BAM, l’aeroporto più vicino per tornare un po’ rapidamente verso l’Europa è quello di Blagoveshensk – insomma, vicino per modo di dire: diciotto ore di treno. Neanche pensabile un’alternativa automobilistica, perché la strada per un tratto di almeno 100 km è costituita soltanto da un sentiero percorribile (faticosamente) con un fuoristrada. Del resto, è chiaro che della capitale di una specie di repubblica ferroviaria l’unico modo di recarsi altrove può essere il treno. Dunque, per l’ultima fase del loro viaggio i nostri inviati risalgono su un affollato vagone della BAM. Un viaggio a tappe: quattro ore fino alla stazione di Skovorodino, dove si incrocia la Transiberiana “normale”; lì, due ore di attesa, poi altre dodici ore (di notte) su un treno diretto nella più lontana Vladivostok, scendendo alla stazione di Belogorsk (una curiosità: due anni fa poco distante da questa cittadina è stata uccisa una grandissima tigre siberiana, ora esposta impagliata in un vicino museo); poi ci sarebbero altre tre ore di attesa e due su un terzo treno per raggiungere Blagoveshensk, ma preferiamo spendere qualcosa in più e prendere un taxi per accelerare un po’ quest’ultima fase del viaggio. La città di Blagoveshensk (in russo significa “annunciazione”: un nome curiosamente rimasto inalterato dall’epoca zarista a quella sovietica a quella attuale) non è solo un aeroporto: è anche la porta della Cina, una caratteristica che la rende particolarmente adatta a rappresentare simbolicamente la conclusione del nostro viaggio. La città è affacciata sul grande fiume dell’Estremo Oriente russo, l’Amur, che segna per migliaia di chilometri la frontiera con la Manciuria cinese; sulla sponda opposta c’è la città cinese di Heihe. Fallito (ovviamente, e tra le risategenerali delle guardie di frontiera) un timido tentativo di fare una sortita in Cina anche sena avere il visto, ripieghiamo su una più modesta gita turistica su un battello che per un’ora va avanti e indietro per il fiume restando a poche decine di metri dalla sponda cinese. La quale ribolle di attività in modo impressionante, in confronto alla placida tranquillità della sponda russa, dove c’è un sacco di gente a passeggio: i moli di Heihe sono coperti da enormi quantità di container, casse, automobili, camion, macchine industriali, tutto in attesa di essere imbarcato sulle chiatte che poi trasporteranno le merci dall’altra parte del fiume. Poco più in là c’è invece la dogana portuale, dove attraccano i ferry che fanno la spola fra le due sponde portando centinaia di piccoli commercianti russi e cinesi con grandi pacchi di mercanzie varie. Blagoveshensk e Heihe fanno parte dell’unica “area di libero scambio” che da qualche anno esiste fra i due paesi, all’interno della quale ci si muove senza visti e senza dazi. E quale sia la parte trainante di quest’area non è difficile da capire neanche per il visitatore inesperto: di qua ci sono le statue di Lenin, di là c’è la bandiera rossa, in quello che potrebbe sembrare un trionfo generale del socialismo; ma è più che chiaro, ormai, che quaggiù è il big business quello che conta, al di là di tutte le nostalgie – e il big business vincente parla cinese. Non resta dunque che tornare al punto di partenza, per la tappa finale: Mosca. Trentaquattresimo giorno. ConclusioneCosì, eccoci a Mosca. Il viaggio di ritorno non è proprio una passeggiatina: otto ore di volo, su un aereo della compagnia Air Union (mai sentita? eppure è una delle più grosse compagnie aeree russe), un Boeing 757 con poltrone strettissime e una sola toilette per 185 passeggeri, che fa amaramente rimpiangere i vecchi Ilyushin-62, forse poco eco-compatibili per i loro consumi ma larghi e comodi come pantofole All’arrivo nella capitale, jet lag a parte, ci accoglie per la prima volta da quando siamo partiti un autentico brutto tempo: cielo nero, temporali uno dietro l’altro; in periferia c’è anche una persona uccisa da un fulmine, apprenderemo in serata. L’altra cosa che ci accoglie sono i prezzi assurdi, di cui ci eravamo dimenticati girando per la provincia remota: taxi a 30 euro per una corsa di due chilometri, ristoranti dove ogni piatto di euro ne costa almeno 20. Assalti al portafogli che si possono sì schivare (senza rinunciare a spostarsi e a mangiare) ma con una certa fatica. Ci aspettano due appuntamenti rimasti in sospeso da quasi un mese: con un disegnatore satirico - un Vauro russo - e i suoi disegni, e con la Piazza Rossa, che tra un impegno e l’altro ci eravamo dimenticati di visitare nel nostro primo soggiorno moscovita. Il primo ci accoglie molto gentilmente nella redazione del giornale per cui lavora (la Novaja Gazeta, dove lavorava anche Anna Politkovskaja, e che è uno dei pochi giornali di opposizione). La seconda è affollata come non mai, circondata di bancarelle, quasi attraversata da una micro-manifestazione di anziani nostalgici del Pcus, che un poliziotto fa subito sciogliere senza obiezioni; occupata infine da un’esibizione di soldati a cavallo del reggimento del Cremlino, con un pubblico schiamazzante. Chiuso il mausoleo di Lenin con tutti i suoi annessi cimiteriali - le tombe dei “grandi” del socialismo allineate lungo le mura del Cremlino non sono accessibili, con gran delusione di Mario che voleva fotografare quella di John Reed. È aperto invece, come sempre dal 1991, il popolare reparto “fatevi fotografare con Lenin”: il signor Anatoly, molto simile al fondatore dell’Urss e come lui vestito, chiede cento rubli (circa tre euro) per un paio di foto in sua compagnia; data la brutta giornata, c’è uno sconto comitiva e nella foto possiamo far entrare anche un altro sosia, il signor Ivan che somiglia allo zar Nicola II. E con la scoperta di Lenin e dello zar uniti in una proficua impresa commerciale, i lettori lo avranno già capito, non può che chiudersi questo diario di viaggio, durato oltre un mese in corrispondenza con un percorso di quasi ventimila chilometri attraverso tutta (o quasi) l’immensa Russia. Era un viaggio alla ricerca dei “rifugi di Lenin”: ne abbiamo trovati diversi, e di diversissima natura, vuoi nei cuori delle persone, vuoi negli slogan della politica, vuoi ancora nei comportamenti quotidiani di uomini e istituzioni. Abbiamo raccontato, in estrema sintesi, quello che via via vedevamo e quello che ci capitava, senza nessuna pretesa di essere esaurienti o di cogliere tutti gli aspetti più significativi di una società tanto complessa; un racconto abbastanza più corposo e dettagliato, insieme a un gran numero di fotografie in bianco e nero di Mario Dondero, di qualità ben superiore a quelle che hanno decorato questo diario (che sono in gran parte opera del dilettante Astrit) verrà incluso nel libro che il manifesto pubblicherà quest’autunno, in coincidenza con il 90mo anniversario dell’Ottobre. Appuntamento dunque all’autunno, sperando di non avervi troppo annoiati. |