Le prigioni e le fucilazioni a Cuba sono delle gran belle notizie per il superpotere universale, che ha una voglia matta di togliersi una volta per tutte questa spina ostinata. Sono invece gran brutte notizie, notizie tristi che fanno molto male, per noi che crediamo che il coraggio di quel paese, piccolo ma così capace di grandezza, sia ammirevole, ma che crediamo anche che la libertà e la giustizia vadano di pari passo o non vadano da nessuna parte. Tempi di gran brutte notizie: come se non ne avessimo abbastanza della iniqua immunità della strage in Iraq, il governo cubano commette questi atti che, come direbbe il signor Carlos Quijano, «peccano contro la speranza». Rosa Luxemburg, che diede la vita per la rivoluzione socialista, dissentiva da Lenin nel progetto di una nuova società. Lei scrisse parole profetiche su ciò che non voleva. Fu assassinata in Germania, ottantacinque anni fa, ma continua ad avere ragione: «La libertà solo per i partigiani del governo, solo per i membri di un partito, per quanto siano numerosi, non è libertà. La libertà è sempre libertà per colui che pensa in modo diverso». E anche: «Senza elezioni generali, senza una libertà di stampa e una libertà di associazione illimitate, senza una lotta di opinioni libere, la vita vegeta e marcisce in tutte le pubbliche istituzioni, e la burocrazia arriva ad essere l'unico elemento attivo». Il ventesimo secolo e questo scampolo del ventunesimo ci hanno dato testimonianza di un doppio tradimento del socialismo: la destabilizzazione della democrazia, che ai nostri giorni è arrivata al colmo con il sergente Tony Blair, e il disastro degli stati comunisti trasformati in stati polizieschi. Molti di quegli stati si sono già disintegrati, senza infamia e senza lode, e i loro burocrati riciclati servono il nuovo padrone con entusiasmo patetico. >La rivoluzione cubana nacque per essere diversa. Sottoposta a un'incessante pressione imperiale, è sopravvissuta come ha potuto e non come avrebbe voluto. Si è molto sacrificato quel popolo, intrepido e generoso, per continuare a stare in piedi in un mondo pieno di prostrati. Ma nel duro cammino che ha percorso in tanti anni, la rivoluzione ha perso progressivamente il vento della spontaneità e della freschezza che al principio l'aveva sostenuta. Lo dico con dolore. Cuba ci fa male. La cattiva coscienza non m'imbroglia la lingua per ripetere quel che ho già detto all'interno e fuori dell'isola: non credo, non ci ho mai creduto, alla democrazia del partito unico (nemmeno negli Stati Uniti, dove c'è un partito unico travestito da bipolarismo), e non credo neppure che l'onnipotenza dello stato sia la risposta all'onnipotenza del mercato. Credo che le lunghe condanne al carcere siano degli autentici autogol. Trasformano in martiri della libertà d'espressione dei gruppi che operavano apertamente dalla casa di James Cason, il rappresentante degli interessi di Bush all'Avana. La passione liberatrice di Cason era andata così lontano che lui stesso fondò la Sezione Giovanile del Partito Liberale Cubano con la delicatezza e il pudore che caratterizzano il suo capo. Agendo come se quei gruppi fossero una minaccia, le autorità cubane gli hanno reso omaggio, e gli han-no regalato il prestigio che le parole acquisiscono quando sono proibite. Questa «opposizione democratica» non ha nulla a che vedere con le genuine aspettative dei cubani onesti. Se la rivoluzione non le avesse fatto il favore di reprimerla, e se a Cuba ci fosse piena libertà di stampa e di opinione, questa presunta dissidenza si squalificherebbe da sola e riceverebbe il castigo che si merita, il castigo della solitudine, per la sua nota nostalgia dei tempi coloniali in un Paese che ha scelto il cammino della dignità nazionale. Gli Stati Uniti, instancabile fabbrica di dittature nel mondo, non hanno l'autorità morale per dare lezioni di democrazia a nessuno. Potrebbe invece dare lezioni di pena di morte il presidente Bush, il quale, come governatore del Texas si è proclamato campione del crimine di stato firmando 152 esecuzioni. Ma le rivoluzioni vere, quelle che si fanno dal basso e dall'interno come si fece la rivoluzione cubana, hanno forse bisogno di imparare cattive abitudini dal nemico che combattono? La pena di morte non si può giustificare, ovunque venga applicata. Sarà Cuba la prossima preda nella strage di Paesi intrapresa dal presidente Bush? L'ha annunciato suo fratello Jeb, governatore dello stato della Florida, quando ha detto: «Adesso bisogna guardare il vicinato», mentre l'esiliata Zoe Valdés chiedeva gridando alla televisione spagnola «che facciano scoppiare il dittatore con una bomba». Il ministro della Difesa, o per meglio dire dell'Attacco, Donald Rumsfeld, ha messo in chiaro: «Per adesso no». Sembra che il pericolosimetro e il colpometro, le macchinette che scelgono vittime nel tiro a segno universale, puntino piuttosto verso la Siria. Chissà. Come dice Rumsfeld: per adesso. Credo al sacro diritto all'autodeterminazione dei popoli, in qualunque luogo e in qualunque tempo. Posso dirlo, senza che niente mi tormenti la coscienza, perché l'ho detto pubblicamente ogniqualvolta questo diritto è stato violato in nome del socialismo, con gli applausi di un vasto settore della sinistra, come successe, ad esempio, quando i carri armati sovietici entrarono a Praga nel 1968, o quando le truppe sovietiche invasero l'Afganistan alla fine del 1979. A Cuba sono visibili i segni della decadenza di un modello di potere accentratore, che trasforma in merito rivoluzionario l'obbedienza agli ordini che vengono calati dall'alto. L'embargo e altre mille forme di aggressione, paralizzano lo sviluppo di una democrazia alla cubana, alimentano la militarizzazione del potere e offrono alibi alla rigidità burocratica. I fatti dimostrano che oggi è più che mai difficile aprire una cittadella che si è andata fortificando man mano è stata obbligata a difendersi. Ma i fatti dimostrano anche che l'apertura democratica è, più che mai, imprescindibile. La rivoluzione, che è stata capace di sopravvivere alle furie di dieci presidenti degli Stati uniti e di venti direttori della CIA, ha bisogno di quell'energia, energia di partecipazione e di diversità, per far fronte ai tempi duri che ci attendono. Devono essere i cubani, e solo loro, senza che nessuno vada a metterci mano dall'esterno, ad aprire nuovi spazi democratici e a conquistare le libertà che mancano, all'interno della rivoluzione che loro hanno fatto e dalle profondità della loro terra, che è la più solidale che io conosca. il
Manifesto, 18.04.03 Eduardo Galeano è nato nel 1940 a Montevideo (Uruguay). Giornalista e scrittore, nel 1973 in seguito al colpo di stato militare è stato imprigionato e poi espulso dal suo paese. Ha vissuto lungamente in esilio fino alla caduta della dittatura. Dotato di una scrittura nitida, pungente, vivacissima, è un intellettuale fortemente impegnato nella lotta per i diritti umani e dei popoli. Collabora al quotidiano italiano il manifesto. Opere: Le vene aperte dell'America Latina, recentemente ripubblicato da Sperling & Kupfer; Memoria del fuoco, Sansoni; il recente A testa in giù, Sperling & Kupfer: Guatemala, una rivoluzione in lingua maya, Laterza; Voci da un mondo in rivolta, Dedalo; La conquista che non scoprì l'America, Manifestolibri; Las palabras andantes, Mondatori. |