SECONDO PERIODO 1848 - 1859
VIAGGIO IN ITALIA
In sessantatre lasciammo le sponde del Plata per andare in Italia a combattere
la guerra di liberazione. In tutta la penisola c’erano vari segnali
di movimenti insurrezionali, ma in caso contrario eravamo ben decisi a
provocarli noi, sbarcando sulle coste della Toscana o dovunque la nostra
presenza fosse richiesta e necessaria.
Grazie ai nostri risparmi ed al generoso patriottismo di alcuni conterranei
(tra cui G. Batta Capurro, Gianello, Della Zoppa, Massera, Giuseppe Avegno,
e soprattutto Stefano Antonini) potemmo noleggiare il brigantino Speranza:
andavamo a soddisfare il desiderio di tutta una vita: quelle armi degnamente
impugnate per difendere gli oppressi di altri paesi, volavamo ad offrirle
alla nostra vecchia patria! Quell’idea era il più grande
compenso per i pericoli, le difficoltà, le sofferenze, di un’intera
vita di affanni. [...]
Si partì il 15 aprile 1848. Usciti dal porto di Montevideo con
una buona brezza, anche se il tempo non era favorevole, verso sera eravamo
tra la costa di Maldonado e l’isola di Lobos; la mattina dopo si
vedeva appena la sommità della Sierra de las animas e poi scomparve:
alla nostra vista si offrivano solo gli spazi dell’Atlantico, e
davanti la più bella e sublime delle aspirazioni: la liberazione
della patria.
Sessantatre, tutti giovani, tutti pronti a combattere, tranne due: con
la salute assai compromessa per via delle tante lotte, Anzani era molto
debilitato, e Sacchi, gravemente ferito al ginocchio, aveva una gamba
che faceva spavento; la forza d’animo e le cure fraterne riuscirono
a portarlo in Italia non sano, ma almeno salvo, mentre per Anzani in patria
lo attendeva solo la sepoltura, accanto ai suoi familiari.
Il nostro viaggio fu ottimo e breve, e l’ozio della navigazione
fu utilizzato proficuamente: i più colti insegnavano agli altri
e si facevano molti esercizi di ginnastica; un inno patriottico composto
dal nostro Coccelli era la preghiera di ogni sera: intonato da Coccelli,
era poi ripetuto da tutti, e con grande entusiasmo lo cantavamo in coro
sulla tolda della Speranza.
Attraversammo l’Oceano senza notizie certe sull’Italia, sapendo
soltanto delle riforme promesse da Pio IX. L’approdo era stato fissato
in Toscana, indipendentemente da quale fosse stata la sua situazione politica,
e quindi non sapevamo se avremmo incontrato amici o combattuto nemici.
Una tappa a Santa Pola, in Spagna, modificò le nostre intenzioni
e fissammo come meta Nizza. La malattia di Anzani peggiorava ed i pochi
viveri andavano esaurendosi: bisognava approdare e fare provviste, e quando
giungemmo a Santa Pola il capitano Gazzolo, comandante della Speranza,
scese a terra; tornato a bordo ci diede delle notizie che avrebbero fatto
impazzire anche uomini meno entusiasti di noi: Palermo, Milano, Venezia,
e le cento città sorelle erano in rivolta, l’esercito piemontese
stava mettendo in fuga quello austriaco, tutta l’Italia rispondeva
come un sol uomo all’appello e mandava i suoi figli alla guerra
santa. Lascio immaginare l’effetto che produssero su di noi queste
notizie: correvamo sulla tolda abbracciandoci l’un l’altro,
fantasticando e piangendo di gioia! Anzani balzava in piedi malgrado le
sue pessime condizioni, Sacchi voleva a tutti i costi scendere dal letto
ed essere portato su in coperta.
"Alla vela, alla vela!", era il grido di tutti, e non c’è
dubbio che se non si fosse partiti subito ci sarebbero stati dei disordini.
In un lampo l’ancora fu salpata ed il brigantino spiegò le
vele: il vento sembrava corrispondere alla nostra impazienza e in pochi
giorni costeggiammo la Spagna e la Francia, arrivando alla vista dell’Italia,
della terra promessa! Non eravamo più banditi, non eravamo più
obbligati a combattere per entrare in patria, e così scegliemmo
il primo porto italiano, Nizza, dove sbarcammo il 23 giugno 1848.
Nei momenti più difficili della mia vita tempestosa avevo sempre
sperato in giorni migliori e lì a Nizza provavo una felicità
enorme, che nessuno avrebbe potuto desiderare più grande: davvero
troppa felicità, ed ebbi allora quasi il presentimento di sciagure
non lontane. Anita ed i bambini, partiti alcuni mesi prima, erano già
lì, insieme a mia madre, che amavo teneramente e che non vedevo
da quattordici anni; riabbracciavo cari parenti e amici preziosi, felici
di vedermi, tanto più in quei giorni fortunati. [...]
Ormeggiato il brigantino e fatti sbarcare Anzani e Sacchi, scese a terra
tutta la nostra gente, ansiosa di camminare su terra italiana. Corsi ad
abbracciare i miei figli e colei che avevo così tanto afflitto
con la mia vita avventurosa. Povera mamma! Il mio più ardente desiderio
era certo quello di rendere sereni i tuoi ultimi giorni, e il tuo, naturalmente,
di vedermi tranquillo accanto a te: ma come si può sperare in un
periodo di quiete, in cui consolarti nella triste e sofferta vecchiaia,
in questa terra di preti e di ladri!
I pochi giorni passati a Nizza furono una festa continua, ma sul Mincio
si combatteva e quell’ozio era per noi un delitto, mentre i nostri
fratelli si battevano contro lo straniero: così partimmo per Genova,
dove ci attendeva un’altra calorosa accoglienza. Per accelerare
il nostro arrivo, da là ci avevano mandato un vapore, che però
ci cercò inutilmente sulle coste della Liguria, perché le
correnti e i venti contrari ci avevano spinti verso la Corsica. Alla fine
arrivammo, e con noi alcuni giovani nizzardi che avevano voluto accompagnarci
con l’entusiasmo tipico della loro età e con la fiamma vitale
che allora ardeva in tutti gli italiani coraggiosi. Il popolo di Genova
ci accolse pieno di gioia e di affetto, le autorità con la freddezza
di chi non ha la coscienza a posto: le loro smorfie e perdite di tempo
erano il preludio del comportamento che avremmo tanto spesso trovato in
coloro che vivevano di compromessi e parlavano di libertà più
per paura del popolo che per intima convinzione.
Anzani, che avevo lasciato a casa di mia madre, impaziente e spinto dal
suo genio di fuoco, si era imbarcato sul vapore e ci aveva preceduti a
Genova, ad onta della spossatezza a cui lo aveva ridotto la sua malattia
mortale.
Qui comincia l’ostracismo a cui mi condannarono gli amici di Mazzini
(1848) e che continua ancora oggi (1872), più duro che mai: il
pretesto fu certamente che io ed i miei compagni volevamo marciare subito
verso il campo di battaglia, sul Mincio e nel Tirolo: e tutto perché
a fronteggiare gli austriaci era un esercito regio. E si badi che quelli
che allora tormentavano il povero Anzani affinché mi facesse cambiare
idea, sono gli stessi che oggi formano il gruppo dei servi più
fedeli della monarchia! Quando udii il mio amato fratello d’armi,
compagno di tante battaglie, raccomandarmi di "non abbandonare la
causa del popolo", confesso che rimasi profondamente amareggiato,
forse più di quanto non lo sia oggi nel sentirmi chiedere di "dichiararmi
apertamente repubblicano."
Nella casa dell’amico Gaetano Gallino, in pochi giorni quel grande
italiano morì, e per lui l’Italia intera avrebbe dovuto vestirsi
a lutto; se, per fortuna nostra, ci fosse stato lui alla guida del nostro
esercito, da molto la penisola sarebbe libera da qualsiasi dominatore.
Sicuramente non ho mai conosciuto uomo più corretto, onesto, ed
esperto di cose militari, di Anzani. La salma dell’illustre soldato
attraversò senza clamori la Liguria e la Lombardia per essere sepolta
nella tomba dei suoi padri, ad Alzate, dov’era nato.
A
MILANO
La nostra idea, quando lasciammo l’America, era di servire l’Italia
e di combattere i suoi nemici, qualunque fosse l’orientamento politico
di chi avrebbe guidato il paese verso la libertà. La maggioranza
dei concittadini aveva la stessa opinione, ed io dovevo unire il mio piccolo
contingente a chi combatteva la guerra santa: era Carlo Alberto il condottiero
di chi lottava per l’Italia, ed io mi dirigevo a Roverbella, al
quartier generale, per offrire senza rancore il mio braccio e quello dei
miei compagni a colui che mi aveva condannato a morte nel ‘34.
Lo vidi e avvertii tutta la sua diffidenza; e deplorai che il destino
della nostra povera patria fosse nelle indecisioni e nei dubbi di quell’uomo.
Io avrei servito l’Italia del re come se fosse stata repubblicana,
con lo stesso slancio, e avrei trascinato con me tutta la gioventù
che si fidava di me.
Rendere l’Italia unita e libera dal mortale straniero, questo era
il mio scopo, e credo che allora lo fosse della maggior parte delle persone.
L’Italia non avrebbe trattato con ingratitudine chi la liberava.
Non solleverò la lapide di quel defunto per criticare il suo contegno:
lascio che sia la storia a giudicare. Dirò soltanto che egli, chiamato
dal suo ruolo, dalle circostanze e dall’insieme degli italiani,
a guidare la liberazione, non meritò la fiducia riposta in lui:
non solo non seppe servirsi dei grandi mezzi di cui disponeva, ma fu la
principale causa del loro disastro.
Da Genova marciavamo verso Milano, consapevoli dell’opinione generalmente
diffusa, e quindi senz’altro accreditata dai nemici, che cioè
l’azione dei corpi volontari fosse inutile e dannosa: andavo da
Genova a Roverbella, da lì a Torino, e quindi a Milano, senza poter
ottenere di servire il mio paese, senza alcun incarico. Casati, capo del
governo provvisorio di Milano, fu l’unico che ritenne di avvalersi
di noi, e ci aggregò all’esercito lombardo: così,
stabilendomi a Milano, terminai i miei vagabondaggi. Il governo provvisorio
m’incaricò di organizzare i vari corpi, associandovi anche
i miei compagni d’America, e le cose non sarebbero andate male senza
l’ingerenza malefica di un ministro regio, Sobrero, le cui sordide
manovre mi disgustano ancora. [...]
La febbre da cui ero stato colpito nel viaggio a Roverbella e gli incontri
con Sobrero, che fra le varie antipatie aveva quella per la camicia rossa,
sostenendo che era un ottimo bersaglio per i nemici, mi resero insopportabile
il soggiorno nella bella e patriottica città delle cinque giornate,
e respirai di sollievo il giorno in cui lasciai la capitale della Lombardia
diretto a Bergamo con un pugno di uomini senza mezzi e male armati: ancora
una volta avevo un compito organizzativo, incarico assai poco indicato
per il mio carattere e le mie scarse cognizioni di teoria militare. È
da notare che i miei uomini erano per la maggior parte riserve o scarti
dei corpi volontari che operavano nel Tirolo, impigriti dal lungo soggiorno
nella capitale. La permanenza a Bergamo fu brevissima: stavamo approntando
le prime misure di difesa e cercavamo con tutti i mezzi di arruolare uomini,
inviando i reclutatori nelle valli e fra le montagne per aggregarne i
robusti abitanti, e ciò soprattutto tramite gli insostituibili
Davide e Camuzzi, che avevano un grande ascendente ma le cui fatiche furono
annullate dall’improvvisa partenza; un ordine perentorio, infatti,
ci richiamò a Milano per raggiungere il grosso dell’esercito
in ritirata e prendere parte alla battaglia che ci sarebbe stata vicino
alla città, a qualsiasi condizione: finalmente era venuto il momento
di combattere e non c’era tempo da perdere. [...]
Lasciati a Tricate i bagagli e i sacchi per poter marciare più
in fretta, vicino a Monza ci venne ordinato di operare sulla destra e
stavamo preparandoci inviando esploratori a cavallo per conoscere posizioni
e intendimenti del nemico: ma, arrivati in città, insieme a noi
arrivò anche la notizia della capitolazione, dell’armistizio,
e fiumi di fuggitivi non tardarono a intasare le strade. Armistizio, capitolazione,
fuga: una dopo l’altra queste notizie ci colpirono come un fulmine,
mentre paura e demoralizzazione si diffondevano tra la popolazione, fra
i soldati, ovunque. Alcuni vigliacchi che purtroppo si trovavano coi miei
abbandonarono i fucili sulla stessa piazza di Monza e scapparono in tutte
le direzioni: i veri soldati, incolleriti e scandalizzati per quest’infamia,
spianarono le armi per fucilarli, ma per fortuna io e gli ufficiali riuscimmo
a prevenire la strage e ad evitare il caos; punimmo alcuni fuggitivi,
gli altri furono degradati e cacciati. [...]
La situazione mi spinse ad abbandonare quel teatro di sciagure e a dirigermi
verso Como, con l’intenzione di fermarmi lì ad aspettare
gli eventi, deciso a portare avanti la guerriglia, se altro non si poteva
fare. Durante il tragitto comparve Mazzini con la sua bandiera "Dio
e popolo". Si unì a noi fino a Como e da lì passò
in Svizzera, mentre io mi preparavo alla guerra per bande sui monti comaschi;
molti suoi seguaci, o supposti tali, lo seguirono in terra straniera e
ciò naturalmente spinse altri ancora ad abbandonarci, assottigliando
ancor di più le nostre file. A Milano avevo commesso l’errore,
che Mazzini non mi ha mai perdonato, di dirgli che non era una buona cosa
trattenere tanti giovani con la promessa di proclamare la repubblica,
mentre esercito e volontari combattevano contro gli austriaci.
A Como trovammo più ordine, ma non meno sgomento per quanto era
successo a Milano e per la sconfitta militare.
[...]
NELLO
STATO ROMANO ED ARRIVO A ROMA
La fine di Rossi fece capire ai governanti di Roma che non si potevano
più calpestare impunemente i diritti e la volontà di una
nazione: al governo furono chiamati personaggi meno impopolari e ci fu
concesso di restare nel territorio pontificio; ciò non diminuì
la diffidenza nei nostri confronti e, quantunque fossimo aggregati all’esercito
romano, si provvedeva con ritardo ai nostri bisogni, soprattutto per quanto
riguardava l’armamento ed i cappotti, quest’ultimi indispensabili
con l’inverno alle porte.
A Ravenna erano arrivati quelli che venivano da Mantova, Masina si era
unito a noi con la sua esigua ma bella cavalleria: eravamo circa quattrocento,
non tutti armati, la maggior parte senza uniformi e malvestiti. Il municipio
di Ravenna, dal quale eravamo mantenuti, mi lasciò capire che sarebbe
stato meglio suddividere tale onere anche fra altre città, cambiando
periodicamente sede di permanenza, e così facemmo, lasciando dopo
venti giorni quella gente simpatica e generosa. [...]
Ho constatato come i ravennati siano di poche parole, ma molto concreti,
e quindi penso che sia vero un episodio che mi hanno detto essere accaduto
nella loro città: un pomeriggio tra la folla venne individuata
una spia e qualcuno gli tirò una fucilata; il feritore non fuggì
ma se ne andò tranquillamente, perché non ci sarebbe stato
qualcun altro a fare da spia, cosicché il cadavere rimase un esempio
per tutti. Dopo Ravenna soggiornammo in varie città romagnole,
ben accolti dagli abitanti e mantenuti dai municipi; a Cesena lasciai
i miei e mi diressi a Roma per incontrarmi col Ministro della Guerra,
al fine di sistemare la nostra situazione: seppi allora della fuga del
papa e col ministro Campello si stabilì che la Legione italiana
(questo era il nome del corpo che comandai in America e in Italia) avrebbe
fatto parte dell’esercito romano e sarebbe partita per Roma per
finire di equipaggiarsi. Scrissi quindi al maggiore Marrocchetti, lasciato
al comando del corpo, che procedesse e gli andai incontro: ci trovammo
a Foligno, e ricevetti l’ordine di raggiungere Fermo e presidiare
la zona, che peraltro nessuno minacciava. Era la prova che i nuovi governanti
continuavano a non fidarsi di noi e a volerci tenere lontano da Roma.
[...]
A nulla valsero le mie rimostranze sul fatto che non avevamo il vestiario
indispensabile per attraversare gli Appennini coperti di neve e dovemmo
per forza tornare indietro, ripassare il Colfiorito e andare a Fermo.
Naturalmente capivo bene che l’intenzione del governo era di allontanarci
dalla capitale, per evitare il contatto fra il nostro gruppo, ritenuto
rivoluzionario, ed una popolazione ormai decisa a far valere i propri
diritti: opinione confermata dall’ingiunzione del ministero di non
far superare alla legione l’organico di 500.
A Roma dominava lo stesso orientamento che aveva retto prima Milano ed
ora Firenze: l’Italia non aveva bisogno di soldati, ma di oratori
e diplomatici, dei quali si poteva dire quanto diceva Alfieri degli aristocratici:
"Or superbi, or umili, infami sempre." E di tali oratori il
nostro paese non è mai stato carente. Il dispotismo aveva temporaneamente
lasciato il posto ai chiacchieroni, per imbrogliare ed addormentare il
popolo, con la certezza che tali pappagalli avrebbero aperto la strada
alla tremenda reazione che si andava preparando in tutta la penisola.
Per la terza volta, dunque, attraversavamo l’Appennino, coi miei
compagni ancora sprovvisti di un cappotto in quel rigido dicembre 1848,
e tra le disgrazie che infierirono su di noi, e sul nostro povero paese,
non furono tra le minori le calunnie del clero; il suo veleno, nascosto
come quello di un rettile, si era diffuso tra la gente ignorante e ci
aveva dipinto con i colori più terribili: secondo i negromanti
eravamo persone capaci d’ogni specie di violenze, sulle proprietà
e sulle persone, scapestrati senza ombra di disciplina, e perciò
eravamo temuti come lupi o assassini. Quest’idea però si
era sempre modificata alla vista dei nostri giovani, belli e gentili,
quasi tutti istruiti e di città: è noto che nei corpi volontari
che ho avuto l’onore di comandare in Italia l’elemento contadino
è sempre mancato, a causa dei preti, ministri della menzogna, e
che i miei soldati appartenevano quasi tutti a distinte famiglie delle
diverse zone italiane. È vero che tra i miei uomini non mancarono
mai anche alcuni mascalzoni, infiltratisi di nascosto o mandati apposta
dalla polizia o dai preti per provocare disordini e delitti e screditarci,
ma questi malfattori venivano smascherati dagli stessi volontari, preoccupati
per l’onore della legione.
Nel passaggio dalla Romagna all’Umbria i maceratesi, preoccupati
per il nostro arrivo, ci avevano avvertito che avrebbero chiuso le porte
della città, ma al ritorno, cioè durante la marcia verso
Fermo, informati meglio e pentiti della loro ingiusta decisione, mi avvisarono
che desideravano la nostra presenza per dimostrarci come la volta precedente
erano stati ingannati. La traversata degli Appennini fu durissima e tutti
soffrirono molto, ma l’accoglienza ricevuta a Macerata fu una festa
che ci risarcì di tutte le pene sofferte: grazie alla buona volontà
della gente e agli aiuti delle autorità si riuscì quasi
del tutto a fornire gli uomini di vestiario. [...]
In quei giorni si procedette anche all’elezione dei deputati alla
Costituente ed i nostri soldati furono chiamati al voto. I deputati alla
Costituente! Fu uno spettacolo straordinario quello dei figli di Roma
chiamati nuovamente ai Comizi dopo secoli di schiavitù e di afflizione,
sotto il giogo odioso dell’impero e sotto quello, ancora più
infame, della teocrazia papale! Senza tumulti, senza altra passione che
quella per la libertà della patria redenta! Senza venalità,
senza prefetti o sbirri che limitassero il libero voto, si svolse la sacra
funzione del plebiscito, e non vi fu un solo caso di voto comprato, di
un cittadino che si prostituisse ai potenti. [...]
Abbi speranza, Italia! E nel periodo di sofferenze in cui ti hanno vigliaccamente
tenuta e ancora ti tengono i prepotenti stranieri ed i ladri nazionali,
non perderti d’animo: non è tutta morta la bella gioventù
che ti onorava sulle barricate di Brescia, Milano, Casale, sul ponte del
Mincio, sui baluardi di Venezia, di Bologna, di Ancona, di Palermo, per
le strade di Napoli, Messina, Livorno, là sul Gianicolo e nel Foro
della vecchia capitale del mondo! Quella gioventù è sparsa
in tutto il mondo, da un emisfero all’altro, ma col cuore vibrante
di un amore che non ha eguali, per te e per quella tua rinascita che i
freddi speculatori e i mercanti del tuo sangue non capiscono e non capiranno
mai fino al giorno in cui verranno spazzate via le porcherie che ti hanno
disonorata! Non perderti d’animo. Quella gioventù oggi bruciata
dal sole di tante battaglie ricomparirà nell’avanguardia
delle nuove generazioni cresciute nell’odio e nelle fucilate da
parte dei preti e dello straniero, rinvigorite dal ricordo di tanti oltraggi
e dal desiderio di vendetta per le troppe sofferenze subite nel carcere
e nell’esilio. [...]
Nessuno può sapere quanto durerà la degradazione in cui
sei sprofondata, Italia! Ma tutti sanno che non è lontana l’ora
solenne del tuo risorgimento!
PROCLAMAZIONE
DELLA REPUBBLICA E MARCIA SU ROMA
Restammo a Macerata sino alla fine di gennaio, poi partimmo per Rieti
con l’ordine di difendere la città: la legione si mise in
cammino per il Colfiorito ed io per Ascoli e la Valle del Tronto, con
tre compagni, per costeggiare ed osservare la frontiera napoletana. Attraversammo
gli Appennini sulle alture scoscese della Sibilla: infuriava la neve e
fui assalito dai dolori reumatici, che mi rovinarono tutto quel bel viaggio.
Incontrai le forti popolazioni della montagna e dovunque fummo accolti
calorosamente, festeggiati e scortati con entusiasmo: i dirupi echeggiavano
degli evviva alla libertà italiana, ma da lì a pochi giorni
quell’energico popolo, corrotto e istigato dai preti, si sarebbe
sollevato contro la Repubblica romana con le armi fornite dai neri traditori.
Arrivai a Rieti, dove completammo la fornitura di vestiario per i soldati,
mentre fu impossibile ottenere i fucili necessari per ultimare l’armamento:
dato che era inutile insistere con questa richiesta decisi di far fabbricare
delle lance da fornire ai disarmati. [...] Il numero degli uomini aumentava
e ci si organizzava alla meglio, ma il governo di Roma non voleva, e come
ci avevano intimato di non superare i 500 ora ci proibiva di oltrepassare
i 1.000: così, avendone già di più, fui costretto
a ridurre la già misera paga, compresa quella degli ufficiali,
in modo da poter pagare tutti, ma non si levò una sola protesta
tra i miei prodi fratelli d’armi. Si approfittò della sosta
a Rieti per provvedere all’addestramento dei legionari e si presero
alcune misure di difesa lungo la frontiera, per contrastare le manovre
del Borbone, già dichiaratosi apertamente contro la libertà
italiana.
Eletto deputato dai maceratesi, fui chiamato a Roma per far parte dell’Assemblea
Costituente e l’8 febbraio 1849, alle undici di sera, ebbi la fortuna
di essere fra coloro che per primi proclamarono quasi all’unanimità
quella Repubblica di gloriosa memoria, e che presto sarebbe stata schiacciata
dal gesuitismo collegato come sempre all’aristocrazia europea. Colpito
da un forte attacco reumatico fui trasportato a spalla dal mio aiutante
Bueno nelle sale dell’assemblea romana. [...]
Assistevo alla rinascita del gigante delle repubbliche! Nel teatro delle
maggiori grandezze del mondo, nell’Urbe! Che speranze, che avvenire!
Non erano sogni, dunque, quella massa di idee e di profezie che avevo
coltivato nella mente fin dall’infanzia, e a diciotto anni quando
per la prima volta vagai fra le rovine dei superbi monumenti della Città
eterna; quelle speranze di rinascita della patria che mi accompagnarono
nelle foreste americane e negli oceani in tempesta, che mi guidarono nel
compiere il mio dovere verso i popoli oppressi e sofferenti!
Liberamente, nella stessa aula in cui si riunivano i vecchi tribuni della
Roma dei Grandi, eravamo riuniti noi, forse non indegni dei nostri antichi
padri se guidati da quella stessa ispirazione che li animò in modo
straordinario! E la fatidica parola "Repubblica" risuonava nell’angusta
aula come il giorno in cui i re ne vennero cacciati per sempre! [...]
Tornato a Rieti, verso la fine di marzo ebbi l’ordine di marciare
con la legione fino ad Anagni, e ad aprile venimmo a sapere che i francesi
erano a Civitavecchia: avevano occupato una città che si poteva
difendere, se non fosse stato per il tradimento e per la viltà,
ed era chiaro il loro proposito di marciare su Roma. In quel periodo era
giunto a Roma il generale Avezzana ed assunse l’incarico di Ministro
della Guerra: non lo conoscevo personalmente, ma lo stimavo per quello
che avevo sentito sul suo carattere e sulla sua attività militare
in Spagna ed in America, e il suo nuovo incarico mi riempì di speranze.
E non mi sbagliai, perché non tardò ad arrivare l’ordine
di partire per Roma, minacciata dai soldati di Bonaparte.
Inutile dire se si marciava volentieri alla difesa della storica città.
La legione era di circa 1200 uomini, ed eravamo partiti da Genova in 60:
è vero che avevamo percorso buona parte dell’Italia, ma occorre
considerare che ovunque eravamo stati respinti dai governi e calunniati
come sanno calunniare solo i preti, e che eravamo quasi sempre senza armi,
tutte condizioni che demoralizzavano i volontari e ne ostacolavano l’organizzazione;
fra tante difficoltà potevamo quindi essere soddisfatti del numero
raggiunto. Arrivati a Roma ci stabilimmo a S. Silvestro, un convento di
monache abbandonato.
DIFESA
DI ROMA
[...] Il giorno successivo ci venne ordinato di accamparci sulla piazza
del Vaticano e di difendere le mura da Porta S. Pancrazio a Porta Portese:
l’arrivo dei francesi era imminente e dovevamo prepararci a riceverli.
Il 30 aprile doveva illuminare di gloria i giovani e inesperti difensori
di Roma e vedere la fuga vergognosa dei soldati del clero e della reazione.
Il sistema di difesa organizzato dal generale Avezzana era degno di quel
veterano: instancabile, aveva provveduto a tutto e andava ovunque poteva
essere utile la sua presenza. Incaricato della difesa da S. Pancrazio
a Portese, avevo sistemato al suo esterno degli avamposti, approfittando
della posizione dominante di Villa Corsini (Quattro venti), del palazzo
del Vascello, e di altri punti strategici: osservando le imponenti posizioni
di quegli edifici era facile dedurre che non bisognava permettere il loro
controllo da parte del nemico e che, una volta perduti, la difesa di Roma
sarebbe risultata impossibile.
Nella notte precedente il 30 aprile non solo mandai degli esploratori
lungo le due strade che conducevano alle porte, ma ordinai che due piccoli
distaccamenti si appostassero lungo quelle strade in modo da prendere
prigionieri alcuni esploratori nemici. All’alba avevo davanti a
me, in ginocchio, un soldato della cavalleria nemica che mi chiedeva salva
la vita: confesso che per quanto fosse poco importante aver fatto un prigioniero,
me ne rallegrai e lo considerai un buon segno, come fosse la Francia stessa
inginocchiata, a chiedere perdono per la condotta indegna dei suoi governanti.
Quest’uomo era stato catturato con abilità e sangue freddo
dal reparto comandato dal giovane nizzardo Ricchieri: una squadra di esploratori
nemici era stata messa in fuga e i fuggitivi, benché superiori
di numero, avevano abbandonato anche alcune armi. Sapendo dell’avvicinarsi
del nemico, è sempre utile tendere delle imboscate lungo le strade
che questo deve percorrere, perché ci sono due vantaggi quasi certi:
il primo è sapere dov’è la testa della colonna nemica,
il secondo di prendere dei prigionieri.
Intanto dalle alture di Roma veniva avvistato l’esercito francese,
che si avvicinava lentamente e con attenzione: marciava in colonna sulla
strada che da Civitavecchia arriva a Porta Cavalleggeri, e giunto a tiro
di cannone sistemò alcuni pezzi in posizione dominante, dispiegando
alcuni corpi che partirono all’assalto delle mura.
Era pieno di arroganza il modo in cui il generale nemico decise di attaccare:
Don Chisciotte contro i mulini a vento, attaccò come se non vi
fossero state difese o se queste fossero tenute da bambini; per sbaragliare
quattro brigands d’Italiens il generale Oudinot, figlio di un maresciallo
del primo impero, non aveva nemmeno ritenuto di doversi procurare una
cartina di Roma e si accorse in fretta che c’erano degli uomini
che difendevano la loro città e che si chiamavano repubblicani:
questi valorosi, dopo aver lasciato con molta calma che i nemici si avvicinassero,
li fulminarono coi moschetti e i cannoni e ne lasciarono sul terreno parecchi.
Dall’alto dei Quattro Venti avevo osservato l’attacco e l’accoglienza
preparata dai nostri a porta Cavalleggeri e sulle mura attigue: pensai
che non era disprezzabile l’idea attaccare il nemico sulla destra
e le due compagnie che inviai portarono lo scompiglio fra i nemici; ma
erano troppo inferiori di numero e furono costrette a ripiegare verso
il gruppo di ville che ho già menzionate, chiamate Casini. [...]
Giunti nei pressi di queste postazioni, i francesi furono accolti dal
fuoco incrociato e si ripararono sfruttando le asperità del terreno
e dietro i muri delle ville, sparando a più non posso. Il combattimento
durò a lungo, ma avendo ricevuto rinforzi caricammo energicamente,
facendo progressivamente perdere terreno al nemico: la vittoria fu agevolata
dal cannone sulle mura e da una sortita da Porta Cavalleggeri e i francesi
furono costretti a ritirarsi precipitosamente e allo sbando, fermandosi
solo a Castel Guido e lasciando molti morti e varie centinaia di prigionieri.
[...]
Questa prima battaglia contro truppe ben addestrate alzò notevolmente
il morale dei nostri e nei giorni seguenti se ne ebbe conferma. L’indomani
mi fu ordinato di tenere sotto osservazione i francesi e con la legione
ed una parte della cavalleria mi diressi verso Castel Guido, dove ci fermammo
a studiare la situazione, finché nel pomeriggio non arrivò
un medico francese per parlamentare: lo feci quindi scortare alla sede
del governo. Il generale Oudinot, non sentendosi sufficientemente forte
per proseguire l’assedio, cercava di temporeggiare con trattative
diplomatiche in attesa che gli arrivassero rinforzi dalla Francia: approfittando
di questa debolezza e della sua esitazione, avremmo potuto ricacciarlo
in mare, e poi avremmo fatto i conti.
In maggio ebbero luogo gli scontri di Palestrina e di Velletri, dove la
legione si ricoprì di gloria. I soldati del regno di Napoli, che
da tempo erano entrati nel territorio romano insieme a francesi, austriaci
e spagnoli, attaccarono a Palestrina ma furono respinti: nella battaglia
si distinsero Manara coi suoi bersaglieri, Zambianchi, Marrocchetti, Masina,
Bixio, Daverio, Sacchi, Coccelli, ecc. A Velletri, dove il comandante
era il generale Roselli, la battaglia fu molto più dura, dato che
c’era il re di Napoli in persona con tutto il grosso dell’esercito,
mentre noi si era in circa ottomila, di ogni arma.
Partiti da Roma per prendere alle spalle l’esercito napoletano,
facemmo la strada da Zagarolo a Monte Fortino: Roselli mi aveva assegnato
il comando di tutto il corpo di battaglia, ma dato che l’avanguardia
era composta da Marrocchetti con la legione italiana, a me particolarmente
affezionata sin dalla sua creazione e composta per la maggior parte dai
miei vecchi compagni, mi unii ad essa nella marcia, raccogliendo dagli
abitanti di quei luoghi notizie sui napoletani, che poi trasmettevo al
quartier generale; da quanto venni a sapere dedussi che il nemico stava
per ritirarsi e non mi sbagliai. Giunto sulle alture che dominano Velletri,
vicino a Monte Fortino, diedi l’alt e feci schierare la legione
ai lati della strada che conduceva a Velletri; il terzo reggimento di
linea, che pure faceva parte dell’avanguardia, rimase in colonna
come riserva, con alcune compagnie disseminate nelle vigne circostanti
la strada; due pezzi di artiglieria furono collocati dietro al terzo reggimento,
in posizione dominante e adatta a tenere sotto tiro la strada; una parte
della cavalleria di Masina andò avanti in esplorazione mentre il
resto rimase di riserva.
Il nemico aveva convogliato sulla via Appia, in direzione di Napoli, le
salmerie ed il grosso dell’artiglieria, ma avendo ancora gran parte
delle proprie truppe a Velletri e sapendo del numero assai inferiore di
chi lo fronteggiava, volle almeno tentare un contatto: verso di noi avanzò
quindi una colonna, con la copertura di tiratori appostati nelle vigne,
attaccò i nostri avamposti e li cacciò indietro con furia,
rovesciandosi sul resto dello schieramento; una loro avanguardia di cavalleria
aveva sorpreso lungo la strada alcuni nostri cavalleggeri che erano lì
in qualità di esploratori, e per aiutarli inviai la riserva a cavallo:
questa riuscì abilmente a respingere gli avversari, ma, giunta
sul ciglio della collina, si trovò di fronte la colonna principale
che avanzava e naturalmente dovette ripiegare, inseguita a sua volta dai
borbonici. I nostri cavalli erano per lo più giovani e non ancora
ben addestrati, e quindi si precipitarono a tutta velocità: non
mi sembrò uno spettacolo dignitoso, al cospetto di tanti amici
e nemici, e così commisi l’imprudenza, assieme ad alcuni
miei aiutanti ed al mio coraggioso aiutante nero, Andrea Aguyar, di mettermi
in mezzo per frenare la corsa dei nostri.
In un attimo ci fu un mucchio di uomini e di animali rovesciati, perché
i nostri in fuga non riuscirono a frenare e ci vennero violentemente addosso:
si formò un groviglio che ingombrava tutta la strada, i nemici
ci attaccarono alla sciabola e riuscimmo a salvarci approfittando della
confusione; subito dopo i legionari schierati lì intorno caricarono
energicamente e respinsero il nemico, togliendoci da quella situazione
imbarazzante. Una compagnia di ragazzi, vedendomi a terra, si scagliò
furibonda contro i napoletani e credo di essermi salvato proprio per merito
di quei coraggiosi, perché, rimasto schiacciato da cavalli e cavalieri,
ero così malconcio da non potermi muovere; rialzatomi a fatica
mi tastai il corpo per vedere se c’era qualcosa di rotto. La carica
guidata da Masina e Daverio fu condotta con tale impeto che per poco i
nostri non entrarono a Velletri insieme ai nemici in fuga.
A quel punto, più vicini alla città, ebbi la conferma che
il nemico intendeva ritirarsi: oltre alle informazioni raccolte in precedenza,
ora potevo vedere chiaramente la cavalleria ordinata in scaglioni al di
là di Velletri, cioè lungo la strada della ritirata. Nel
frattempo inviavo rapporti dettagliati al quartier generale, ma sfortunatamente
il grosso del nostro esercito era lontano, bloccato a Zagarolo dove attendeva
invano i rifornimenti da Roma; viceversa io avevo fatto mangiare la mia
gente cammin facendo, macellando dei buoi trovati in abbondanza nelle
ricche tenute dei cardinali.
Finalmente, verso le quattro del pomeriggio, arrivarono il comandante
in capo e le prime colonne, e mi sforzai a lungo, ma inutilmente, di convincerlo
che il nemico intendeva ritirarsi: Roselli ordinò un breve attacco
e poi diede le disposizioni necessarie per l’offensiva della mattina
seguente, ma il nemico scelse giustamente di non attendere le nostre decisioni
e sgombrò Velletri nella notte, facendo togliere le scarpe ai soldati
e fasciando le ruote dei cannoni per potersi ritirare in maggior silenzio.
All’alba si seppe che la città era deserta e dalle alture
si poteva vedere il nemico ritirarsi velocemente sull’Appia, verso
Terracina e Napoli. Il grosso del nostro esercito tornò a Roma
ed io ebbi l’ordine di entrare nello Stato napoletano lungo il percorso
Anangni, Frosinone, Ceprano e Rocca d’Arce, dove giunsi con l’avanguardia
di bersaglieri di Manara; il reggimento di Masi, con la legione e una
parte della cavalleria, tenevano la situazione sotto controllo. Il prode
colonnello Manara inseguì il generale Viale, che guidava un corpo
nemico e non si fermò un istante per individuare chi lo inseguiva;
a Rocca d’Arce arrivarono varie delegazioni dei paesi vicini, salutandoci
come liberatori e sollecitando l’invasione del regno, dove avremmo
incontrato la simpatia e l’appoggio di tutti.
Ci sono dei momenti decisivi nella vita di un popolo, come in quella dei
singoli, e questo era appunto un momento solenne e decisivo. Ci voleva
un’ispirazione.
Mi preparavo a proseguire verso S. Germano, dove saremmo arrivati facilmente
e senza ostacoli: era il cuore degli stati borbonici, alle spalle degli
Abruzzi, le cui intrepide popolazioni erano assai ben disposte a unirsi
a noi. Il favore della gente, la demoralizzazione dell’esercito
nemico, battuto due volte e sull’orlo di sfaldarsi, dato che i soldati
volevano tornarsene a casa, l’ardore dei miei giovani soldati, vittoriosi
in tutte le battaglie sostenute e quindi disposti a battersi come leoni
senza preoccuparsi del numero dei nemici, la Sicilia non ancora piegata
e rincuorata dalle sconfitte dei suoi oppressori, tutto lasciava pensare
a buone possibilità di successo se ci fossimo spinti avanti. Ma
ecco che un ordine del governo ci richiama a Roma, minacciata nuovamente
dai francesi: per compensare tale atto debole, intempestivo e sbagliato,
mi si lasciava libero, sulla via del ritorno, di costeggiare gli Abruzzi!
Se chi nel 1848 mi diceva di passare il Ticino dopo la capitolazione di
Milano e non solo mi tratteneva i volontari in Svizzera ma li spingeva
a disertare, anche dopo la vittoria di Luino, e mi faceva dire da Medici
che avrebbero fatto meglio!; se chi mi faceva marciare e vincere a Palestrina;
se chi, non so per quale motivo, mi faceva andare a Velletri agli ordini
di Roselli; se Mazzini, insomma, il cui voto era decisivo nel Triumvirato,
avesse voluto capire che anch’io m’intendevo un po’
di guerra e avesse lasciato che il comandante in capo m’incaricasse
solo dell’impresa secondaria, come era accaduto per la prima, cioè
dell’invasione dello Stato napoletano, il cui esercito sconfitto
non avrebbe retto e le cui popolazioni ci aspettavano a braccia aperte:
come sarebbero cambiate le cose! Che avvenire avrebbe avuto l’Italia,
non ancora abbattuta dall’invasione straniera!
Invece egli convoca tutte le forze dello Stato, dalla frontiera borbonica
a Bologna e le concentra su Roma per offrirle come un sol boccone al tiranno
della Senna, il quale, se non gli fossero bastati i quarantamila uomini,
ne avrebbe mandati anche centomila per annientarci in un colpo solo. Chi
conosce Roma e le sue diciotto miglia di mura, sa perfettamente che non
è possibile difenderla con poche forze da un esercito superiore
in numero e in mezzi com’era quello francese nel 1849.
Per la difesa della capitale non bisognava impiegare tutte le forze dell’esercito
repubblicano, ma distribuirne la maggior parte nelle varie posizioni inespugnabili
di cui abbonda lo Stato, chiamare alle armi tutta la popolazione, lasciarmi
continuare la marcia vittoriosa nel cuore del regno, e infine, dopo aver
portato all’esterno tutti i possibili mezzi di difesa, far evacuare
lo stesso governo e dargli una sede centrale e difendibile. Contemporaneamente
occorreva prendere alcune misure di polizia nei confronti degli elementi
clericali, che invece non furono attuate, per una discutibile prudenza,
lasciandoli completamente liberi di congiurare e di contribuire così
alla caduta della Repubblica e alla sventura dell’Italia. Quali
sarebbero stati i risultati di tutte queste misure? Se proprio dovevamo
cadere, saremmo almeno caduti dopo aver fatto tutto il possibile, e certamente
dopo l’Ungheria e Venezia!
Giunto a Roma da Rocca d’Arce, vedendo come si provvedeva alla causa
nazionale e prevedendo l’inevitabile rovina, chiesi la dittatura:
e la chiesi come in altri momento avevo chiesto il timone di una barca
che la tempesta stava spingendo verso gli scogli. Mazzini e i suoi rimasero
scandalizzati! Ma pochi giorni dopo, il 3 giugno, il nemico che li aveva
presi in giro si era impadronito delle posizioni dominanti della città
e noi tentavamo inutilmente di riconquistarle: allora il capo dei triumviri
mi scrisse offrendomi l’incarico di generale comandante in capo.
Ero impegnato sul fronte dell’onore, lo ringraziai e continuai col
sanguinoso lavoro di quella triste giornata.
Oudinot, avendo ricevuto i rinforzi di cui aveva bisogno, dalle trattative
con cui aveva addormentato il governo della Repubblica decise di passare
ai fatti ed annunciò alla città che avrebbe ripreso le ostilità
il 4 giugno: e il governo si fidò della parola del traditore bonapartista.
Da aprile a giugno, da quando cioè incombeva il pericolo, non si
era pensato a nessuna opera di difesa, soprattutto nei punti dominanti
essenziali all’esterno della città: ricordo che il 30 aprile,
dopo la vittoria, Avezzana ed io durante una riunione ai Quattro Venti
avevamo deciso di fortificare questa fondamentale posizione ed alcune
altre nei dintorni, di non minore importanza, ma il generale Avezzana
era stato inviato ad Ancona ed io incaricato di altri compiti.
Fuori Porta S. Pancrazio e Porta Cavalleggeri si trovavano poche compagnie
come posti avanzati, essendo il nemico dalla parte di Castel Guido e Civitavecchia.
Io ero tornato a Velletri e, lo confesso, ero addolorato per l’andamento
disastroso della causa del mio povero paese. La legione occupava S. Silvestro
e non si pensava che a far riposare i soldati dopo le fatiche della campagna.
Oudinot, che aveva dato l’ultimatum per il 4 giugno, preferì
attaccare di sorpresa nella notte fra il 2 e il 3 giugno: ci svegliammo
per il rumore delle fucilate e delle cannonate verso Porta S. Pancrazio.
Demmo l’allarme e i legionari, malgrado fossero molto stanchi, furono
pronti in un lampo precipitandosi dove si stava combattendo; i nostri
che tenevano gli avamposti, vigliaccamente presi di sorpresa erano stati
massacrati o presi prigionieri, e quando arrivammo a Porta S. Pancrazio
il nemico era già padrone dei Quattro Venti e degli altri punti
strategici.
Sperando che il nemico non avesse consolidato la posizione, diedi immediatamente
ordine di attaccare il casino dei Quatto Venti: sentivo che là
c’era la salvezza di Roma, se l’avessimo preso, o la sua rovina,
se restava in mano ai francesi. L’attacco fu portato non con bravura,
ma con eroismo, prima dalla legione italiana, poi dai bersaglieri di Manara,
e in seguito anche da altri corpi, sostenuti dalla artiglierie delle mura
sino a notte fonda. Il nemico, consapevole dell’importanza del luogo,
l’aveva occupato con un forte nucleo delle sue truppe scelte e noi
tentammo invano d’impadronircene con ripetuti assalti dei nostri
migliori soldati: guidati dal valoroso Masina penetrarono nella villa
combattendo corpo a corpo coi francesi, costringendo più volte
i reduci dell’Africa a ripiegare, ma il numero dei nemici era sproporzionato
e troppo frequente il ricambio di truppe fresche, tanto da rendere inutili
gli eroici sforzi dei nostri. Mandai in loro aiuto il corpo di Manara,
nostro compagno di gloria in tutte le battaglie, poco numeroso ma coraggiosissimo,
il meglio organizzato e il più disciplinato di Roma: il combattimento
durò a lungo, ma alla fine, sopraffatti dal numero sempre crescente
di nemici, i nostri dovettero ritirarsi.
La battaglia del 3 giugno 1849, una delle più gloriose dei soldati
italiani, durò dall’alba fino alle prime ore della notte:
i tentativi per riprendere il Casino dei Quattro Venti furono numerosi,
e tutti tremendi: quando fu buio mandai all’assalto alcune compagnie
fresche del reggimento Unione, sostenute da altri reparti, che impegnarono
una lotta furibonda; ma i nemici erano troppi e anche quei valorosi, dopo
aver perso lo stesso comandante, furono costretti a ripiegare. Masina,
Daverio, Peralta, Mameli, Dandolo, Ramorino, Morosini, Panizzi, Davide,
Melara, Minuto: che nomi! E tanti altri eroi che non ricordo furono le
vittime dei preti e di una Repubblica fratricida. Roma libera dalla negromanzia
e dai ladri, a questi straordinari figli d’Italia lo erigerà
un monumento sulle macerie del mausoleo eretto dai preti allo straniero
ladro e assassino?
La prima legione italiana, che contava appena mille uomini, perse ventitré
ufficiali, quasi tutti morti, e molti ne persero il corpo di Manara ed
il reggimento Unione, che avevano combattuto con uguale coraggio, senza
contare gli ufficiali degli altri corpi.
Il 3 giugno decise le sorti di Roma: i migliori ufficiali e sottufficiali
erano morti; il nemico era padrone di tutti i punti chiave, e forte com’era
di numero e di artiglieria vi si stabilì solidamente, così
come nelle importanti posizioni laterali, conquistate a tradimento: cominciò
tutti i preparativi per l’assedio, come se avesse avuto a che fare
con una piazzaforte di prim’ordine, avendo trovato degli italiani
che si battevano; non parlerò di tutto questo, trincee, batterie
di breccia, bombardamento coi mortai, ecc.: credo che se ne sia scritto
in modo dettagliato ed io non potrei farlo con grande precisione, poiché
in questo momento non ho a disposizione i dati e i documenti che sarebbero
necessari. Ciò che posso assicurare, però, è che
di fronte ad un esercito perfettamente addestrato, assai superiore di
numero, organizzato meglio, con mezzi immensi, i nostri giovani soldati
hanno combattuto con valore da aprile a luglio: il terreno fu difeso palmo
a palmo, non ci fu un solo caso di diserzione né uno scontro in
cui si cedesse alla forza ed al numero senza battersi furiosamente.
Come ho detto, i reparti erano privi dei migliori ufficiali e a ranghi
ridotti; nei corpi di linea, cioè i vecchi papalini, alcuni si
erano comportati ben fin dall’inizio, ma ora, vedendo che tutto
andava in malora, avevano quell’aspetto inerte o svogliato che prelude
alla defezione o al tradimento, e ciò si manifestava gesuiticamente
nella mancata esecuzione dei propri compiti; in particolare c’erano
degli ufficiali superiori, che speravano nella restaurazione e che la
Repubblica non aveva saputo o voluto eliminare, i quali non solo si opponevano
agli ordini ma provocavano la svogliatezza fra i loro soldati: ciò
provocava enormi difficoltà al bravo Manara, mio Capo di Stato
Maggiore, e al tempo stesso era portatore di sicuri disastri.
Una notte si tentò una sortita, ma il panico fra coloro che marciavano
in testa si diffuse nell’intera colonna e l’impresa fallì.
Tenevamo ormai poche posizioni esterni non avendo forze sufficienti: solo
il Vascello resistette fino all’ultimo grazie al coraggio di Medici
e della sua gente, e quando alla fine lo si abbandonò di quel grande
edificio non restava che un mucchio di macerie.
La situazione si faceva ogni giorno più difficile: il valoroso
Manara incontrava sempre maggiori ostacoli a garantire il collegamento
fra prima linea e retrovie, essenziale per la sicurezza di tutti; questa
carenza contribuì in modo decisivo a facilitare l’ingresso
dei francesi nelle brecce aperte dai cannoni di Bonaparte e infatti queste
furono superate di notte, e con pochissime perdite, proprio perché
mal sorvegliate.
Se Mazzini - non si deve incolpare nessun altro - avesse avuto capacità
pratiche pari alla sua bravura nel progettare movimenti e imprese; se
avesse avuto - come ha sempre creduto - la necessaria preparazione militare;
se, soprattutto, avesse dato ascolto a qualcuno dei suoi che per le esperienze
fatte poteva avere qualche competenza, avrebbe commesso meno errori; e,
nelle circostanze che sto narrando, avrebbe potuto, se non salvare l’Italia,
almeno ritardare indefinitamente la catastrofe romana; e, ripeto, forse
avrebbe potuto lasciare a Roma l’onore di essere caduta per ultima,
cioè dopo Venezia e l’Ungheria.
Il giorno prima della sua eroica morte, avevo mandato Manara da Mazzini
per suggerirgli di uscire da Roma e marciare con tutte le forze disponibili
verso le forti posizioni degli Appennini. E non so perché non si
fece così! La storia non è priva di precedenti analoghi
rivelatisi provvidenziali e lo testimonia quanto ho narrato del Rio Grande,
o quanto accaduto negli Stati Uniti d’America non molto tempo fa.
Che fosse impossibile non è vero, giacché sono uscito da
Roma pochi giorni dopo con quattromila uomini, senza difficoltà.
I rappresentanti del popolo, in maggioranza giovani ed energici patrioti,
amati nei loro collegi elettorali, potevano andare lì e fare appello
al patriottismo della gente, e tentare ancora la fortuna. Invece si disse
che la difesa diventava impossibile e che i deputati dovevano restare
al loro posto: decisione coraggiosa, che li onora, ma pessima per l’onore
e gli interessi della patria, e riprovevole, visto che restavano ancora
molti uomini per continuare a combattere, e che altri ancora stavano combattendo.
[...]
Si attendeva l’ingresso dei francesi per consegnare le armi e prolungare
un doloroso e disonorevole periodo di schiavitù. Io, contando su
un pugno di compagni, decisi di non sottomettermi e di tentare ancora
la sorte.
Il signor Cass, ambasciatore americano, conoscendo la situazione mi fece
sapere che desiderava parlarmi (2 luglio 1849) e c’incontrammo:
gentilmente mi disse che a Civitavecchia c’era una corvetta americana
a mia disposizione, se volevo imbarcarmi con quei compagni che potevano
essere compromessi. Gli risposi che lo ringraziavo per la generosità
ma che sarei uscito da Roma con coloro che volevano seguirmi e proseguire
la lotta per il mio paese; poi mi avviai in piazza S. Giovanni per raggiungere
la mia gente, cui avevo ordinato di andare lì e prepararsi per
la sortita. Vi trovai la maggior parte di essi, mentre gli altri stavano
arrivando: molti soldati di altri corpi, intuendo o conoscendo la nostra
decisione, si univano a noi per non sottostare all’umiliazione di
deporre le armi ai piedi dei soldati di Bonaparte, guidati dai preti.
RITIRATA
La mia buona Anita, nonostante le mie raccomandazioni affinché
restasse a Roma, aveva deciso di accompagnarmi: dirle che avrei affrontato
una vita tremenda di disagi, di privazioni, di pericoli, fu solo uno stimolo
per quella donna coraggiosa, come inutile fu osservare che era incinta.
Andò in una casa e pregò una donna di tagliarle i capelli,
si vestì da uomo e montò a cavallo.
Dopo aver osservato a lungo dall’alto delle mura se vi fossero nemici
sulla nostra strada, diedi ordine di marciare verso Tivoli, con l’intenzione
di combattere chiunque avesse tentato di fermarci: arrivammo a Tivoli
senza problemi il 3 luglio e lì cercammo di riorganizzare tutti
i pezzi di reparti che formavano il mio gruppo. Fino a quel momento le
cose non andavano tanto male: mancavano, perché morti o feriti,
la maggior parte dei miei migliori ufficiali - Masina, Daverio, Manara,
Mameli, Bixio, Peralta, Montaldi, Ramorino, e tanti altri - ma alcuni
c’erano - Marrocchetti, Sacchi, Cenni, Coccelli - e se il morale
generale non fosse stato così basso, avrei potuto combattere e
dare agli italiani, ripresisi dalla sorpresa e dall’abbattimento,
l’occasione di liberarsi dal giogo dei predatori stranieri: purtroppo
non fu così!
Mi accorsi ben presto che non c’era voglia di continuare nella gloriosa
e magnifica impresa che il destino ci aveva offerto: da Tivoli mi diressi
a nord per rivolgermi a quelle energiche popolazioni, e non solo non riuscii
a trovare un solo uomo, ma durante la notte, come se volessero nascondere
nel buio quell’azione vergognosa, disertavano anche quelli che mi
avevano seguito da Roma. Dentro di me pensavo alla tenacia e all’abnegazione
degli americani con cui avevo vissuto e che, privi di ogni comodità,
accontentandosi di mangiare quel poco che si trovava, e spesso anche del
tutto privi di cibo, resistevano per anni nelle pianure desolate e sulle
montagne, impegnati in una guerra atroce piuttosto che piegarsi alla prepotenza
di un tiranno o dello straniero: paragonavo quei coraggiosi figli di Colombo
ai miei compatrioti, deboli ed effeminati, e mi vergognavo di appartenere
allo stesso popolo di questi codardi, incapaci di resistere un mese nelle
campagne lontano dalla comodità tipica della città dei tre
pasti quotidiani.
A Terni si unì a noi il prode colonnello inglese Forbes, acceso
sostenitore della causa italiana al pari dei più convinti fra noi,
soldato coraggioso ed onesto: ci raggiunse con alcune centinaia di uomini
ben equipaggiati. Da Terni andammo ancora a nord, attraversando gli Appennini
e battendo varie zone, ma nessuno rispondeva all’appello. A causa
delle frequenti diserzioni molte armi restavano abbandonate e venivano
caricate sui muli, ma erano diventate talmente tante che era troppo difficile
trasportarle, e così dovemmo lasciarne una parte a quelli del posto
che ci sembrarono più affidabili, affinché le nascondessero
e le conservassero per il giorno in cui sarebbero stati stanchi di umiliazioni
e offese. Malgrado la situazione poco brillante, c’era comunque
motivo di essere orgogliosi: eravamo sfuggiti ai francesi, che ci avevano
inseguito inutilmente, ed ora eravamo in mezzo ad austriaci, spagnoli
e napoletani: i napoletani erano stati distanziati; gli austriaci ci cercavano
dovunque, erano senz’altro informati delle nostre precarie condizioni
e certamente volevano accrescere la gloria conquistata nel settentrione,
anche perché invidiosi dei trionfi francesi: che la nostra colonna
s’indebolisse ogni giorno di più lo sapevano perfettamente
grazie al gran numero di spie, traditori e preti, instancabili su questa
terra che disgraziatamente li tollera! I preti, soprattutto, padroni assoluti
delle campagne che erano per noi il luogo ideale di transito, informavano
minuziosamente il nemico su di noi, sulle nostre posizioni e su ogni nostro
movimento.
Viceversa io sapevo ben poco del nemico, perché anche la parte
migliore dei contadini era demoralizzata, impaurita, non voleva compromettersi,
e non riuscivo a trovare delle guide neanche pagando bene. Accompagnati
da ottimi conoscitori dei luoghi (e ho visto io stesso preti col crocifisso
in mano condurre contro di noi gli stranieri) i nemici ci scovavano sempre
di giorno, dato che ci notte ci muovevamo continuamente, ma in genere
ci trovavano sempre in posizioni favorevoli e quindi non osavano attaccare:
ciò nondimeno ci logoravano e provocavano la defezione dei nostri.
Andò avanti così per un pezzo, senza che il nemico, immensamente
più forte, decidesse di attaccare la nostra piccola colonna. Con
la gente di città demoralizzata e con quella di campagna ostile
e succube dei preti, la precarietà della nostra situazione aumentava
e presto sentimmo gli effetti della reazione che prendeva piede in tutte
le province italiane.
Durante la notte dovevamo spostarci, perché ovviamente i nemici
si concentravano e i nostri movimenti diventavano sempre più difficili:
in Italia non riuscivo a trovare una guida mentre gli austriaci non avevano
problemi: che questo serva di monito agli italiani che vanno a messa e
a confessarsi da quelle nere figure chiamate scarafaggi!
Poche cose accaddero fino a S. Marino, tranne alcune scaramucce con gli
austriaci. Due nostri cavalleggeri che andavano in esplorazione furono
catturati dai contadini del vescovo di Chiusi: un vescovo, dico, e se
non erro Chiusi ancora oggi (1872) ha un vescovo; reclamai la restituzione
dei due uomini, che ritenevo in grande pericolo nelle grinfie dei discendenti
di Torquemada, ma mi furono negati: per rappresaglia feci allora marciare
in testa alla nostra colonna tutti i frati di un convento, minacciando
di fucilarli, ma l’arcivescovo, duro, rispose che in Italia c’era
molta stoffa per far frati e non volle restituire i prigionieri. Dico
di più: penso che egli desiderasse la morte di quei suoi soldati,
per poi spacciarli di fronte alla plebe come santi martiri, e quindi li
lascia liberi. [...]
A S. Marino feci affiggere sul muro di una chiesa fuori dalla città
un ordine del giorno formulato più o meno così: "Soldati,
vi sciolgo dall’impegno di seguirmi. Tornate alle vostre case, ma
ricordatevi che l’Italia non deve rimanere nella schiavitù
e nel disonore!"
Al governo della Repubblica di S. Marino era giunta un’intimazione
del generale austriaco con condizioni per noi inaccettabili e questo provocò
una reazione positiva nei nostri soldati, che decisero di combattere a
oltranza piuttosto che accettare compromessi ignominiosi. L’accordo
con la Repubblica era di deporre le armi in quel territorio neutrale e
di lasciare tutti liberi di tornare a casa: questo il patto col governo
e niente fu contrattato coi nemici d’Italia.
Per quanto mi riguarda, però, non avendo intenzione di deporre
le armi, non ritenevo impossibile aprirmi la strada con un pugno di compagni
e guadagnare Venezia, e così decisi. Un doloroso ostacolo era la
mia Anita, inferma e in fase avanzata di gravidanza: la supplicavo di
restare in quel luogo, dove almeno per lei c’era la possibilità
di un rifugio e gli abitanti ci avevano dimostrato molto affetto: inutile,
quel cuore forte e generoso respingeva qualsiasi mia raccomandazione e
m’imponeva il silenzio con queste parole: "Tu vuoi lasciarmi."
Decisi di lasciare S. Marino a metà della notte e di raggiungere
qualche porto dell’Adriatico dove imbarcarsi per Venezia: dato che
vari compagni, in particolare alcuni coraggiosi lombardi e veneti disertori
dall’Austria, avevano scelto di seguirmi a tutti i costi, uscii
dalla città con alcuni aspettando gli altri in un punto prefissato:
questo provocò del ritardo e dovetti aspettare un pezzo prima che
ci si riunisse tutti. Durante il giorno girai nei dintorni per avere ragguagli
sui punti della costa più agevoli: la fortuna, in cui non ho mancato
mai di credere, mi mandò un individuo che in quella circostanza
mi fu di grande aiuto, Galapini, un coraggioso giovane di Forlì,
che arrivò in calesse e fece da esploratore, correndo come un lampo
dov’erano gli austriaci, raccogliendo informazioni dagli abitanti
e riferendomi ogni cosa. Decisi quindi di andare a Cesenatico e Galapini
trovò delle guide che mi accompagnarono; arrivammo verso mezzanotte
e all’entrata trovammo un posto di guardia austriaco: quegli uomini
restarono sorpresi per la nostra improvvisa apparizione e sfruttando quel
momento d’indecisione dissi ai miei di scendere da cavallo e disarmarli;
fu affare di un momento ed entrammo nel paese di cui restammo padroni,
prendendo prigionieri alcuni gendarmi che certo non ci aspettavano quella
notte. Una delle prime misure fu di intimare alle autorità locali
di ordinare che venisse messe a nostra disposizione un numero di barche
sufficiente a trasportare tutti i miei soldati.
La fortuna, però, quella notte cessò di assisterci. Una
burrasca agitava il mare all’imbocco del porto in modo tale da rendere
impossibile uscire, e qui mi aiutò molto la mia esperienza di marinaio:
era indispensabile lasciare il porto, perché il giorno era vicino
e i nemici si stavano avvicinando, ed il mare era l’unica via di
fuga. La gente salì a bordo di tredici bragozzi: [...] il colonnello
Forbes s’imbarcò per ultimo, essendo rimasto, per tutto il
tempo in cui si terminavano i preparativi, all’entrata del paese
per respingere i nemici qualora fossero arrivati. Messi in acqua i barconi
con tutte le persone a bordo, tonneggiandoli uno dopo l’altro, su
ciascuno venne distribuita una parte dei viveri forniti dall’autorità
municipale, fu raccomandato di navigare più uniti possibile e si
partì per Venezia. Era giorno fatto quando salpammo da Cesenatico,
il tempo era migliorato ed il vento favorevole: se non fossi stato molto
preoccupato per la mia Anita, che si trovava in uno stato deplorevole
e soffriva enormemente, avrei potuto dire che, superate tante difficoltà
e sulla via della salvezza, potevamo dirci fortunati; ma i dolori della
mia compagna erano troppo forti e ancora più forte il mio rammarico
di non poterla aiutare.
A causa del poco tempo disponibile e delle difficoltà incontrate
per uscire in mare, non mi ero potuto occupare dei viveri e avevo dato
l’incarico ad un ufficiale, che aveva raccolto il possibile: di
notte aveva assalito di sorpresa un paesetto sconosciuto ed aveva requisito
il poco che c’era, poi distribuito nelle barche. Mancava soprattutto
l’acqua e mia moglie aveva una sete che la divorava, sintomo chiaro
della malattia; anch’io, provato dalla fatica, avevo sete e l’acqua
era scarsissima!
Per tutta la giornata costeggiammo ad una certa distanza la sponda italiana
dell’Adriatico, con vento favorevole e anche di notte le condizioni
furono ottime; c’era luna piena e con malinconia vidi sorgere la
compagna dei naviganti che tante volte avevo contemplato in adorazione:
era bella come non l’avevo mai vista, ma purtroppo troppo bella
per noi! E proprio la luna ci fu fatale quella notte.
A est della punta di Goro c’era la squadra austriaca, che i patriottici
governi sardo e borbonico avevano lasciato intatta e padrona dell’Adriatico:
dalle informazioni che mi avevano dato i pescatori sapevo dell’esistenza
di questa squadra e che forse era ancorata dietro questo promontorio,
ma le mie notizie erano incerte. La prima nave che avvistammo fu un brigantino,
l’Oreste credo, e quella avvistò noi, manovrando per venirci
incontro: feci in modo di segnalare agli altri bragozzi di deviare decisamente
a sinistra verso la costa per togliersi dalla rotta nemica, dato che nel
chiarore della notte il nemico poteva facilmente scorgere i nostri legni.
La precauzione non servì, perché la notte era troppo luminosa
ed il brigantino nemico non solo ci vide ma con cannonate e razzi ci segnalò
alla squadra. Tentai di passare fra i bastimenti ostili e la costa senza
badare ai colpi di cannone, ma gli altri bragozzi, intimoriti dal frastuono
e dalle cannonate, retrocessero, ed io feci altrettanto per non abbandonarli.
All’alba ci trovammo nell’insenatura di Goro accerchiati dalle
navi nemiche: continuavano a cannoneggiarci e mi accorsi con dolore che
già alcuni bragozzi si erano arresi; era impossibile sia indietreggiare
che avanzare perché i legni avversari erano assai più veloci
e non c’era altra soluzione che puntare verso la costa, dove arrivammo,
inseguiti da lance e scialuppe e sotto i colpi di artiglieria, solo in
quattro, mentre gli altri bragozzi erano stati catturati. Lascio immaginare
qual era il mio stato in quei momenti: la mia infelice compagna moribonda;
il nemico all’inseguimento con quell’energia tipica di chi
ha già la vittoria in mano; diretto a una costa dov’era molto
probabile trovare molti altri nemici, non solo austriaci ma anche papalini.
Comunque sia approdammo: presi in braccio Anita, sbarcai e la deposi a
terra; i miei compagni mi chiedevano con lo sguardo cosa dovevano fare
e dissi loro d’incamminarsi alla spicciolata e di cercare rifugio
da qualche parte, e soprattutto di allontanarsi da lì, essendo
imminente l’arrivo delle barche: io non potevo muovermi, non potevo
abbandonare mia moglie morente.
Quegli uomini mi erano molto cari: Ugo Bassi, Ciceruacchio coi suoi due
figli! Bassi mi disse che avrebbe cercato un casolare dove potersi cambiare
perché indossava dei pantaloni rossi, credo tolti al cadavere di
un soldato francese da uno dei nostri, che poi li aveva regalati a Bassi
vestito in modo cencioso. Ciceruacchio mi diede un addio affettuoso e
si allontanò coi figli. Mi separai da quei valorosissimi italiani
e non li avrei rivisti mai più. La ferocia austriaca e clericale
di lì a pochi giorni avrebbe soddisfatto la propria sete di sangue
fucilando quei generosi, vendicandosi delle paure passate.
Oltre a Ciceruacchio ed ai suoi figli erano in nove: il capitano Parodi,
uno dei miei prodi compagni di Montevideo, e un sacerdote genovese, Ramorino;
degli altri non ricordo. "Scavate nove fosse" ordinò
il capitano austriaco, agli ordini di un principe straniero che comandava
in quella parte d’Italia, che aveva catturato i miei commilitoni;
"Scavate nove fosse" diceva imperiosamente quel capitano ad
una folla di contadini che, grazie ai preti, avevano paura dei liberali,
dipinti come assassini, ma non degli austriaci: e in quel terreno leggero
le fosse furono scavate in pochi minuti.
Povero vecchio Ciceruacchio! Il vero tipo dell’onesto popolano,
con davanti a sé le fosse che dovevano racchiudere lui, i suoi
compagni, i suoi figli: un figlio di 13 anni! Pronte le fosse, furono
tutti fucilati, e poi sepolti da mani italiane, s’intende. Il soldato
straniero era padrone, comandava ai servi e l’obbedienza doveva
essere immediata, altrimenti bastonate! Anche Ugo Bassi venne arrestato
e fucilato con Levré, uno dei miei di Montevideo, coraggioso e
simpatico milanese. Prima dell’esecuzione Bassi fu torturato dai
preti: essendo lui stato prete, la loro rabbia era ancora maggiore!
Rimasi nelle vicinanze del mare, in un campo di frumento, con la mia Anita
e col tenente Leggero, mio compagno inseparabile, che era con me in Svizzera
l’anno precedente, dopo il fatto di Morazzone: le ultime parole
della mia donna furono per i suoi figli, che ella immaginò di non
poter vedere più! Rimanemmo lì per un po’, indecisi
sul da farsi, finché dissi a Leggero di andare verso l’interno
a cercare qualche casa: coraggioso come sempre egli si mosse subito ed
io rimasi in attesa; non molto tempo dopo udii qualcuno che si avvicinava
e vidi Leggero accompagnato da una persona la cui vista mi confortò:
era il colonnello Bonnet, uno dei miei migliori ufficiali, ferito nell’assedio
di Roma, dove aveva perso anche un fratello. Era tornato a casa per curarsi
e non poteva accadermi niente di più fortunato che incontrare quel
fratello d’armi: abitava nei dintorni e, udite le cannonate, aveva
immaginato che fossimo sbarcati, e si era avvicinato al mare per cercarci
e aiutarci. Il coraggioso e intelligente Bonnet, rischiando molto, ci
aveva cercato e trovato, ed una volta arrivato lui mi rimisi interamente
alle sue decisioni, cosa che ci salvò: propose di andare a una
casupola vicina per dare un po’ di ristoro alla mia infelice compagna.
Ci muovemmo sostenendo Anita in due ed arrivammo a fatica in quella casa
di povera gente dove si trovò dell’acqua, la prima cosa che
serviva alla malata, e altro; di qui ci spostammo nella dimora della sorella
di Bonnet, che fu gentilissima e poi attraversammo parte delle valli di
Comacchio, andando verso la Mandriola dove ci sarebbe stato un medico:
ci arrivammo in calesse, con Anita sdraiata su un materasso, e subito
dissi al dottor Zannini "Cercate di salvare questa donna!";
rispose di portarla a letto e in quattro afferrammo gli angoli del materasso
e la trasportammo in casa, su per una scaletta che conduceva alla stanza;
nell’adagiarla sul letto mi sembrò di scorgere sul suo viso
la fisionomia della morte: le presi il polso e non batteva più!
Avevo davanti a me la madre dei miei figli, che amavo tanto, morta! Quando
li rivedrò mi chiederanno della loro madre! Piansi amaramente la
perdita della mia Anita, che mi fu compagna inseparabile nelle più
avventurose circostanze della mia vita.
Pregai quella brava gente di dare sepoltura al cadavere e mi allontanai
sollecitato da quelle stesse persone, che con la mia presenza stavo compromettendo.
Mi avviai barcollando per S. Alberto, con una guida che mi condusse da
un sarto, povero ma onesto e generoso: con Bonnet, a cui devo la vita,
comincia la serie dei miei protettori senza i quali non avrei potuto sopravvivere
per trentasette giorni dalle foci del Po al golfo di Sterlino, dove m’imbarcai
per la Liguria. Dalla finestra della casa in cui mi trovavo, a S. Alberto,
vedevo passeggiare i soldati austriaci, padroni e insolenti come sempre!
Abitai in due case, in questo piccolo ma bellissimo paese, e in entrambe
fui tenuto al sicuro, trattato con una generosità superiore alla
condizione economica di quella gente. Da S. Alberto i miei amici pensarono
bene di farmi trasferire nella vicina pineta, dove rimasi qualche tempo
cambiando spesso abitazione per ragioni di sicurezza: varie persone condividevano
questo segreto, che come una nuvola magica mi nascondeva alle ricerche
dei miei persecutori, non solo austriaci ma anche papalini, addirittura
peggiori; la maggior parte di questi coraggiosi romagnoli erano giovani
e bisognava vedere con che sollecitudine si preoccupavano della mia protezione:
quando ritenevano che fossi in pericolo li vedevo arrivare di notte, su
un calesse, e mi portavano a molte miglia di distanza in un luogo più
sicuro.
Austriaci e preti non trascuravano di fare tutte le indagini possibili
per trovarmi: i primi avevano diviso un battaglione in sezioni che percorrevano
la pineta in tutte le direzioni; i preti, poi, dal pulpito e dal confessionale
incitavano le contadine ignoranti a fare la spia, per la maggior gloria
di Dio. I miei giovani protettori, per trasferirmi da un luogo all’altro
e per dare l’allarme in caso di pericolo, avevano predisposto i
loro segnali notturni con un’abilità ammirevole: quando si
sapeva che c’era qualche nemico, scorgendo un fuoco in un determinato
punto, si passava oltre; se in un certo luogo non si vedeva alcun fuoco
si tornava indietro, o si andava in un’altra direzione, talvolta,
temendo un malinteso, il conduttore fermava il calesse, scendeva e andava
avanti lui stesso per controllare, oppure senza scendere trovava subito
chi lo informava di ogni cosa.
Queste misure erano prese in modo tale da suscitare ammirazione: si noti
che qualsiasi cosa fosse trapelata, qualunque accenno di ciò che
stava accadendo avessero notato i miei persecutori, essi avrebbero fucilato
senza processo e senza pietà tutti quelli che mi aiutavano, anche
i bambini. Quanto mi dispiace non poter consegnare alla storia i nomi
di quei generosi romagnoli, a cui certamente devo la vita: se non fossi
votato alla sacra causa del mio paese, basterebbe quella circostanza a
impormene l’obbligo. Così passai vari giorni nella bella
pineta di Ravenna: un po’ alla capanna di un caro, onesto e generoso
popolano di nome Savini; altre volte sdraiato fra i cespugli, di cui il
bosco era pieno.
In una di quest’ultime occasioni un giorno accadde che mentre con
Leggero eravamo nascosti dietro un arbusto, dall’altra parte passarono
degli austriaci e le loro voci, assai poco piacevoli, disturbarono molto
la quiete della foresta e le nostre pacate riflessioni; passarono a poca
distanza e l’oggetto della loro animata conversazione eravamo certamente
noi.
[...] Da Ravenna ci trasferimmo a Cervia, nella fattoria di un’altra
cara persona di cui ricordo perfettamente la bonaria fisionomia ma non
il nome; dopo un paio di giorni andammo a Forlì, dove passammo
una notte ospitati in una casa di brava gente, e poi ci avviammo verso
l’Appennino con delle guide. Vale la pena osservare che nessuno,
fra quella gente generosa, è capace di abbassarsi alla delazione
e che aiutando un ricercato lo custodiscono come cosa sacra: lo salvano,
lo mantengono, lo guidano con una cordialità incomparabile. La
lunga dominazione del più perverso e corrotto dei governi non è
stato capace di fiaccare e rovinare il carattere di quelle forti e generose
popolazioni.
Il governo di ladri (1872) seguito al pessimo governo dei clericali, non
la conosce questa gente, per disgrazia caduta sotto la sua amministrazione,
e la tormenta senza scrupoli, ma imparerà a conoscerla il giorno
in cui dalla terra dei Vespri e dalla Romagna alle Alpi si chiederà
conto della sua gestione.
Passammo la frontiera ed entrammo in Toscana: la medesima simpatia la
trovammo fra questa gente colta, parte di un’Italia allora divisa
dai preti ma destinata a formare un popolo solo. Un certo Anastasio, fra
gli altri, ci accolse e ci diede ospitalità in una casa tra le
montagne. Poi un prete, un vero angelo custode del ricercato!, ci venne
a cercare, ci trovò e ci portò a casa sua, a Modigliana.
Ricorderò qui a chi ha la pazienza di leggere queste memorie, ciò
che ho già detto molte volte: odio il carattere falso e perverso
del prete, ma se la persona viene staccata dalla sua funzione d’impostore,
e resta l’uomo, io lo considero come chiunque altro.
Padre Giovanni Verità era un vero sacerdote di Cristo, e qui per
Cristo intendo l’uomo virtuoso, il legislatore, non il Cristo fatto
Dio dai preti e di cui si servono per coprire l’oscenità
e l’ipocrisia della propria esistenza: se un perseguitato transitava
in quelle contrade era cura di padre Verità proteggerlo, nutrirlo
e farlo condurre, o condurlo egli stesso, in un luogo sicuro. In questo
modo aveva salvato centinaia di romagnoli braccati dall’inesorabile
rabbia del clero che si rifugiavano in Toscana perché lì
il governo era, se non buono, almeno meno scellerato di quello dei papalini.
Fra quelle sventurate popolazioni, poi, le condanne all’esilio erano
frequenti e ovunque, nelle mie peregrinazioni, avevo incontrato molti
romagnoli esiliati, e da tutti avevo sentito benedire il nome del pio
sacerdote.
Ci fermammo un paio di giorni in casa di don Giovanni, nel suo paese,
dove la stima generale e l’affetto di cui godeva rendevano ancora
più sicura la sua ospitalità; poi ci condusse attraverso
l’Appennino con l’idea di passare negli Stati Sardi. Giunti
una sera nelle vicinanze delle Filigari, la nostra generosa guida ci lasciò
in un luogo appartato e si spinse verso l’abitato per cercare una
guida, e in tale circostanza avvenne un contrattempo che ci separò
dal nostro protettore: una guida inviata da lui, essendo notte fonda si
smarrì e arrivò tardi; entrammo nel paesino mentre don Giovanni
se ne era allontanato per raggiungerci, impaziente per il nostro ritardo,
ed aveva preso un’altra strada. All’alba eravamo sulla stradale
che conduce da Bologna a Firenze e non potevamo restare a lungo in un
luogo così esposto: decidemmo così di cercare un calesse
ed avviarci verso Firenze, abbandonando con enorme rincrescimento l’uomo
generoso che fino a quel momento ci aveva guidati e protetti; seguimmo
lo stradale che era giorno fatto e incrociammo un corpo di austriaci che
da Firenze marciava verso Bologna: facemmo finta di niente e continuammo
così per un pezzo lungo il versante occidentale dell’Appennino.
Giunti a un’osteria, sul lato sinistro della strada, il guidatore
del carro si fermò e preferimmo sostare anche noi: entrammo nell’osteria,
congedammo il vetturino e ordinammo una tazza di caffè; nell’attesa
mi ero seduto su una panca vicino all’ingresso, accanto a una di
quelle lunghe tavole che si trovano abitualmente nelle locande: un po’
stanco mi ero appoggiato sonnecchiando con le braccia distese sul tavolo,
quando Leggero mi svegliò toccandomi la spalla con un dito, ed
incrociai con lo sguardo le facce poco simpatiche di certi croati che
avevano riempito l’osteria. Era un altro reparto austriaco, o forse
una parte di quello che avevamo incrociato: riabbassai il capo e feci
conto di non aver visto nessuno; quando l’osteria si svuotò
e i padroni furono serviti, potemmo bere il caffè, poi attraversammo
lo stradale e trovammo una casa di contadini in cui fermarci.
Dopo aver riposato ci avviammo verso Prato con l’intenzione di guadagnare
la frontiera ligure: marciammo gran parte della giornata fino ad arrivare
in una valle dove trovammo una specie di albergo di campagna e chiedemmo
alloggio per la notte; nello stesso albergo c’era un giovane cacciatore
di Prato che sembrava un frequentatore abituale e amico dei proprietari:
aveva un aspetto decoroso, un comportamento aperto ed una di quelle facce
oneste che difficilmente ingannano. Stetti ad osservarlo per qualche tempo,
con la chiara intenzione di parlargli, e lo avvicinai: dopo poche parole
gli dissi il mio nome e capii subito che non mi ero sbagliato. Il giovane
pratese era emozionato e vidi brillare nei suoi occhi il desiderio di
agire: mi disse che sarebbe andato a Prato, che distava poche miglia,
a parlare con degli amici e che sarebbe tornato di lì a poco; fu
di parola, tornò presto e lo seguimmo a Prato, dove i suoi amici,
con a capo l’avvocato Martini, avevano già fatto preparare
una vettura che doveva portarci per la strada di Empoli, Colle, ecc.,
fino in Maremma: lì, con l’aiuto di altri bravi italiani,
avremmo con tutta probabilità trovato qualche imbarcazione che
ci avrebbe condotto in territorio ligure. [...]
Il nostro viaggio da Prato alla Maremma fu veramente singolare: percorremmo
gran parte della strada in una vettura chiusa, facendo varie tappe per
cambiare i cavalli, e in varie occasioni le soste furono piuttosto lunghe,
avendo i cocchieri assai meno premura di noi, e così si dava modo
ai curiosi di affollarsi intorno alla vettura; poi eravamo anche costretti
a scendere per mangiare qualcosa, pur dovendo continuare a nascondere
il fatto straordinario della nostra condizione. Nei piccoli paesi eravamo
naturalmente oggetto della curiosità degli sfaccendati, che facevano
mille ipotesi sulla nostra identità e chiacchieravano di continuo
su questi sconosciuti, con tutti i sospetti inevitabili in quel periodo
turbolento. A Colle in particolare, oggi paese patriottico e moderno,
fummo circondati da una folla che non mancò di manifestare sospetti
e avversione verso il nostro aspetto, che non era proprio quello di pacifici
viaggiatori: vi fu qualche parolaccia e niente di più, e noi ovviamente
mantenemmo la calma. [...]
Il primo rifugio sicuro, in prossimità della Maremma, fu a S. Dalmazio,
in casa del dottor Camillo Serafini, uomo generoso, un vero patriota dotato
di un coraggio e di una fermezza non comuni; da lì passammo presso
un certo Guelfi, più vicino al mare, e in ogni luogo ricevemmo
un’ospitalità degna della massima gratitudine. Nel frattempo
i nostri bravi amici avevano preso contatto con un pescatore genovese
affinché ci trasportasse in Liguria: un bel giorno vennero a cercarmi
a casa Guelfi alcuni giovani maremmani, armati di doppietta come i cacciatori
di Ravenna, ci diedero un’arma e ci condussero attraverso i boschi
sulla sponda del mare, poche miglia ad est di Follonica, porto carbonifero,
nel golfo di Sterlino. Là ci aspettava il peschereccio e c’imbarcammo
commossi dalle prove di affetto che ci avevano dato i nostri giovani liberatori.
Com’ero fiero di essere nato in Italia! In questa terra di morti,
fra questa gente che non lotta, come dicono nei paesi vicini: dove da
secoli, una volta caduti dal trono da cui i nostri avi dominavano il mondo,
questi arroganti confinanti, pur conoscendo la nostra indole, ci hanno
imposto il rettile nero della teocrazia per umiliarci, infangarci e corromperci,
affinché piegati e storditi non udissimo nemmeno il sibilo della
verga a cui ci avevano condannato in eterno, come se il loro regno di
pigmei dovesse durare per sempre mentre il tempo con sue fredd’ali
spazzava via il gigante di tutte le grandi imprese, passate, presenti
e future, ma che dalle proprie rovine risorge oggi sui sette colli. [...]
Veleggiamo verso l’isola d’Elba dove avremmo imbarcato attrezzi
e provviste, e passammo un giorno e una notte a Porto Longone: di lì,
costeggiando la Toscana, giungemmo alla rada di Livorno e senza fermarci
proseguimmo verso ponente. Non avevo dubbi in merito alla pessima accoglienza
che ci attendeva negli Stati Sardi, tanto che a Livorno pensai di chiedere
asilo a bordo di un vascello inglese che era ancorato in rada: tuttavia
prevalse il desiderio di rivedere i miei figli prima di lasciare l’Italia,
dove non potevo più restare, e ai primi di settembre sbarcammo
sani e salvi a Porto Venere. Da lì andammo a Chiavari, ospiti in
casa di mio cugino Bartolomeo Pucci, di cui conservo un caro ricordo:
fummo bene accolti sia dalla sua famiglia che dalla popolazione del paese
e dai molti lombardi che si erano rifugiati lì dopo la battaglia
di Novara.
Ma il generale La Marmora, allora commissario regio in Liguria, saputo
del mio arrivo ordinò che fossi trasferito a Genova, scortato da
un capitano dei carabinieri in incognito. Non trovai affatto strana questa
decisione di La Marmora: era uno strumento della politica allora prevalente
nel nostro paese, e anche personalmente ostile, per il suo carattere,
nei confronti di chiunque fosse di fede repubblicana. Venni rinchiusi
in una cella del Palazzo ducale, a Genova, e quindi di notte trasferito
a bordo della fregata da guerra S. Michele: in entrambi i luoghi, comunque,
fui trattato con rispetto, sia da La Marmora che dal cavalleresco comandante
Persano ed io non chiesi altro che di poter andare a Nizza ad abbracciare
i miei figli, per tornare poi a consegnarmi. La Marmora accettò
la mia parola e acconsentì. [...]
Rivedere i miei figli, che ero costretto ad abbandonare chissà
per quanto tempo ancora, mi addolorò immensamente: essi rimanevano
con persone amiche, è vero: i due maschi con mio cugino Augusto
Garibaldi, e Teresa con i coniugi Deidery, che le fecero da genitori.
Ma dovevo allontanarmi per un tempo indefinito, sì, indefinito,
perché mi chiesero di scegliere il luogo dell’esilio!
E qui non posso passare sotto silenzio la forte difesa verso la mia causa
che svolsero i deputati della sinistra nel Parlamento piemontese: Baralis,
Borella, Valerio, Brofferio. [...] Ma, come sempre, c’era un’insaziabile
sete di sangue nel partito austro-clericale, vittorioso in tutta la penisola.
Scelsi Tunisi, perché la speranza di un non lontano futuro migliore
per l’Italia mi faceva preferire un paese vicino: lì si trovavano
un amico d’infanzia, un Castelli di Nizza, e un Fedriani mio grande
amico dal ‘34 e come me allora ricercato. M’imbarcai dunque
per Tunisi sul vapore da guerra Tripoli, ma in quella città, su
pressioni della Francia, il governo non mi volle e fui portato indietro
e lasciato nell’isola di Maddalena, dove restai una ventina di giorni.
[...] Da lì fui imbarcato per Gibilterra sul brigantino da guerra
Colombo: il governatore inglese mi diede sei giorni di tempo per lasciare
la città: pur con tutto il giusto affetto che ho sempre avuto per
quella nazione generosa, non posso nascondere che quel modo di comportarsi
mi sembrò assai scortese, sciocco e indecoroso.
[...]
RITORNO
ALLA VITA POLITICA
Nel febbraio 1859, per mezzo di La Farina, fui convocato a Torino dal
conte di Cavour.
Il governo sardo, in quel periodo in trattative con la Francia e intenzionato
far guerra all’Austria, stava avviando una politica tesa ad accattivarsi
il popolo italiano: Manin, Pallavicino ed altri illustri italiani cercavano
di avvicinare i settori democratici alla dinastia sabauda, per arrivare,
col concorso della maggior parte delle forze nazionali, al raggiungimento
di quell’unificazione italiana che per tanti secoli era stato il
sogno delle menti migliori della penisola.
Ritenendo che io avessi mantenuto una qualche autorevolezza fra il popolo,
il conte di Cavour, a quell’epoca onnipotente, mi chiamò
nella capitale e naturalmente mi trovò favorevole alla sua idea
di far guerra al nemico secolare dell’Italia: non m’ispirava
fiducia il suo alleato, è vero, ma come fare?, bisognava subirlo.
[...]
È umiliante, ma occorre ammetterlo: con la Francia come alleata
si poteva aprire tranquillamente le ostilità, ma senza di essa
neanche per sogno! Questa almeno era l’opinione della maggioranza
di quei figli degeneri di un grandissimo popolo: e tutto per non sapere,
o non volere, utilizzare le forze nazionali a disposizione, e per il fatto
che la causa del nostro paese era sempre in mano ai disonesti o alla casta
dei parolai, abituati ad argomentare con lunghe chiacchiere e a non agire
energicamente. [...]
A Torino vidi solo Cavour. L’idea che il Piemonte muovesse guerra
all’Austria non era nuova per me e nemmeno quella di mettere a tacere
le mie convinzioni pur di fare l’Italia: quel programma era lo stesso
che avevamo al momento di partire da Montevideo e quando questa bella
decisione di Manin e Pallavicino di unificare l’Italia con Vittorio
Emanuele mi fu comunicata a Caprera, mi trovò della stessa opinione
politica. E non fu tale anche quella di Dante, di Machiavelli, di Petrarca
e di tanti altri nostri grandi?
Poso dire con orgoglio: fui e sono repubblicano, ma al tempo stesso non
ho mai pensato che il sistema democratico potesse essere l’unico
possibile, tanto da imporlo con la forza; in un paese libero, dove la
maggioranza vuole giustamente la repubblica, il sistema repubblicano è
certamente il migliore; trovandomi, come mi accadde a Roma nel 1849, a
dover esprimere il mio voto lo darei sempre a quel sistema e farei in
modo di convincere più persone possibili. Ma se non è possibile
la repubblica, almeno per ora (1859), sia per la corruzione che oggi domina
la società, sia per la solidità di cui ancora godono le
monarchie, e se si offre l’opportunità di unire la penisola
con l’accordo tra le forze dinastiche e quelle popolari, io aderisco
comunque con la massima convinzione.
Dopo pochi giorni di permanenza a Torino, dove dovevo servire di richiamo
per i volontari italiani, capii subito con chi avevo a che fare e cosa
si voleva da me: me ne addolorai, ma cos’altro potevo fare? Accettai
il male minore: non potendo fare la cosa migliore, almeno si poteva fare
qualcosa per il nostro paese infelice.
Garibaldi doveva fare capolino, apparire e non apparire: che i volontari
sapessero che egli era a Torino, ma che non si mettesse troppo in luce
per non danneggiare le manovre diplomatiche. Che situazione!
Far accorrere i volontari, possibilmente tanti, ma comandarne il minor
numero possibile, e magari quelli meno adatti alle armi. I volontari accorrevano,
eppure non dovevano vedermi: si formarono due punti di raccolta, a Cuneo
ed a Savigliano, ma io fui relegato a Rivoli, verso Susa. La direzione
e l’organizzazione dei corpi, che formarono il primo ed il secondo
reggimento, base ed orgoglio dei Cacciatori delle Alpi, fu affidata al
generale Cialdini: Cosenz ebbe il comando di quello di Cuneo, Medici di
quello di Savigliano, ed entrambi erano ottimi ufficiali; a Savigliano
si formò anche un terzo reggimento, comandato da Arduino e formato
da volontari, che però, a causa del comandante, non si comportò
bene come i primi due.
Una commissione d’arruolamento, istituita a Torino, sceglieva i
giovani migliori e più adatti, dai 18 ai 26 anni, per i corpi di
linea, mentre quelli troppo giovani o troppo anziani, o scadenti, venivano
inviati ai corpi volontari. Per quanto riguarda gli ufficiali ci fu maggior
senso pratico e si ebbe il buon senso di accettare la maggior parte di
quelli proposti da me: non erano tutti di carriera, ma quasi tutti furono
adeguati alle mie aspettative, degni della causa che si propugnava.
In quei primi tempi il governo abbozzò vari progetti: il primo
prevedeva che io operassi verso il confine dei Ducati e avrebbe prodotto
ottimi risultati, però ben presto fu modificato, senza dubbio per
il timore che io entrassi in contatto con popolazioni che avrebbero potuto
rafforzare troppo i corpi volontari, e fui destinato all’estrema
sinistra dell’esercito regolare. Comunque mi era cara la prospettiva
di rivedere la terra lombarda e la sua gente, così martoriate dalla
tirannide straniera. Da principio mi promisero le truppe di frontiera
e credo che nessuno abbia pensato ai sottufficiali, comunque non ebbi
né gli uni né gli altri, anzi, dato che accorrevano molti
volontari, per paura che ne avessi troppi si chiamò il generale
Ulloa per formare il gruppo dei Cacciatori degli Appennini: avrebbero
dovuto raggiungermi ma per tutta la guerra non li vidi mai.
Il generale La Marmora, Ministro della Guerra, che si era sempre opposto
al reclutamento dei volontari, si rifiutò di riconoscere i gradi
dei miei ufficiali, e quindi, per dare una qualche legittimità
a quei reietti, si ricorse all’espediente di consegnare loro degli
attestati firmati dal ministro dell’Interno e non da quello della
Guerra. Sopportavamo ogni cosa in silenzio: bisognava lottare per l’Italia
e combattere gli oppressori dei nostri fratelli.
La situazione politica si evolveva rapidamente: i comportamenti arroganti
dell’Austria facevano sembrare prossimo l’inizio del conflitto
e ciò dava impulso all’armamento dei volontari, la cui organizzazione
procedeva sotto la direzione del generale Cialdini.
L’ingresso degli austriaci nel territorio piemontese non ci trovò
pronti, ma comunque disposti a batterci. Fummo destinati sulla riva destra
del Po, a Brusasco, sull’estrema destra della divisione Cialdini
che aveva il compito di difendere la linea della Dora Baltea e lo stradale
che da Brusasco porta a Torino; il ministero aveva inviato alcuni cannoni
al vecchio castello di Varrene per controllare, si diceva, la strada da
Vercelli a Torino: ebbi ordine di occupare e difendere questa posizione,
cosa che però avrebbe intralciato i miei movimenti se il nemico
fosse avanzato. Comunque sia, eravamo lanciati verso la liberazione della
nostra Italia, il sogno di tutta la vita! Io e i miei giovani compagni
aspettavamo con ansia l’ora del combattimento, come il fidanzato
aspetta l’ora di incontrasi con la sua amata. [...]
Passammo alcuni giorni a Brusasco, a Brozolo, a Pontestura: quelle prime
marce servirono ad allenare i soldati e si approfittava delle soste per
addestrarli ai vari compiti di avamposto, di pattuglia, ecc.. Essendo
stato chiamato il generale Cialdini alla difesa di Casale, fummo ai suoi
ordini. Facemmo una sortita e vedemmo gli austriaci per la prima volta:
i nemici portarono un finto attacco alle posizioni esterne di quella piazza
e il secondo reggimento agli ordini di Medici diede prova di cosa sarebbero
stati capaci i Cacciatori delle Alpi, caricando coraggiosamente e mettendo
in fuga gli austriaci: in quell’occasione si distinsero il capitano
De Cristoforis ed il sergente Guerzoni, poi sottotenente.
Lo stesso giorno, poco prima dello scontro, ero stato chiamato dal re
al suo quartier generale di S. Salvatore: mi ricevette cordialmente e
mi diede istruzioni con l’ampia facoltà di andare a coprire
la capitale se ci fosse stato il rischio di un improvviso attacco nemico
e, una volta venuto meno quel pericolo, di dirigermi verso la destra dell’esercito
austriaco. Tornai quindi verso Torino fino a Chivasso: fra gli ordini
ricevuti per iscritto dal re c’era quello di radunare ai miei ordini
tutti i volontari rimasti nei vari centri di raccolta ed il reggimento
dei Cacciatori degli Appennini, composto da giovani venuti da ogni parte
d’Italia: a proposito dei Cacciatori scrissi a Cavour ma con vari
pretesti non si decise mai a inviarmeli, ed ebbi la conferma che non si
voleva che i soldati al mio comando aumentassero. Vecchia storia, cominciata
a Milano nel 1848 da Sobrero, continuata a Roma da Campello quando aveva
ordinato che i miei uomini non avrebbero dovuto superare i cinquecento,
e proseguita da Cavour che limitava a tremila i miei effettivi. I reggimenti
erano composti da sei battaglioni, ciascuno di 600 uomini, per un totale
di 3.600, ma tra quelli malati e quelli debilitati dalle marce, prima
di passare il Ticino si erano ridotti a 3.000.
Il re, se non avesse avuto il difetto di essere tale, e questo gli attribuisce
molte colpe, non era certo peggiore rispetto a quelli che lo attorniavano
nel ‘59; inviò un secondo ordine di marciare in direzione
del Lago Maggiore per operare sulla destra dell’esercito austriaco:
alla combriccola non piacque, ma a me sì, e molto, perché
mi trovavo libero di manovrare e ciò valeva come un tesoro. Mi
congedai, dunque, dal mio vecchio generale, a cui già mi legava
un vero affetto, e marciai fino a Chivasso e poi a Biella. L’accoglienza
cordiale e simpatica dei biellesi alla mia gente fu di buon augurio, e
dopo un paio di giorni in quella città proseguimmo per Gattinara:
da Novara, avendo sentito che mi rivolgevo in quella direzione, gli austriaci
inviarono una ventina di soldati per tagliare le corde del ponte della
Sesia, ma una nostra postazione glielo impedì a fucilate.
Non è fuori luogo accennare qui a un fatto vergognoso per noi italiani
e che non bisognerebbe permettere. Preceduti dal terrore che avevano saputo
diffondere, i dominatori dell’Italia estorcevano dalla gente quello
che volevano, prova ne sia quanto avvenne: e stupisce oltremodo essendo
accaduto tra le forti popolazioni subalpine, di solide tradizioni militari,
che da tempo avevano un brillante esercito. Lo stesso plotone che era
stato inviato a tagliare la corda del porto, non essendoci riuscito ritornò
verso Novara, e per non fare il viaggio del tutto a vuoto requisirono
non so quanti viveri, ed i carri per il trasporto: si avviarono così,
sbronzi, percorrendo almeno quindici miglia in un territorio straniero
densamente popolato da gente forte e decisa senza che a un solo italiano
venisse l’estro di tirare una pietra a quell’accozzaglia di
ubriachi. Una cosa così umiliante non dovrebbe verificarsi! Ma
succede perché i preti hanno insegnato ai contadini che i nemici
dell’Italia non sono gli austriaci ma noi liberali scomunicati!
E il governo, per grazia di Dio, protegge i preti! Dieci giovani di quei
luoghi che avessero deciso di attaccare quegli invasori a bastonate, li
avrebbero disarmati e uccisi: ma tanto possono lo sconforto e la menzogna
seminati tra la gente, che rimane fiaccata per quanto sia forte e coraggiosa,
quella stessa gente che poi, in caso di bisogno, fornisce soldati che
se ben guidati sono tra i migliori del mondo.
Passata la Sesia ci dirigemmo verso Borgomanero e arrivato lì diedi
le varie disposizioni per attraversare il Ticino; [...] a Castelletto
trovai le barche pronte subito sotto al paese, feci passare il secondo
reggimento col colonnello Medici, mentre gli altri uomini restarono sulla
riva destra; il trasferimento fu effettuato ordinatamente, eccettuato
il fatto che le barche, essendo appesantite dal carico e quindi difficilmente
manovrabili, non approdarono tutte nello stesso punto: alcune venivano
spinte troppo a valle dalla corrente e ciò provocò qualche
ritardo nel riunire il reggimento sulla riva lombarda.
Finalmente potemmo dirigere verso Sesto Calende, dove prendemmo prigionieri
alcuni gendarmi e predisponemmo il porto in cui venne completato l’attraversamento
del resto della brigata: era, credo, il 17 maggio 1859.
Eravamo in terra lombarda! Al cospetto della potenza che da dieci anni
preparava il suo esercito vittorioso, che riteneva invincibile, a compiere
quello che non era riuscito a fare a Novara: forse sognando piacevolmente
di ficcare le unghie della propria aquila sull’intera penisola.
Eravamo in tremila, con poco equipaggiamento avendone lasciato la gran
parte a Biella: i carri avevano ricevuto ordine di fermarsi in Piemonte,
poco distanti dai depositi di munizioni, ed i muli erano stati procurati
dal bravo ed instancabile Bertani, capo chirurgo. Da Sesto Calende durante
la notte condussi la brigata a Varese, mentre Bixio, col suo battaglione,
marciò sulla riva del Lago Maggiore verso Laveno, con l’ordine
di fermarsi sullo stradale che da quel punto porta a Varese. De Cristoforis
rimase a Sesto con la sua compagnia per garantire le comunicazioni col
Piemonte: questo valoroso ufficiale fu il primo, come lo fu a Casale,
a scontrarsi col nemico: pensando che fossimo a Sesto, gli austriaci inviarono
lì in ricognizione un forte reparto e vi trovarono la sola compagnia
di De Cristoforis, il quale non badò al numero dei nemici, si batté
con decisione e dopo una battaglia onorevole ripiegò verso il distaccamento
di Bixio; così eravamo restati d’accordo, perché ero
del tutto consapevole che non potevamo tenere l’importantissima
posizione di Sesto con forze così ridotte. Gli austriaci, però,
con la loro tipica prudenza, non tennero quel punto strategico e tornarono
a Milano.
Nel frattempo le popolazioni lombarde si animavano, anche se non c’era
da attendersi una di quelle insurrezioni decisive: troppe erano state
le disillusioni e le sofferenze: i giovani più coraggiosi si trovavano
con l’esercito austriaco, col nostro, in esilio, o coi volontari,
tuttavia ero contento anche di quelli che ci accoglievano, per le premure
che ci usavano nel fornirci aiuto ed informazioni sui movimenti nemici;
soprattutto le donne, poi, si prodigavano a curare i nostri feriti. L’accoglienza
ricevuta a Varese quella notte è qualcosa che difficilmente si
può descrivere: pioveva a dirotta, eppure non credo che mancasse
un solo abitante, uomo, donna o ragazzo, al nostro arrivo, ed era uno
spettacolo commovente vedere soldati e civili stretti in un unico delirante
abbraccio; le donne e le ragazze, lasciando da parte il consueto pudore,
si lanciavano al collo dei rudi soldati con ardore febbrile. Non tutti
i miei soldati, in ogni modo, erano rozzi, dato che molti di loro appartenevano
a stimate famiglie della Lombardia o di altre province, ma erano comunque
tutti italiani, legati dal sacro giuramento per la patria, come a Pontida.
[...]
Eravamo in una città amica e piena di entusiasmo, e che, compromessa
com’era, dovevamo difendere: tuttavia di fronte all’immenso
esercito austriaco con tremila uomini si può difendere ben poco,
oltre al fatto che, dovendo badare alla difesa di una città, perdevamo
quella capacità di manovrare, in modo imprevedibile e segreto,
che costituiva la nostra risorsa più preziosa sul fianco dell’avversario.
Varese ha delle posizioni forti, come ad esempio Bium, e avrebbe potuto
essere ben protetta se vi fossero state delle fortificazioni, che però
mancavano: erigemmo delle barricate alle entrate principali della città
e alcuni cittadini si armarono coi fucili che essi stessi avevano preso
ai nemici.
Urban era il generale austriaco destinato al nostro sterminio: le prime
notizie che ebbi su quel feroce nemico erano che comandava addirittura
quarantamila uomini, e con nemici di stanza a Laveno e un reggimento in
marcia da Milano c’era proprio da avere i brividi. [...]
La mattina del 25 maggio fu avvistata la colonna nemica che avanzava su
Varese lungo lo stradale di Como: il capitano Nicolò Suzini, che
con la sua compagnia era stato inviato a tendere un’imboscata a
circa un miglio dalla città, in un casolare di campagna che dominava
lo stradale, ricevette il nemico con grande bravura; dopo averlo tenuto
a bada per un pezzo a fucilate, da distanza ravvicinata, si ritirò
sulla nostra destra, e a quel punto Urban formò la sua colonna
per l’attacco: facendola precedere da alcune linee di tiratori la
lanciò sulla nostra sinistra, e fu accolta con sangue freddo dai
veterani, sostenuti dal battaglione Marrocchetti. Lo scontro durò
poco: dopo averli ricevuti sparando a bruciapelo, i prodi cacciatori del
secondo reggimento, incitati da Medici e Sacchi, saltarono fuori dai ripari
e caricarono alla baionetta, facendo rifare agli austriaci la strada da
cui erano venuti, ma assai più in fretta.
Mi ero immaginato che l’attacco non si sarebbe limitato solo al
fronte della nostra ala sinistra, perché, secondo tutte le regole,
per dare l’assalto ad una posizione come quella di Varese sarebbe
stato necessario fare una diversione sullo stradale e concentrare il grosso
delle forze sulla parte opposta, a nord di Bium, dove il terreno offre
una posizione dominante. Urban, invece, prese il toro per le corna, e
tanto meglio per noi, perché, pochi come eravamo, avevamo bisogno
di non essere distratti da attacchi combinati in tanti punti diversi e
in più anche dalla parte di Milano dove c’erano considerevoli
forze nemiche. Avevo fissato il mio quartier generale sopra Bium, in una
posizione dominante, preziosa per tenere sotto controllo tutto il campo
di battaglia, e potevo osservare perfettamente ogni movimento, sia nostro
che del nemico: verso nord, dove non riuscivo a vedere, inviai in esplorazione
il capitano Simonetta con le sue guide, di cui mi fidavo ciecamente.
Sicuro che l’attacco si svolgesse unicamente sul nostro fronte sinistro,
scesi da Bium e feci seguire gli spostamenti del nemico, ordinando che
il resto della brigata continuasse a muoversi regolarmente: con i due
pezzi di artiglieria che avevano già usato a Varese ed un plotone
di cavalleria di scorta, i nemici si fermavano ad ogni buona posizione,
ma si ritiravano al primo apparire dei nostri, che pure erano in difficoltà
dovendo fronteggiare senza cannoni e cavalleria un avversario dotato di
tutte e tre le armi. Solo a S. Salvatore, dopo Malnate, gli austriaci
fecero resistenza e si svolse un accanito combattimento a fucilate in
cui si distinsero i coraggiosi carabinieri genovesi: i nemici erano da
una parte di un burrone perpendicolare alla strada e i nostri dall’altra,
ed avemmo più feriti che nel primo scontro, essendo lì gli
austriaci in posizione dominante e protetti da un folto bosco. Il nemico,
imbaldanzito da quel vantaggio e dal fatto di avere sia cannoni sia fucili
migliori dei nostri, fece avanzare sulla nostra sinistra un corpo di fanti
che ci caricò energicamente facendoci indietreggiare molto: i nostri
però tenevano una cascina che sovrastava tutto il campo di battaglia
e quando ricevettero rinforzi caricarono a loro volta con tanto vigore
da cacciare il nemico giù nel burrone, da cui non si vide uscire
più nessuno.
La posizione austriaca al di là del burrone restava inattaccabile,
quindi pensavo di aggirarla: non era impossibile, dato che tenevamo quella
cascina in alto da cui, quasi al coperto, potevamo oltrepassare la parte
superiore del dirupo senza che ce lo potessero impedire; stavo per dare
l’ordine quando arrivò come un fulmine la notizia che una
forte colonna nemica, sulla nostra sinistra, marciava su Varese: rimasi
frastornato e mi chiesi se allora la ritirata di Urban non fosse stato
altro che uno stratagemma. Ero davvero contrariato e ordinai al colonnello
Cosenz, che comandava la riserva, di andare subito a Varese, occuparla
militarmente e resistere a oltranza. Feci avanzare la brigata sulle alture
di sinistra per ingannare il nemico, che non poteva sapere se puntavamo
ad aggirarlo, e quando fummo al riparo della montagna girammo a sinistra
per un sentiero e di lì marciammo verso Varese senza perdere tempo.
Restava sempre la minaccia della colonna nemica in marcia sulla città,
che era stata vista non solo da contadini e soldati ma anche da ufficiali
superiori, ma una volta arrivati a Varese la notizia perse consistenza
e svanì tra le acclamazioni popolari, come una nuvola nera scacciata
dall’entusiasmo cittadino. [...]
Tutti i feriti, italiani e austriaci, furono raccolti e portati in città:
i prigionieri avrebbero potuto meritatamente pagare col sangue quello
versato dai nostri che erano stati assassinati, Ugo Bassi, Ciceruacchio
e tanti altri, ed invece furono trattati con cura forse maggiore di quella
riservata ai nostri stessi soldati. Non importa, l’Italia fa bene
ad essere umana coi propri carnefici: il perdono è prerogativa
dei grandi e l’Italia sarà grande, quando sarà libera
dalla nera e schifosa genia dei gesuiti e dei gesuitanti!
Con tutta la brigata procedemmo dunque verso Varese, per far riposare
la nostra gente, molto stanca. Fu questa la prima battaglia dei Cacciatori
delle Alpi, che dimostrarono un coraggio superiore a tutte le aspettative:
soldati giovani, che per la maggior parte non avevano mai combattuto,
avevano affrontato truppe regolari abituate a disprezzare gli italiani
e le avevano sempre messe in fuga: questa prima vittoria mi sembrò
di buon auspicio.
Le nostre perdite, rispetto a quelle nemiche, erano state numericamente
insignificanti, ma importanti considerando il tipo di uomini che perdevamo,
perché la maggior parte dei soldati ai miei ordini erano giovani
di famiglie illustri: questo era il meno, dato che il tributo alla patria
lo devono pagare sia gli altolocati che i proletari, il fatto è
che tra loro, come semplici soldati, c’erano delle vere celebrità
artistiche. Bella e cara gioventù, speranza dell’Italia,
che nell’avventurosa leggenda del suo risorgimento doveva dare gli
uomini che fecero Calatafimi, Monterotondo e Digione. Tra i feriti non
si udiva un lamento e se si udiva qualche grido fra chi veniva operato
dal chirurgo quello era "Viva l’Italia!": e quando un
popolo arriva a questo punto, le tiare papali, le prepotenze dello straniero
e la tirannide interna possono far fagotto. Tra i morti c’era pure
un figlio, il primo che perse, della donna per la quale i posteri confonderanno
questa epoca con quella di Sparta e di Roma, un figlio dell’incomparabile
madre dei Cairoli, l’illustre signora pavese; il più giovane
dei tre che si erano arruolati, Ernesto, combattendo era caduto, col petto
straziato dal piombo austriaco, sul cadavere di un tamburino nemico che
aveva ucciso con la baionetta. Pensai al dolore di quella madre, così
affettuosa coi figli e con chiunque avesse la fortuna d’incontrarla:
quello stesso giorno incontrai il fratello maggiore, Benedetto, valoroso
e modesto ufficiale, che mi era caro come tutta la sua famiglia: i suoi
occhi incontrarono i miei, ma nessuno dei due pronunciò parola;
lessi soltanto nel suo sguardo malinconico "Mia madre…"
e anch’io pensai all’infinità di dolori che aspettavano
quella donna generosa!
E quanti altri, dei quali non conoscevo le madri, giacevano morti su quel
campo insanguinato, o mutilati e morenti, col desiderio di vedere ancora
una volta la povera madre! Poveri giovani! O, piuttosto, felici giovani,
il cui sangue riscattava una volta per tutte l’Italia dalla schiavitù!
Le generose donne di Varese rimediavano all’assenza dei genitori.
Donne italiane, vedete, io scrivo commosso: non lo credereste, ma ho pianto
nel raccontare dei Cairoli; sarà debolezza, prendetela come volete,
eppure con tutti i cadaveri ed i feriti che ho visto sui campi di battaglia
mi sento ancora, permettetemi la presunzione, non più forte di
quando avevo vent’anni ma appassionato come allora se si tratta
di lottare per la nostra terra! Dio mi conceda di chiudere gli occhi pronunciando
queste ultime parole: "Essa è completamente libera!"
Sì, le donne di Varese sostituivano le madri dei nostri feriti
e, bisogna ammetterlo, anche i feriti austriaci dividevano le cure di
quelle sante donne. [...]
Sono nel dubbio se il giorno della battaglia di Varese sia stato il 25
o il 26 maggio, ma è certo però che il 27 si marciò
su Como. Sapevo bene quanto era importante attaccare un nemico sbandato
da una prima sconfitta, per quanto fosse forte, e non volevo perdere questa
occasione.
La mattina del 27 lasciammo Varese dirigendoci verso Como lungo la strada
di Cavallasca, dove giungemmo verso mezzogiorno; i soldati avevano marciato
molto ed erano stanchi, ma l’orario era quello adatto: poco prima
di notte si può attaccare con meno pericolo anche una forza superiore,
soprattutto in zone montuose come quelle in cui dovevamo combattere e
nelle quali la cavalleria e l’artiglieria possedute dal nemico avevano
poca efficacia. Lasciai quindi riposare la gente e cominciai a prendere
tutte le informazioni possibili sulle posizioni occupate dal nemico, sulla
sua forza, ecc.; informato che teneva la forte posizione di S. Fermo,
che ritenni essere quella chiave, inviai due compagnie, agli ordini del
bravo capitano Cenni, per aggirarla sulla destra, mentre il secondo reggimento
avrebbe attaccato di fronte non appena le compagnie fiancheggiatrici avessero
avuto il tempo di portarsi sul fianco nemico. E al momento stabilito attaccarono:
il colonnello Medici di fronte e le compagnie di Cenni sul fianco; il
nemico resse coraggiosamente, battendosi con tenacia e valore, da un’ottima
posizione difesa da un robusto recinto, e il combattimento durò
accanitamente per un’ora, finché, accerchiati da tutte le
parti, gli austriaci cominciarono a cedere, alcuni fuggendo altri arrendendosi.
Questo primo rapido successo ci rese padroni di tutti i punti strategici,
e ciò fu di grande importanza perché consistenti rinforzi
austriaci avanzavano dalla Camerlata e da Como; Medici sulla destra e
Cosenz sulla sinistra, appoggiati da alcune compagnie del terzo reggimento
guidate dai prodi maggiori Bixio e Quintini, respinsero ovunque il nemico,
ed il fuoco dei bravi carabinieri genovesi, con le loro armi di precisione,
contribuì molto al buon risultato della giornata. I nemici erano
molti ed i nostri Cacciatori delle Alpi non avevano che la superiorità
del terreno conquistata di slancio: gli austriaci erano respinti, però
in quella zona montuosa essi riuscivano sempre a trovare posti sicuri
in cui fermarsi e da cui talvolta respingevano i nostri che li incalzavano.
Quella configurazione del terreno impediva di avere una visione generale
e spesso si aveva notizia di uno scontro dalle fucilate che si udivano:
dall’alto si scorgevano le robuste riserve nemiche, ben schierate
nei pendii sottostanti, e i dodici pezzi di artiglieria che però
non vennero utilizzati.
Al calar della notte procurai di raggruppare le nostre forze, sparpagliate
a causa del luogo accidentato e della molteplicità degli scontri:
riunita la brigata, procedemmo subito lungo lo stradale che scende a Como
a zig zag, e mentre noi avanzavamo loro retrocedevano; nel borgo S. Vito
ci fermammo per raccogliere informazioni, ma era difficile trovare gli
abitanti del posto, scomparsi per paura di venir maltrattati. Finalmente
decidemmo di entrare in città.
La popolazione all’inizio era impaurita, perché era buio
e non riusciva a individuare chi fossero gli attaccanti, porte e finestre
erano tutte chiuse e non si vedeva nessuno: ma quando ci sentirono parlare
e capirono che eravamo noi, gli italiani!, accade uno spettacolo indescrivibile
e che avrebbe meritato di essere illuminato dal sole. Fu come scoppio
di una mina: in un lampo la città fu illuminata, le finestre piene
di gente, le strade gremite, tutte le campane suonarono a distesa e questo
contribuì non poco a spaventare i nemici in fuga. Chi può
descrivere la scena commovente di Como in quella notte e chi può
ricordarla senza emozione? La popolazione era frenetica: uomini, donne
e bambini si erano come impadroniti dei miei soldati, abbracci, pianti,
grida, pazzie, erano all’ordine della notte! I pochi a cavallo che
come me marciavano alla testa della colonna facevano fatica a non essere
rovesciati, o tirati giù per le gambe, soprattutto dalle ragazze
la cui bellezza sembrava autorizzarle a spadroneggiare sui compatrioti
liberatori!
Dei nemici non si avevano notizie certe: chi diceva che erano in questo
o in quel luogo, chi diceva che fossero in marcia verso la Camerlata:
in realtà mentre noi entravamo da una parte loro uscivano dall’altra,
e, non sentendosi al sicuro alla Camerlata, proseguirono in gran fretta
verso Milano, lasciando nei depositi molte armi e vettovaglie. I poveri,
coraggiosi Cacciatori delle Alpi bivaccarono per le vie e le piazze di
Como, ed avevano tutte le ragioni per essere stanchi: partiti la mattina
da Varese, avevano marciato tutto il giorno, combattuto, e ancora marciato
per metà della notte, ed era un miracolo per dei giovani non abituati
alla fatica delle marce. Solo l’amor di patria riusciva a tenere
in piedi quella magnifica gioventù italiana.
Io mi comportai da veterano: dopo aver organizzato la costruzione di alcune
barricate all’imbocco della strada per la Camerlata e aver contemplato
pieno di affetto i miei stanchi compagni, sdraiati per le strade e le
piazze, accettai l’ospitalità offertami, credo, in casa Rovelli.
Il nemico aveva ricevuto un duro colpo: c’era da supporre che avesse
avuto molti dispersi a causa della natura del terreno, dei combattimenti
e della notte avanzata, e infatti fu così. Però, tenendo
conto che gli austriaci avevano circa 9.000 uomini, dodici cannoni, un
bel po’ di cavalleria, e noi meno di 3.000 soldati, con poche guide
a cavallo e senza un solo cannone, e considerando che Como era in un avvallamento
ovunque sovrastato da notevoli alture, ero in ansia per quanto sarebbe
potuto accadere il giorno seguente se avessimo avuto a che fare con un
avversario intraprendente. Tutti questi pensieri turbarono il mio brevissimo
riposo e l’alba mi trovò a cavallo diretto alla Camerlata
per raccogliere informazioni sul nemico: la sostanza fu che aveva evacuato
quel punto importante, e ne fui lieto, perché i miei soldati erano
così provati da non augurare loro un combattimento per quella giornata.
Si occupò militarmente la Camerlata e i Cacciatori poterono riposare
tutto il giorno, con enorme soddisfazione.
Avevamo pagato la vittoria con perdite importanti: i morti e i feriti
non erano molti, ma di grande valore. [...] Giovani coraggiosi, le vostra
ossa serviranno da fondamenta all’edificio di quella patria che
avete amato così tanto, e le donne delle future generazioni italiane
insegneranno ai bambini a benedire i vostri nomi e gli racconteranno le
vostre gesta gloriose! Non ricordo i nomi dei tanti fratelli caduti in
quella gloriosa battaglia in cui pochi ed inesperti giovani, col loro
slancio patriottico, sbaragliarono le truppe assai più numerose
del generale Urban, che fuggì sino a Monza senza voltarsi per vedere
chi l’aveva sconfitto.
La presa di Como rafforzava la nostra situazione in termini di equipaggiamento,
di armi, di rinforzi e di prestigio; le imbarcazioni, grazie alla disponibilità
dell’amministrazione comunale e dei comandanti, erano nostre e quindi
eravamo padroni del Verbano: tutti i paesi del lago, la Valtellina, Lecco,
ecc., si erano pronunciati a nostro favore e dovunque si chiedevano armi
per combattere in difesa della patria. Però ci mancavano armamenti
e soprattutto munizioni, consumate nei precedenti scontri e non solo eravamo
lontani dalla nostra base, il Piemonte, ma le comunicazioni erano quasi
completamente interrotte: sotto quest’ultimo aspetto il patriottismo
di alcune persone era di aiuto, però armi e munizioni era impossibile
averne. Ciò mi diede l’idea di riavvicinarmi al Lago Maggiore
e allo stesso tempo tentare un colpo di mano a Laveno, ed ecco, dunque,
i Cacciatori delle Alpi di nuovo sulla strada da Como a Varese.
Al maggiore Bixio, distinto ed energico ufficiale, uno di quelli, come
Cosenz e Medici, a cui si può tranquillamente affidare il comando
di qualsiasi azione, diedi l’incarico di andare in avanscoperta
su Laveno, ma non toccò a lui attaccare: nell’avvicinarmi
mi fu suggerito di allargare la manovra anche al lago e Bixio era il più
adatto per questa mossa, perché alle capacità di un bravo
soldato univa quelle di un esperto marinaio. A Gavirate suddividemmo i
reparti nella zona, e anche se avrei potuto tentare un deciso attacco
notturno su Laveno con tutta la brigata, ebbi notizia che Urban era sulle
nostre tracce ed aveva ricevuto rinforzi: quindi risolsi di non impegnare
assolutamente tutte le forze avendo non lontano un formidabile nemico
alle spalle.
Mi limitai a un colpo di mano parziale condotto da due compagnie del primo
reggimento alla guida dei capitani Bronzetti e Landi e appoggiate dal
maggiore Marrocchetti col resto del battaglione e dal colonnello Cosenz
con resto del reggimento; frattanto il bravo capitano Griziotti mi aveva
portato due piccoli obici di montagna e due cannoncini con alcuni proiettili.
L’operazione non riuscì: il capitano Landi, che la iniziò,
entrò nel forte verso l’una di mattina con una ventina di
uomini ma, non essendo stato seguito dal resto della compagnia, dovette
evacuare, essendo anche rimasto gravemente ferito, mentre il capitano
Bronzetti, condotto fuori strada dalle guide, non arrivò in tempo
per partecipare all’assalto: respinti, i nostri rimasero allo scoperto
e da dietro i ripari il nemico riuscì facilmente a ferirne alcuni.
Se Landi fosse entrato con tutti gli uomini e fosse stato seguito dalla
compagnia di Bronzetti, il forte, difeso da un’ottantina di austriaci,
sarebbe certamente caduto in mano nostra, e, presa quella posizione dominante,
avrei potuto agevolmente occupare Laveno e tenere così aperte le
comunicazioni col Piemonte. Niente assalto al forte e niente operazione
sul lago, non essendo Bixio riuscito a convincere le barche della finanza
sulla riva piemontese ad accompagnarlo; fu quindi necessario prepararsi
alla ritirata, e quando all’alba il nemico capì che il nostro
attacco era fallito iniziò un fuoco tremendo contro le compagnie
in ritirata e le riserve: dai forti e dai vapori cannoneggiavano disperatamente,
come se avessero voluto vendicarsi della paura avuta quella notte, e tiravano
anche dei razzi, che erano il loro divertimento preferito; un vero trastullo,
dato che non ho mai visto un uomo od un animale feriti da quegli spauracchi.
[...]
A sud di Laveno c’è un’altura boscosa dalla quale si
domina perfettamente tutta la zona e avevo fatto sistemare lì la
nostra modesta artiglieria, che servì ad allontanare le navi nemiche
consentendo così una ritirata ordinata. [...]
La sera dello stesso giorno fui avvisato che Urban era entrato a Varese
e ne fui molto contrariato: eravamo tagliati fuori da Como e non c’era
tempo da perdere: con tutta la brigata ci avviammo in fretta in Valcuvia,
attraversammo Vaganna e arrivammo in vista di Varese, con l’avanguardia
sotto Bium superiore; calava la notte e potevamo attaccare con rischio
ridotto e comunque con la ritirata sicura verso le buone posizioni di
Valganna. Dalle alture che a nord sovrastano Varese avevo osservato con
cura tutte le posizioni degli austriaci e mi parve che fossero davvero
molti, da dodici a quindicimila, anche se non così tanti come dicevano
gli abitanti della zona: vidi anche artiglieria, naturalmente ben posizionata.
Volevo davvero attaccare e liberare Varese, ma sapevo anche che Urban
era capace di far pagare le proprie sconfitte agli abitanti della città,
quindi non attaccai e tornai a Como.
A Malnate c’era un distaccamento austriaco e quindi non potevamo
seguire lo stradale, così dovemmo seguire i percorsi di campagna,
grazie alle guide fornite dal podestà di Arcisate, sotto un diluvio
che per tutto il tragitto non s’interruppe un minuto: fu un’altra
prova di tenacia e di coraggio per i miei giovani compagni. Passammo a
poca distanza da Malnate, ma il temporale era così forte che non
c’era pericolo d’incontrare esploratori austriaci: la colonna
si era fatta lunghissima e quando cercai di fermarne la testa non fu possibile,
solo marciando era possibile resistere alla bufera e al freddo che affliggevano
i soldati; fu una marcia lunga e faticosa: la traversata di alcuni fiumicelli
e torrenti ingrossati fu molto difficoltosa, soprattutto per la coda e
per i cavalli.
Giunti a Como i Cacciatori furono accolti dalla gente con l’abituale
sollecitudine e presto pericoli e fatiche furono dimenticati: finalmente
eravamo arrivati, perché in città si era diffusa grande
preoccupazione per la nostra lontananza, dato che gli austriaci ed i loro
amici preti, maestri di menzogne, le avevano inventate tutte, con un talento
speciale nel far apparire ovunque masse di nemici. Le autorità
si erano ritirate sul lago, e così pure alcune compagnie che avevo
lasciato lì, e i feriti erano stati malauguratamente trasportati
a Menaggio: tutto questo aveva creato sgomento fra la popolazione e se
una qualsiasi forza nemica fosse capitata a Como avrebbe preso il controllo
di tutta la zona. Chi mi aveva informato di tutto fu una coraggiosa ed
avvenente fanciulla che apparve come una visione, su una vettura, lungo
la strada da Rubarolo a Varese, mentre marciavo in quella direzione per
attaccare Urban: questa bella ragazza era partita da Como per annunciarmi
lo stato deplorevole in cui versava la città e per sollecitare
il mio ritorno.
A Como pensammo ad organizzare qualche difesa nei punti più importanti
della zona e la popolazione collaborò attivamente; però
la battaglia di Magenta svoltasi in quei giorni cambiò ogni cosa:
quella vittoria elettrizzò tutti e migliorò molto la nostra
situazione, mentre quella di Urban a Varese diventava critica, tanto che
non sarebbe stato difficile costringerlo ad arrendersi se solo avessimo
avuto poche migliaia di uomini in più. Ma considerato che in quei
giorni la mia brigata contava circa duemila soldati validi, non potevo
certo rischiare di essere spazzato via cercando di sbarrare il passo ad
un nemico tanto più forte. Avevo già deciso di spingermi
sulla strada per Monza, che Urban doveva percorrere, ma cambiai idea per
varie ragioni, soprattutto perché Urban, sapendoci lì, avrebbe
preso la strada per Como, per noi più importante e sicura sotto
tutti gli aspetti.
Padroni del lago di Como e dei vapori, non c’era più un solo
punto del lago che non avesse abbassato le odiate insegne dell’Austria
ed innalzato il tricolore: l’importante città di Lecco ci
apriva pure la grande strada della Valtellina e quella ad est che va a
Bergamo e Brescia, con cui era già in stretti contatti il nostro
prode Gabriele Camozzi. [...] Ho già accennato ai motivi che m’impedivano
di collocarmi sulla linea di ritirata di Urban, e quindi, non intendendo
prendere quella decisione e non volendo nemmeno restare inattivo, decisi
di operare sulla linea di Lecco, Bergamo e Brescia, zona più adatta
alle esigue forze a cui era ridotta la brigata e quindi al tipo di operazioni
che poteva condurre. Continuavamo a incoraggiare l’insurrezione
di queste città e paesi, mantenendo sempre la nostra libertà
d’azione, e si cominciò ad imbarcare sui vapori per Lecco
parte della brigata; frattanto ricevetti un dispaccio dal generale Fanti
in cui mi chiedeva se ritenevo possibile operare di concerto con le sue
forze contro Urban: ma siccome non vidi il messaggero, né mi veniva
richiesta risposta, continuai la mia manovra verso Bergamo, lasciando
agli alleati il compito di inseguire Urban in quel momento in ritirata
verso Monza e l’Adda.
Da Lecco proseguimmo verso Bergamo, dove si trovavano gli austriaci: venne
fatto prigioniero un ufficiale nemico che girava nei dintorni per imporre
agli abitanti una tassa di dodicimila svanziche, sotto la minaccia, in
caso di rifiuto, di distruggere i paesi: le solite cortesie di quei gentili
padroni, abituati a mettere in pratica subito i loro avvertimenti, ma
stavolta furono pagati con una moneta analoga a quella con cui Camillo
pagò i Galli a Roma, cioè col ferro. Avvicinandoci a Bergamo
al mattino presto, venimmo a sapere che gli austriaci stavano evacuando
la città e per quanto fossimo veloci non riuscimmo a raggiungerli;
occupammo la città, dove trovammo cannoni e molte munizioni che
il nemico non era riuscito a distruggere.
Qui accadde un fatto curioso: dalla stazione ci arrivò la notizia
che un corpo di mille uomini era partito da Milano in aiuto al presidio
austriaco di Bergamo, e quindi radunai la brigata proprio in quella stazione,
facendo nascondere gli uomini nei fossi e nei caseggiati circostanti;
stava effettivamente avvicinandosi un treno con le truppe, ma un cantoniere
austriaco che si trovava a Seriate, a circa due miglia di distanza, avvisò
della nostra presenza e quindi il nemico non proseguì, fermandosi
a Seriate, probabilmente indeciso sul da farsi. Il capitano Bronzetti,
inviato in quella direzione con la sua compagnia, in segno di riconoscenza
caricò energicamente il nemico, dieci volte più numeroso,
e lo mise in fuga.
Ci fermammo poco a Bergamo: sapendo che gli austriaci stavano raccogliendo
tributi tra i paesi della bassa, con la brigata ci muovemmo in quella
direzione, risparmiando un sacco di ruberie ai poveri abitanti delle campagne;
ci avviammo poi verso Palazzolo, dove già avevo fatto arrivare
Cosenz col suo reggimento; giunti lì, e sapendo che il nemico stava
dirigendosi su Brescia, ordinai di accelerare la marcia verso quell’illustre
città, che temeva un ritorno degli austriaci: alcuni inviati della
città erano appunto venuti a ragguagliarmi e a sollecitarmi a nome
della popolazione.
I miei poveri Cacciatori erano arrivati a Palazzolo estenuati dalle marce
forzate, ma contavo sull’entusiasmo dei coraggiosi giovani che mi
seguivano, e non mi sbagliai: feci fare ai comandanti una rapida indagine
per verificare se gli uomini erano disposti a proseguire quella notte
stessa fino a Brescia ed una sola voce si levò tra quei valorosi
difensori dell’Italia: a Brescia, a Brescia! E verso le undici di
sera eccoli ancora in cammino, con la stessa allegria e disinvoltura,
indifferenti come al solito ai disagi ed alla stanchezza.
Cacciatori delle Alpi, miei giovani e coraggiosi compagni! Mentre scrivo
di voi, ed è l’unico segno del mio affetto che io possa darvi,
siete perseguitati dalla pignoleria e dall’invidia di chi non fece
nulla, mentre voi agiste da veri patrioti: oggi i vostri prodi ufficiali
sono soppiantati dai Tersiti dell’Iliade italiana, che gozzovigliano
riccamente mentre i nostri migliori, respinti come fossero avversari,
vagano elemosinando per le stesse contrade dove insieme a voi sconfissero
i saccheggiatori delle nostra terre. Ebbene, Cacciatori delle Alpi, miei
poveri e generosi fratelli d’armi, il nostro paese non potrà
rifiutarvi una lode per la tante fatiche sopportate e spera che, benché
rifiutati e bistrattati dai malvagi, tornerete ancora a combatte i suoi
nemici con lo stesso slancio e con lo stesso entusiasmo. [...]
A metà strada fra Palazzolo e Brescia, in un punto che non ricordo,
c’era il nemico: non dovevamo attaccarlo, ma evitarlo, altrimenti
la nostra azione avrebbe subito un ritardo e in ogni caso c’erano
poche probabilità di successo contro un avversario più forte;
prendemmo quindi una strada a sinistra, buona e non molto più lunga.
Avvisati, i bresciani ci mandarono incontro molti carri su cui caricare
gli uomini più stanchi, e la mattina seguente arrivammo a Brescia:
tutta popolazione si era riunita per accoglierci, come avevano fatto a
Bergamo, ma con un entusiasmo ancora maggiore, che si potrebbe definire
bresciano, cioè unico! Palermo, Genova, Milano, Brescia, Messina,
Bologna, Casale! Quando tutte le città italiane si decideranno
a trattare il nemico come avete fatto voi, questa nostra terra non sarà
più terra di padroni e servi, ma di gente libera e rispettata da
tutti.
Nella rocca di Brescia, come in quella di Bergamo, trovammo molti cannoni
e munizioni; ci fermammo alcuni giorni per lasciar riposare i soldati,
poi proseguimmo verso Rezzato ed il fiume Chiese, dove pensavamo che il
nemico transitasse in ritirata: in realtà si trovava ancora a Castenedolo,
lo si capiva dalle loro molte pattuglie che si avvicinavano alla strada
provinciale che da Brescia va a ponte S. Marco; a Rezzato ricevetti ordine
dal quartier generale del re di occupare Lonato: per questa operazione
mi avrebbero mandato due reggimenti di cavalleria ed una batteria di artiglieria,
agli ordini del generale Sambuy. Coi nemici presenti in forze a Castenedolo
non potevo certo passare il Chiese a ponte S. Marco e cercai informazioni
su dove poter passare più in alto, decidendo quindi di ricostruire
il ponte del Bettoletto, distrutto dagli austriaci alcuni giorni prima.
L’ordine del re, quantunque all’inizio accolto con gioia,
mi metteva in difficoltà a causa dei reggimenti di cavalleria e
di artiglieria che dovevano raggiungerci: marciando con tutta la brigata
sul Chiese, avrei lasciato lo stradale scoperto, dove cioè cavalleria
ed artiglieria avrebbero sicuramente corso dei rischi, e dunque decisi
di lasciare il primo ed il secondo reggimento scaglionati sullo stradale,
facendo fronte agli austriaci di Castenedolo ed osservandoli; con una
parte del terzo, la compagnia dei bersaglieri genovesi, i quattro pezzi
e le guide, andai sul Chiese per avviare la costruzione del ponte: era
quasi ultimato quando mi comunicarono che il nemico aveva attaccato i
due nostri reggimenti lasciati sullo stradale, e quindi abbandonai il
luogo dei lavori e al galoppo mi diressi verso il punto dello scontro.
Il primo reggimento che era stato attaccato, agli ordini dei valorosi
colonnelli Cosenz e Tòrr con gran bravura aveva respinto il nemico
fino al grosso di Castenedolo, ma sopraffatto dal numero fu poi obbligato
a battere in ritirata, e fu così che lo trovai, un po’ disordinato,
quando giunsi sul campo di battaglia, col colonnello Tòrr, ferito,
che era stato portato via; io ed i miei bravi aiutanti, Cenni, Trecchi
e Meryweather, riordinammo a dovere i prodi Cacciatori, che fronteggiarono
nuovamente il nemico e che tuttavia dovettero cedere ancora al numero
assai superiore degli austriaci, i quali non solo incalzavano anteriormente
ma cercavano di aggirarli per circondarli: la ritirata, comunque, avvenne
ordinatamente e protetta dal secondo reggimento che era stato avvisato
dal mio Capo di Stato Maggiore, il maggiore Carrano.
Tra i bravi ufficiali caduti vi fu il maggiore Bronzetti, che si era meritato
il titolo di prode dei prodi. [...] Non so se riuscirò mai a rendere
noti i nomi, che ora non ricordo, dei miei tanti fratelli d’armi,
martiri dell’Italia, che così valorosamente combatterono
e caddero sul campo, in quel giorno memorabile per i Cacciatori delle
Alpi: un giorno che fu detto dei tre ponti e che fu il più combattuto
e micidiale per il primo reggimento; il secondo fu all’altezza della
gloria conquistata negli scontri precedenti e le compagnie del terzo,
comandate dal bravo maggiore Croce, dimostrarono di essere degne di combattere
accanto ai loro eroici compagni. [...]
La battaglia si svolse in condizioni per noi sfavorevoli, dato che avevamo
avuto l’onore di essere agli ordini diretti del quartier generale
del re e quindi avevamo dovuto dividere la brigata, lasciandone due terzi
a difesa di quella cavalleria ed artiglieria che dovevano arrivare e che
invece non si videro mai: era la prima volta, durante tutta la campagna,
che mi trovavo a contatto col quartier generale del re e non avevo certo
motivo di esserne lieto! Sapevano, oppure no, che il quartier generale
dell’imperatore d’Austria era a Lonato, centro di un esercito
di duecentomila uomini? E se lo sapevano, perché inviarmi lì
con milleottocento uomini? Ma che non lo sapessero sarebbe un sospetto
ingiusto nei confronti dello Stato Maggiore del re di Sardegna, che poteva
avere molte colpe ma non quella di essere privo di spie; e allora perché
promettermi due reggimenti di cavalleria ed uno di artiglieria, per la
cui difesa la mia brigata fu sul punto di venir quasi completamente distrutta,
mentre non solo non si inviavano rinforzi ma di queste forze non si seppe
mai più nulla? Fu dunque un tranello in cui si voleva eliminare
un pugno di valorosi che davano fastidio ad un certo numero di grandi
maestri della guerra!
Alla fine mi persuasi che al quartier generale avevano voluto burlarsi
di noi, e burlarsi un po’ tragicamente, e che non era serio pensare
di occupare Lonato: dovevamo occuparci dei nostri problemi senza aspettare
chissà quali ordini superiori; tanto più che quando alla
sera informai di quanto era accaduto il generale Cialdini, egli mi disse
che stavo fresco se mi fossi fidato di quella gente. Dovevo, insomma,
contare su me stesso e sui miei compagni e cercare di non cadere nelle
grinfie dell’esercito nemico, ancora intero e poco distante, e la
conferma venne dai fatti che seguirono.
Durante la battaglia già descritta, avendo osservato che il nemico
guadagnava terreno sulla destra pensai, non senza fondamento, che tentasse
di tagliar fuori i nostri che erano sul Chiese, e quindi ordinai al colonnello
Arduino che abbandonasse il ponte ormai costruito e che si ritirasse sui
monti poco distanti di Nuvolento; quell’ufficiale, interpretando
l’ordine in modo esagerato, non solo si ritirò a Nuvolento
ma, avendo mandato l’artiglieria verso Gavardo, si ritirò
anche lui con la fanteria sui sentieri di montagna. Date a Cosenz e a
Medici precise disposizioni sui punti d’incontro, galoppai verso
Arduino per metterlo in contatto con gli altri corpi alle falde della
montagna, cioè in una posizione adatta a sostenere l’impatto
di forze superiori; privo di aiutanti, perché il cavallo di Cecchi
era morto e gli altri erano stanchi o in missione, avanzavo da solo chiedendo
notizie a chi incontravo: ma erano pochissimi gli abitanti di quei luoghi
che non erano scappati o non si erano nascosti per salvarsi dalle angherie
e dalle ruberie dei soldati, amici o nemici, e poi le gloriose battaglie
hanno ovviamente poco interesse per gli insensibili indifferenti, e la
gente di campagna, finora almeno, è stata sempre insensibile alle
nostre lotte, se non apertamente ostile.
Ogni notizia che raccoglievo mi dava per lontana la gente che cercavo
e la raggiunsi solo grazie alla bravura della mia cavalla, che pure aveva
galoppato tutto il giorno: diversamente avrei dovuto continuare a cercarli,
con non poca costernazione, l’indomani sulle montagne verso Brescia
o addirittura in città. Mentre le truppe del re avanzavano lungo
la strada per Brescia, il generale Cialdini, a cui ero legato da amicizia,
avendo saputo del nostro impegno ai tre ponti aveva fatto il possibile
per spingersi avanti, facendo egli stesso da avanguardia dell’esercito
regio e mandando in nostro aiuto alcuni corpi leggeri, che tuttavia non
arrivarono, perché spossati dalle lunghe marce, o arrivarono a
battaglia finita.
Restammo alcuni giorni sparsi nelle posizioni accennate: con la nostra
presenza e l’avanzare del grosso, potevamo ben controllare la zona
e dato che gli abitanti di Gavardo avevano riparato il ponte sul Chiese,
buttato giù dagli austriaci, decisi di spingermi fino a Salò
passando su questo ponte. Perciò tutta la brigata si riunì
a Gavardo e durante la notte attraversammo il Chiese puntando su Salò:
il maggiore Bixio ebbe ordine di occupare la città col suo battaglione,
mentre per quella notte la brigata sarebbe rimasta sulle alture sopra
lo stradale che va a nord, entrando a Salò il mattino dopo. Nel
frattempo avevo fatto arrivare da Como e da Iseo alcune barche, che arrivarono
con noi a Salò, perché avevo immaginato che il nemico, abbandonando
la sponda occidentale del lago di Garda, avrebbe distrutto le imbarcazioni,
cosa che però non avvenne.
Occupammo Salò per alcuni giorni e l’episodio più
saliente fu la distruzione di un vapore nemico che ogni giorno veniva
a spiarci: entrava sino nel fondo del porto, sciando e dando sempre la
prua all’imboccatura del porto, per essere pronto alla ritirata
in caso di bisogno; avendo notato tutto questo, chiesi al comandante di
un distaccamento che si trovava a Gavardo una mezza batteria da campagna
tra cui due obici: li feci collocare all’ingresso del porto, sulla
destra entrando, in una collocazione ottimale, e sulla riva i pezzi erano
coperti dalle piante, che li nascondevano completamente, ma potevano liberamente
far fuoco verso il lago, in qualunque direzione; inoltre avevo ordinato
ai bersaglieri genovesi, col capitano Paggi, di imboscarsi fra le piante,
sulla sinistra entrando in porto e così il loro fuoco obbligò
il vapore ad allontanarsi vero il lato opposto, dove c’era la batteria:
dopo pochi tiri di quei bravi artiglieri, a bordo scoppiò un incendio
che non riuscirono a spegnere e il vapore cercò di guadagnare la
riva opposta, a tutta velocità: non ci riuscì e affondò
a poca distanza dalla sponda. Mi dispiace di non ricordare il nome del
bravo ufficiale che diresse quei pezzi e qui voglio indirizzare un encomio
a tutta l’artiglieria italiana, non seconda a nessuno nel mondo!
Il generale Cialdini, ai cui ordini ero stato posto dal re, mi disse di
marciare con la brigata verso la Valtellina: ordinai al colonnello Medici
di andarci per primo ed egli riunì tutti i distaccamenti che si
trovavano nella valle, respingendo gli austriaci verso lo Stelvio; mi
misi in moto con la brigata attraversando il lago di Como, da Lecco a
Colico, coi vapori, e quindi occupammo la valle fino a Bormio: da lì
Medici, puntando sullo Stelvio, costrinse i nemici a sgombrare il territorio
lombardo. I nostri giovani Cacciatori delle Alpi, guidati da Medici, Bixio,
Sacchi, ecc., diedero nuove prove di coraggio e di tenacia in questo nuovo
genere di guerra tra le gole e le rocce delle montagne coperte dalla neve
eterna, dove i nemici avevano una certa pratica ed erano acclimatati,
essendo quasi tutti tirolesi. Eravamo dunque padroni della Valtellina
ed il generale Cialdini con la quarta divisione occupava la Val Camonica
e la Val Trompia fino al lago di Garda; il colonnello Brignone, della
stessa divisione, occupava la Val Camonica.
Non credo che qui sia fuori luogo dire una parola sul destino di questa
quarta divisione, senza dubbio una delle migliori dell’esercito
italiano, comandata da bravissimi ufficiali: fu davvero separata dal nostro
esercito perché si temeva la comparsa d’un grande corpo austriaco
dal Tirolo? O perché si voleva indebolire il nostro esercito e
fargli fare una brutta figura nella battaglia decisiva che si sarebbe
svolta inevitabilmente sul Mincio? O fu per tenere sotto controllo il
corpo dei Cacciatori delle Alpi, che in quei giorni si andava rafforzando
enormemente, e togliergli quell’autonomia che sembrava non dispiacere
al re ma che non piaceva a certa gente altolocata? Non credo la prima
ipotesi fosse estranea a quel volpone di Bonaparte e fu un mero pretesto
allontanare la divisione dall’esercito e privarlo d’un capo
valoroso e di un contingente ottimo.
I Cacciatori delle Alpi, poi, che dai milleottocento uomini a cui si erano
ridotti dopo lo scontro dei tre ponti in poco più di un mese erano
aumentati quasi per miracolo fino a dodicimila, continuando a crescere,
non mancavano di fare ombra a coloro i quali avevano la coda di paglia
avendo sostenuto che i volontari non servivano a nulla e ora invece dovevano
constatare che erano deboli al punto di spaventare sul serio il nemico.
Questi individui stracarichi di colpe hanno paura di noi, e ne hanno ben
donde: ci chiamano rivoluzionari e ci onorano, perché non rinunceremo
a questa qualifica finché ci saranno delle canaglie che per gozzovigliare
nel lusso mantengono la parte migliore del paese nella schiavitù
e nella miseria. Questo assurdo modo di agire poteva avere origine nel
tortuoso carattere di Napoleone III e riflettersi poi nella mente del
re e dei suoi volgari cortigiani: fatto sta che la battaglia di S. Martino
ebbe luogo e che l’esercito italiano, composto di cinque divisioni,
fu del tutto privo della quarta, che avrebbe potuto dare un aiuto decisivo
ai nostri nella difficile occasione.
Il timore, vero o finto, della discesa dal Tirolo di truppe austriache,
mi fu chiaro fin dal mio arrivo a Lecco: vi trovai un distaccamento del
genio francese, comandato da un ufficiale superiore, impegnato a minare
la strada principale che da Lecco conduce in Valtellina; questo ufficiale
aveva ordine di mettersi d’accordo con me sul da farsi e dato che
non avevo notizia di truppe nemiche in arrivo da quella parte lo pregai
di desistere dal suo lavoro; anche il generale Cialdini aveva l’ordine,
proveniente senza dubbio dalla stessa fonte, di distruggere strade e ponti
nelle valli più alte, e questa disposizione fu trasmessa al colonnello
Brignone, che occupava la Val Camonica, e a me: il colonnello obbedì
a malincuore ed io ordinai ad alcuni ingegneri di individuare i punti
più idonei ad essere distrutti in caso di necessità, ma
non feci demolire nulla, valutando che fosse una prudenza intempestiva
rovinare ponti e strade indispensabili per i poveri valligiani senza che
ci fossero notizie certe di un gran numero di nemici in arrivo.
Intanto si svolgevano le battaglie di Solferino e di S. Martino, e poco
dopo la pace di Villafranca, che alcuni giudicarono una calamità
ma io considerai una fortuna. Al momento dell’armistizio, poi divenuto
accordo di pace, i Cacciatori delle Alpi contavano oltre dodicimila uomini,
suddivisi in cinque reggimenti, ed occupavano quattro vallate: Valtellina,
Camonica, Sabbia e Trompia, fino alla frontiera del Tirolo; il generale
Cialdini si era ritirato con la sua divisione a Brescia; in aggiunta ai
Cacciatori delle Alpi era finalmente arrivato il reggimento dei Cacciatori
degli Appennini che Cavour, malgrado gli ordini del re ricevuti fin dall’inizio
della campagna, con vari pretesti non volle mai mandarci e ci inviò
solo a guerra finita. [...]
L’armistizio di Villafranca, che tutti capirono essere il preludio
della pace, lasciava i Cacciatori delle Alpi in una situazione anomala
rispetto alla loro natura: giovani generosi che avevano abbandonato il
loro lavoro e le comodità per venire a combattere per l’Italia,
non erano certamente adatti alla quieta vita di guarnigione e soprattutto
all’esagerata disciplina dell’esercito monarchico in tempo
di pace. Si capì subito, insomma, che sarebbero diventati una pianta
esotica nel mezzo dell’esercito regolare e sotto la permanente e
fastidiosa giurisdizione del ministro La Marmora.
Le notizie provenienti dall’Italia centrale davano un quadro bellicoso:
si diceva che il Duca di Modena era pronto a rientrare nel ducato e che
gli svizzeri del papa dopo l’eccidio di Perugia erano ansiosi di
gettarsi sulla Romagna.
[...]
|