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Intervista al subcomandante Marcos
“La
classe politica ed il sistema non hanno rimedio” |
a cura di Hermann Bellinghausen
Nell’ultima parte della conversazione con La Jornada,
il subcomandante Marcos fa alcune definizioni di quello
che è la sinistra, vista dall’altra campagna,
a partire dalla constatazione che la classe politica ed il
sistema non “hanno rimedio”. Riprende le circostanze
per cui è nata la proposta di questo movimento alternativo,
e fa una valutazione del movimento indigeno attuale. Infine,
espone la sua visione delle mobilitazioni degli immigrati negli
Stati Uniti e del processo di spostamento a sinistra in America
del Sud, con particolare identificazione e simpatia per l’esperienza
della Bolivia.
Dietro la nuova tappa dello zapatismo civile in Chiapas,
che succede?
Si è passati al silenzio della struttura politico-militare,
che non significava che stavamo preparando un golpe militare,
ma un’altra cosa che non fosse né negoziazione
né insurrezione. Abbiamo fatto un’analisi teorica
e pratica. La parte teorica riguarda il fatto che nella tappa
attuale, il neoliberismo, si verifica distruzione degli stati
nazionali. Nel momento in cui crollano le frontiere per il
passaggio delle merci, si erigono nuove frontiere per impedire
il passaggio delle persone. Questo paradosso, in tutto il mondo,
dimostra che i capitali sono simultanei. Digiti un tasto ed
il tuo capitale sta in un posto o in un altro; pochi movimenti
ed un magazzino vuoto all’improvviso diventa una fabbrica
maquiladora e poi sparisce e ricompare in un altro angolo del
pianeta.
Ma gli esseri umani no. Loro sono completamente
compartimentati ed in maniera più crudele che mai. Nel
momento in cui si distrugge lo stato nazionale si distrugge
la classe politica che lo ha reso possibile. In questo processo
di distruzione, Carlos Salinas de Gortari inizia ad ammazzare
e cooptare. Lo segnalo perché là in alto nessuno
sembra più ricordare
i morti del PRD, che per noi non sono del PRD ma della lotta
sociale per migliori condizioni di vita. Chi dimentica i suoi
morti è morto.
Allora abbiamo detto, bene, la classe politica
non ha rimedio. I compagni del Congresso Nazionale Indigeno
hanno denunciato le nuove leggi che emettono deputati e senatori.
Passano all’unanimità, lì non c’è destra
né sinistra e sono le leggi che stanno dando il pretesto
legale alle multinazionali per espropriare le terre degli indigeni
e costruire cose dove non devono stare, perché distruggono
la natura. Tutto questo non l’abbiamo imparato sui libri,
ma da quello che la gente ci ha raccontato. Se vi atterrisce
la violenza che c’è in qualche posto, quello che
seguirà è ancora peggiore. Qualcuno si immaginava
che sarebbe successo in tutta la cintura di miseria che c’è attorno
a Città del Messico, quando tutti si fossero arrabbiati
di brutto fino a fare come nei film e invadere le strade e
le case. Sembra che non sarà così. La crescita
del capitale in questa città passa sopra anche quelle
zone emarginate e li getterà sempre più in
là.
Si dice che l’altra campagna sta
raccogliendo i resti del naufragio, la sinistra di Neanderthal,
e che la sinistra “civilizzata o democratica” non è nell’altra
campagna. Il fatto di definirsi l’unica organizzazione
nazionale di sinistra, non è escludente?
La sinistra ha definizioni basilari, una è rispetto
al sistema economico. Si può essere culturalmente di
sinistra, contro lo sciovinismo, la misoginia, l’omofobia.
La sinistra politica si deve definire rispetto al sistema ed
essere anticapitalista, si deve definire essenzialmente nel
responsabilizzare un sistema, non un’amministrazione. L’altra
campagna si sta proponendo solo a livello anticapitalista
di sinistra, senza andare più in là. Per questo l’altra
campagna parla di ribellione, non di rivoluzione.
È una lezione non solo per le persone,
ma per le politiche della sinistra. La sinistra che uscirà dall’altra
campagna sorprenderà molti, tra gli altri molti di quelli
che adesso dicono che lì ci stanno i soliti. Sono ‘i
soliti’, ma la loro caratteristica comune è che
non si sono venduti né arresi. Con tutti i loro difetti,
ma è gente onesta, forse non piacciono i loro modi.
Questa onestà che ha permesso loro di non vendersi
e non arrendersi, gli è utile ora per potere imparare
dagli altri”.
Qual è il ruolo del movimento indigeno? In
che situazione si trova?
Con il movimento indigeno abbiamo coinciso, soprattutto,
in quello che è il Congresso Nazionale Indigeno della
regione Centro-Pacifico. Senza che sapessero della Sesta
Dichiarazione della Selva Lacandona, sono arrivati alle
stesse conclusioni. Il nucleo del CNI che si è mantenuto
vivo, si è reso conto che ‘con la classe politica
non c’è via d’uscita ed il problema è di
sistema economico e di sistema di partiti’. Allora, praticamente
ci dicono, ‘ci siamo trovati, adesso sì che parliamo
della stessa cosa e nel nostro modo’.
Adesso insistiamo nel cercare di ricostruire insieme
a questi compagni quello che è il CNI. Ci preoccupa
che l’altra campagna, arrivata a destinazione,
lasciasse fuori un’altra volta i popoli indios, che tutto
si riduca alla questione della casa, degli operai, i contadini,
dello Stato… che un’altra volta i popoli indios
non esistano. O sono lavoratori o sono contadini o sono popolari,
ma non hanno la loro specificità. Per questo abbiamo
insistito che ci debba essere il settore indigeno o lo spazio
dei popoli indios all’interno dell’altra campagna,
e realizzare in primo luogo un processo di educazione affinché questo
si capisca. Pensavamo che ci sarebbe costato più lavoro,
ma si sta già costruendo. Il movimento indigeno diventerebbe
il principale maestro di questa scuola. Le lezioni più profonde,
più chiare, sono venute dai popoli indios.
Dentro questa grande frammentazione,
grandi differenze ed atteggiamenti particolari, l’altra campagna, riuscirà a
mettere insieme tutte queste espressioni?
Siamo nella fase della conoscenza. Quando attaccano
uno, attaccano gli altri. Senza l’altra campagna, la
storia di Atenco sarebbe stata diversa. Riguarderebbe solo
le organizzazioni coinvolte, ma adesso è una campagna
nazionale ed internazionale. Insieme a loro come parte di un
movimento, perché questa è la consegna: se
attaccano uno, attaccano tutti. Dobbiamo proteggerci tra noi
tutti. Questa è la differenza.
Lo sviluppo ed il progresso hanno un loro sopra ed
un loro sotto, e quello che si è visto è che
lo sviluppo ed il progresso dell’alto è il sottosviluppo
e l’arretratezza in basso. Questo, dalla riforma all’articolo
27, insieme a tutti i suoi profeti ora in declino che dicevano
che avrebbe salvato la campagna messicana perché la
privatizzazione delle terre le avrebbe sviluppate, mentre quello
che volevano i contadini era solo restare piccoli proprietari.
L’attuale distruzione delle campagne si basa su questo.
Nello sviluppo dell’agroindustria, dei proprietari di
case e proprietari terrieri; l’sproprio delle terre.
Questo sviluppo e progresso hanno significato l’aumento
delle persone che devono cercare lavoro oltre frontiera, l’aumento
del narcotraffico, la semina di stupefacenti e la distruzione
di intere comunità.
Tutti siamo messi all’angolo. Silenziosi, dimenticati:
non ci vedevano, non ci prendevano in considerazione, stavamo
sulla difensiva. Ci stiamo trovando qui e stiamo vedendo che
la forza è più di quanto pensavamo. Non ci importa
se non saremo nei libri di storia; quello che ci interessa è il
nostro posto come popoli indios e non mi riferisco solo agli
zapatisti. Nei discorsi a Tuxpan (Jalisco) e poi nella zona
nahua di Manantlán, abbiamo visto quello che fa il sistema
con la natura. Era da brivido. E la stessa decisione di dover
fare qualcosa. La stessa convinzione che ho sentito dai compagni
huicholes. Questo sentimento non aumenta i punti dei sondaggi,
né la simpatia o di qualcuno che guarda da un’altra
parte. Pensiamo di aver indovinato a guardare in basso e forse
dicono che non era il momento, che non è favorevole.
Ma realmente la situazione è drammatica.
Ci sono due opzioni. Per noi è preferibile quella
civile e pacifica. È più includente, più bella,
c’è meno distruzione, meno morti, nonostante problemi
e repressione, perché non vuole dire che tutto sarà semplice.
Ma sarà sempre meglio di una guerra, e se non facciamo l’altra
campagna quello che potrebbe succedere è una guerra
civile. L’altra campagna è l’unica
alternativa affinché questo paese sopravviva. Come lo
farà, con quale sistema e tutto il resto, è qualcosa
che dobbiamo costruire tutti insieme.
Arriverà un momento in cui questo movimento
valuterà la sua forza. È quando un movimento
ha valutato quello che può fare e quando. Stabilire
data, ora e luogo per abbattere il governo e cacciare i ricchi.
Quando la gente ti comincia a dire ‘fino alla morte se è necessario’,
o non te lo dice, ma tu lo stai vedendolo, tocchi con mano
e dici, questa gente non sa dove sbattere, e arriva alla stessa
conclusione, e lo farà. L’errore è non
farlo vedere. L’altra campagna è contraria
a queste due opzioni: la distruzione totale o la sconfitta
per frammentazione e dispersione.
Sarebbe come rompere la spina dorsale del paese?
I Balcani, il Libano. Paesi che hanno perso l’identità,
dove attraversi una strada ed è di una banda, ne attraversi
un’altra ed è di un’altra banda. Così descrivevano
Beirut. Tanti gruppi, senza direzione né niente. Come
tutta la classe politica, PAN, PRI, PRD e gli altri piccoli
o medi, hanno ormai perso la capacità di interlocuzione
e legittimità; non si tratta di trovare con chi dialogare, è che
non hanno di che dialogare. Nel caso di Atenco, l’unica
cosa che possono fare è liberare i prigionieri e disattivare
il focolaio rosso, come dicono loro, e lasciare che l’altra
campagnaprosegua. Se no, la sola cosa che faranno sarà far
precipitare tutto. Loro calcolano che si sgonfierà,
ma no. Ha continuato a crescere, tutti lo sanno.
Perché c’è un allontanamento di
molti intellettuali che simpatizzavano? Adesso lo fanno di
meno o sono arrabbiati?
Perché si è scelta un’altra strada.
L’avevamo già calcolato fin dall’inizio.
Se la simpatia di un gruppo di intellettuali era parte della
copertura affinché non ci fosse un attacco militare,
tutti gli intellettuali o un gruppo importante di loro simpatizzava
dall’alto, ma non appena noi avessimo rotto con la strada
che passava dall’alto, avremmo rotto con loro. Sapevamo
che sarebbe successo questo. Ma non dimentichiamo quello che
hanno fatto per noi. Li ringraziamo, anche se adesso si stanno
sbattendo di noi. Perché noi sì abbiamo memoria.
Che cosa c’entra il movimento degli
immigrati negli Stati Uniti con l’altra campagna?
Stiamo raggiungendo gli immigrati da due lati. Uno,
il più forte, è dal basso, ovvero attraverso
le famiglie, dovunque siamo passati con l’altra campagna
ci hanno detto che non c’è praticamente più una
famiglia che non abbia perso un congiunto per morte, o perché sta
di là e non lo vedono più, e sentono la necessità di
ricostruire non solo la loro famiglia ma la loro comunità.
Ci hanno parlato di questa situazione di un parente, uomo o
donna, giovane, che ha dovuto emigrare perché il nostro
paese non è riuscito a dargli un lavoro degno. E raccontano
dei sacrifici che devono fare per mettere insieme i soldi per
passare la frontiera, e chissà se la passano. Da questa
parte in basso la situazione è di sopruso economico.
La parte in basso
Questa è la parte in basso, ma siamo arrivati anche
dalla parte in alto quando i compagni di là ci hanno
detto, il problema è questo (...), ci hanno allontanato
dalla nostra famiglia. Non c’è neppure un’opzione
politica, abbiamo bisogno di partecipare ad un’altra
cosa che ci riconosca, perché il settore degli immigrati
negli Stati Uniti è sempre stato un terreno di caccia,
soprattutto adesso che si può votare anche da quella
parte, e quei gruppi sono riusciti a costituirsi dentro l’impero
con quella forza e quella ribellione, perché non lasceranno
che qualcuno se li mangi, per quanto sia di sinistra. Quando
vedono che l’altra campagna è uno spazio
dove possono conservare la loro autonomia, la loro indipendenza,
la loro identità, allora aderiscono.
Noi vediamo che a medio o breve termine aumenterà il
flusso di emigranti. Con questo cinismo di Fox che dice che
l’economia nazionale va bene, perché gli emigranti
stanno inviando un mucchio di soldi in rimesse. Ma il governo
degli Stati Uniti chiuderà la frontiera con molti metodi.
Finirà per espellerne alcuni ed ottenere l’acquiescenza
del governo messicano per chiudere la frontiera. Allora, tutto
questo si trasforma in una pentola a pressione perché,
dove deve andare la gente? Senza lavoro, senza terra e spogliata
di tutto. Si crea una pressione sociale fortissima in cui non
c’è possibilità di lavoro, aspettativa
sociale, niente, perché non c’è niente
da produrre né da vendere. La gente ci dice che a volte
ha tonnellate di mais ma che non può raccoglierlo perché non
ha un prezzo giusto, gli costa di più raccoglierlo che
lasciarlo dov’è, perché non si vende, perché non
c’è un buon prezzo.
Perché seminare mais o un altro prodotto se
non dà niente. Allora, tutto questo viene distrutto
e si arriva all’importazione degli alimenti. Una guerra,
immagina che un esercito avesse distrutto tutto e non ci sono
più coltivazioni, ci sono sfollati e la gente deve fuggire
ed i profughi, che in questo sono milioni, sostengono l’economia,
ma questo non può durare a lungo. In questo senso l’altra
campagna, in entrambi i lati della frontiera, sta ascoltando
la linea del basso, che è dove pensiamo debba essere,
tra i famigliari e tra quelli che sono andati via.
Questo è l’altro Messico che ci unirà.
Tutta la mobilitazione a cui assistiamo avviene fuori dei partiti,
perché là non ci sono né il Partito Democratico
né il Repubblicano. E’ anche parte della crisi
della classe politica in tutto il mondo, e quei movimenti per
sopravvivere lì, come tali, con la propria identità latina,
non solo messicana, arrivano al punto in cui devono fare qualcosa.
Nessuno degli organizzatori, nessuno dei convocanti si aspettava
quella partecipazione. Stanno accadendo cose che non si leggono
nei manuali degli editorialisti politici, che non c’entrano
con i rapporti di forza. Vuol dire che non si sta guardando
in basso, non si vede che nelle correnti che scorrono in basso è in
atto un processo organizzativo che non dipende da quello che
accade in alto nei partiti politici, né nella classe
politica.
Nel momento in cui cominciano a programmare azioni
unitarie, allora dicono, lì c’erano gli equivalenti,
il primo gennaio del 1994, ma civili e pacifici, però in
entrambi, che onore, c’è sangue messicano.
Quando l’altra campagna si avvicinerà alla
frontiera, ci sarà una buona accoglienza?
Ci sono già azioni di compagni dell’altra
campagna dall’altra parte. Diciamo che dobbiamo
costruire un altro paese affinché la nostra gente
non debba andarsene, e quella che sta dall’altra parte
possa ritornare. Quello che loro hanno costruito là è nostra
parte, è come se avessimo esportato un pezzo di Messico
a nord del río Bravo. Fosse parte della nostra stessa
storia, del nostro stesso dolore e soprattutto della stessa
esperienza organizzativa. Si uniscono zapotecos, mixtecos,
chiapanecos perché ci sono molti stati che si dedicano
ad esportare indigeni. Vogliamo fare un altro Messico, dove
si prendano in considerazione tutte quelle cose che li ha
fatti emigrare. Poter dire che qua c’è posto,
che vengano o che non se ne vadano più via.
Qual è il panorama che si presenta
adesso per l’altra
campagna in America Latina?
Nel caso della Bolivia, è stato ritenuto un
gesto di disprezzo, una scortesia da parte nostra nei confronti
del movimento (per non essere andati all’insediamento
di Evo Morales), diciamo che lì, a differenza del Messico
e di altri posti, c’è un movimento popolare che
rompe una struttura di dominio e riesce a mettere uno di loro.
Deve affrontare però un mucchio di problemi su come
deve essere il rapporto tra governo e movimento, tra governo
e tutto il resto. Lì quello che si deve fare è guardare
in basso, verso il movimento che ha reso possibile questo e
rispettarne le decisioni, non quelle che si prendono a livello
di governo, a livello istituzionale, ma che si considerino
le valutazioni che arrivano dal basso.
Qual è il problema con l’istituzione
governativa boliviana?
Guardare in alto. Evo è al potere, è il
presidente, ma in questo senso il governo si deve guardare
dal basso.
Non lo ritieni quindi un potere popolare?
Non ancora. Potrà diventarlo. Siamo attenti
a quello che dice il movimento del basso, il movimento popolare
indigeno che capeggia tutto questo. Noi l’abbiamo detto
chiaramente: guardiamo in alto, quando la gente in basso ci
dice di guardare in alto. Stiamo osservando il movimento indigeno
boliviano, che abbiamo molto in simpatia, ma loro stessi stanno
guardando come vanno le cose, come avanzano, e sarebbe stato
un errore da parte nostra, non solo dentro l’altra
campagna in Messico, ma anche su scala continentale, andare
verso l’alto e non verso il basso.
Si manda mais zapatista al popolo cubano, non al governo,
se poi il popolo ed il governo cubano sono coinvolti in tutto
questo, è qualcosa che riguarda solo loro, non sta a
noi decidere. Questo caso particolare è un segnale molto
chiaro di sinistra, soprattutto adesso che è di moda
tra la sinistra democratica, progressista, non so come chiamarla,
criticare Cuba, omettendo il blocco. Inoltre facendo il collegamento
tra Castro e Cuba. Una posizione di sinistra è dire,
qui c’è un’aggressione di un potere contro
un popolo, quindi è elementare solidarietà.
Questo popolo ha la capacità di decidere: al popolo
cubano che ha abbattuto Batista, nessuno va a dire cos’è un
dittatore.
Credi che ci sia una trasformazione reale in America
Latina con questi cambiamenti di governo?
Non ancora. Ci sono due esempi: quello di Lula in
Brasile, che noi pensiamo sia l’opzione del potere nordamericano
per l’America Latina e per il mondo, la ricostituzione
degli stati amministrati dalla destra e presentati con la sinistra,
e quello della Bolivia, per l’implicazione del movimento
insurrezionale e l’arrivo al potere di Evo Morales.
Argentina, Uruguay?
Lì ancora tutto più diluito, è che
da tutte le parti c’è il crollo degli stati, ed
allora si aprono due opzioni: la destra e la sinistra. Ma se
sono amministratori, non c’è differenza tra loro
se non nel ruolo, e perfino molte volte neanche nel ruolo, è il
caso di Cile ed Uruguay, di tutta l’America Latina, incluso
il Messico. Il caso più interessante, quella che richiama
l’attenzione è la Bolivia, per quello che può significare.
E c’è il costante attrito tra il governo di Lula
ed il Movimento dei Sem Tierra per le istanze incompiute, dove
si impone un programma economico neoliberale.
Il Movimento dei Sem Tierra si è avvicinato
all’altra campagna?
Sì, e guarda con interesse alla proposta di
un’altra strada, una di sinistra che non sia a parole
ma si pone contro il capitalismo. Ma è nel caso della
Bolivia dove siamo attenti e vogliamo guardare in basso, non
vogliamo dire a nessuno quello che deve fare, vogliamo che
ce lo dicano loro, ma quelli in basso, non quello che può dirci
Evo Morales sulla Bolivia, ma quello che possano dirci gli
indigeni che si sono ribellati in Bolivia, quelli che stanno
lottando in Brasile, in Argentina, in ogni posto quelli che
stanno in basso. E nel caso del Venezuela, ugualmente, guardare
in basso.
(La Jornada 11 maggio 2006)
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