PRIMO PERIODO 1807 - 1848
I MIEI GENITORI
Non
posso cominciare a raccontare la mia vita senza far cenno ai miei cari
genitori, che col loro carattere ed il loro affetto sono stati decisivi
per la mia formazione.
Mio padre, figlio di marinaio e marinaio lui stesso, non aveva certo l’istruzione
che hanno oggi le persone della sua condizione sociale: da giovane si
era imbarcato sulle navi di mio nonno, in seguito aveva comandato le proprie.
Ebbe alterne fortune e spesso lo udii affermare che avrebbe potuto renderci
più agiati. Ma gli sono assai grato, perché non trascurò
nulla per darmi un’educazione, anche quando, con pochi mezzi, ciò
rese ancora più difficile la sua vita onesta.
Se poi egli non ritenne di farmi impartire altri insegnamenti, come la
ginnastica, la scherma, e altre discipline del corpo, la causa è
da ricercarsi piuttosto nelle abitudini di quei tempi: gli istitutori
erano generalmente dei preti, che tendevano a fare diventare i giovani
dei seminaristi o degli avvocati, invece che dei bravi cittadini in grado
di esercitare professioni oneste e utili per il loro paese.
D’altronde l’amore per i suoi figli era sviscerato, e quindi
si comprende come avesse paura che essi scegliessero strade pericolose.
Questo timore paterno, dovuto appunto al troppo affetto, è forse
l’unico rimprovero che mi sento di muovergli: infatti, per non espormi
ai disagi ed ai pericoli del mare, fino ai quindici anni mi proibì
d’imbarcarmi, come invece avrei desiderato.
E non fu una saggia decisione, perché sono convinto che un buon
marinaio deve iniziare la propria esperienza da giovanissimo, possibilmente
prima degli otto anni, soprattutto se può contare su maestri così
esperti come i genovesi e gli inglesi. Far studiare i futuri marinai a
Torino o a Parigi, e farli salire a bordo dopo i vent’anni, è
un pessimo metodo: molto meglio farli studiare sulla nave, dove contemporaneamente
fanno il loro tirocinio pratico.
E mia madre! Lo affermo con orgoglio: è un modello per tutte le
madri, e con questo ho detto tutto. Ma se c’è una cosa che
sento di dovermi rimproverare è proprio il fatto di non poterle
donare la serenità che si merita in questi ultimi anni, dopo averla
riempita di ansie ed amarezze durante tutta la mia esistenza burrascosa.
Forse anche in lei l’affetto per il figlio è stato eccessivo,
ma non devo forse al suo amore, al suo animo dolce, quel poco di buono
che c’è nel mio carattere? Alla pietà di mia madre
verso il prossimo, alla sua indole generosa, alla sua compassione per
chi soffre, non devo forse quel tanto di spirito di solidarietà
che mi ha fatto guadagnare la simpatia dei miei infelici ma buoni concittadini?
Oh, non sono certo superstizioso, eppure quante volte, nei momenti più
difficili della mia vita avventurosa, uscito indenne dalle tempeste oceaniche
o dall’inferno dei campi di battaglia, vedevo la mia cara madre
inginocchiata al cospetto dell’Infinito, a implorare per la vita
di suo figlio! E allora, benché non molto convinto dell’utilità
delle preghiere, non potevo fare a meno di commuovermi, e di sentirmi,
se non felice, perlomeno più sereno!
I
MIEI PRIMI ANNI
Sono
nato il 4 luglio 1807 a Nizza marittima, verso il fondo del porto Olimpio,
in una casa sul mare.
Ho passato la mia infanzia come tutti i bambini, fra giochi, allegria
e pianti, e preferivo più divertirmi che studiare. Infatti non
mi sono giovato abbastanza degli sforzi fatti dai miei genitori per darmi
un’istruzione. Nulla di strano nella mia giovinezza.
Avevo buon cuore e questi piccoli episodi lo possono testimoniare. Un
giorno raccolsi un grillo e portandolo in casa gli spezzai una gamba per
sbaglio: ne rimasi così addolorato che rimasi chiuso in camera
mia per ore a piangere. Un’altra volta, mentre accompagnavo mio
cugino a caccia lungo il fiume Varo, mi ero fermato ai bordi di un fosso
piuttosto profondo, dove, come d’abitudine, le donne andavano a
lavare i panni: una di queste, non ricordo perché, cadde in acqua,
a testa in giù, rischiando di annegare, ed io, malgrado fossi piccolo
e appesantito dal carniere, mi precipitai a salvarla.
Ecco, ogni volta ch’era in pericolo la vita di qualche mio simile,
anche a rischio della mia non mi sono mai tirato indietro.
I miei primi maestri furono due preti, e credo che l’inferiorità
fisica e morale della razza italica provenga proprio da questa pessima
consuetudine. Del mio terzo maestro, di italiano, calligrafia e matematica,
il signor Arena, conservo invece un caro ricordo. Se avessi avuto più
buon senso e avessi potuto immaginare le mie future frequenti relazioni
con gli inglesi, avrei potuto studiare meglio la loro lingua col mio secondo
maestro, padre Giaume, un prete assai spregiudicato e assai esperto nella
bella lingua di Byron.
Al signor Arena, che era un laico, devo il poco che so e gli sarò
sempre riconoscente, soprattutto per avermi dato i primi rudimenti di
italiano e di storia romana.
La carenza d’istruzione è diffusissima in Italia, e in particolare
a Nizza, troppo a lungo restata sotto il dominio francese. Qui, all’epoca
in cui sto scrivendo (1849), molti non sapevano neppure di essere italiani,
tanto numerosa era la presenza di cittadini francesi e così diffuso
il dialetto assai simile al provenzale; del resto il governo si è
sempre disinteressato del nostro popolo, preoccupandosi solo di depredarlo
e di portargli via i figli per farne dei soldati: tutte ragioni che hanno
spinto i nizzardi all’indifferenza assoluta verso la patria, tanto
da consentire a Bonaparte e ai preti, nel 1860, di sradicare questo bel
ramo dalla madre pianta.
Quel poco che son riuscito ad imparare, dunque, lo devo a quelle prime
letture di storia, e all’incitamento di mio fratello Angelo, che
dall’America mi raccomandava di studiare.
Concludo il racconto di questa prima fase della mia vita con un breve
episodio, che anticipa le mie future avventure.
Stanco della scuola e insofferente verso un’esistenza senza prospettive,
un giorno propongo ad alcuni miei coetanei di andarcene a Genova: senza
un progetto ben definito, a tentare la fortuna. Detto fatto: prendiamo
un battello, carichiamo un po’ di viveri e di attrezzi da pesca,
e via a remare verso levante. Eravamo all’altezza di Monaco quando
una nave, inviata apposta da mio padre, ci raggiunse e ci riportò
a casa, pieni di vergogna.
Un abate aveva svelato il nostro piano di fuga. Guarda che combinazione:
un abate, l’embrione del prete, contribuiva forse a salvarmi ed
io ero così ingrato da accanirmi con quei poveri preti. Comunque
i preti sono impostori ed io mi dedico al culto della verità. […]
I
MIEI PRIMI VIAGGI
Come
tutto è reso più bello dall’ardore giovanile che spinge
a lanciarsi verso l’avventura e l’ignoto! Com’eri bella,
Costanza, con cui per la prima volta ho solcato il Mediterraneo e poi
il Mar Nero! I tuoi fianchi poderosi, la tua alberatura snella, la tolda
spaziosa, la polena a forma di florido petto femminile, rimarranno per
sempre impressi nella mia memoria. Come seguivano agilmente il tuo rollio
quei marinai sanremesi, vero esempio dei nostri coraggiosi liguri! Con
che gioia mi precipitavo al balcone per udire i loro cori: cantavano d’amore,
e m’intenerivano anche se quel sentimento mi era ancora sconosciuto.
Ah, se avessero cantato di patria, d’Italia, di ribellione, di schiavitù!
Ma chi aveva insegnato loro ad essere italiani, patrioti, capaci di lottare
per la propria dignità? Chi diceva a noi giovani che c’era
l’Italia, una patria da riscattare? Chi? I preti, i nostri unici
maestri?
Fummo educati come gli ebrei e non ci additarono che l’oro come
scopo della vita!
Mia madre, piena di tristezza, mi preparava il necessario per il viaggio
verso Odessa con la Costanza, il brigantino comandato da Angelo Pensante,
di Sanremo, il miglior capitano di mare che io abbia mai conosciuto. […]
Fu appunto il primo di innumerevoli viaggi, tanto che non avrebbe senso
parlarne. Poi andai a Roma, con la Santa Reparata, la tartana di mio padre.
Roma! Allora per me era la capitale del mondo, e oggi la vedo invece come
la capitale della più odiosa delle sette!
La capitale del mondo, con le splendide vestigia di quanto di più
grande ebbe il passato! La capitale di una setta che un tempo era composta
da seguaci del Giusto, del liberatore degli schiavi, del profeta dell’uguaglianza,
benedetto da infinite generazioni, e i cui sacerdoti allora erano gli
apostoli dei diritti umani, e oggi sono dei degenerati, pronti ad ogni
compromesso, vero flagello di un’Italia che hanno venduto allo straniero
settanta volte sette!
No! La Roma che io vedevo da giovane era la Roma dell’avvenire,
a cui mi sono rivolto quando ho fatto naufragio, quand’ero moribondo,
o perso nel folto delle foreste americane! La Roma dell’idea di
riscatto di un grande popolo, quell’idea che ha sempre ispirato
il presente e il passato della mia esistenza, che ha segnato tutta la
mia vita! [...]
Roma è l’Italia. Roma è il simbolo dell’Italia
unita, sotto qualunque sistema la si voglia immaginare. E l’opera
più infernale del papato era appunto quella di tenerla divisa,
moralmente e materialmente.
[...]
CORSARO
Corsaro! Lanciato sull’Oceano con dodici compagni a bordo d’una
garopera, si sfidava un impero e si faceva sventolare, primi in quelle
coste meridionali, una bandiera di libertà! La bandiera repubblicana
del Rio Grande! All’altezza dell’Isola Grande incrociammo
una sumaca e la sequestrammo, mentre il Mazzini, non essendoci un altro
pilota disponibile, fu affondato.
Rossetti era con me, ma non tutti i miei compagni erano dei Rossetti:
voglio dire uomini di saldi principi; anzi, alcuni di essi, che già
avevano un aspetto non troppo rassicurante, facevano il viso ancora più
truce, per spaventare i nemici. Naturalmente io mi sforzavo di calmarli
e di ridurre, per quanto possibile, la paura dei nostri prigionieri. Quando
salii sulla sumaca, un passeggero brasiliano mi si fece incontro con aria
supplichevole e mi offrì una scatola con tre preziosi brillanti:
li rifiutai e ordinai che non venissero toccati gli effetti personali
dell’equipaggio e dei passeggeri. I miei subordinati non trasgredirono
mai questi ordini, nella certezza che su certi argomenti non ero disposto
a transigere.
Prigionieri ed equipaggio furono sbarcati a nord della punta di ItapekoroÎa,
dando loro la lancia della Luisa (questo era il nome della sumaca) in
cui poterono caricare le loro cose e viveri in abbondanza.
Navigammo verso sud e dopo alcuni giorni arrivammo nel porto di Maldonado,
dove la cordiale accoglienza delle autorità e della popolazione
ci furono di buon augurio. Questa località si trova all’imbocco
settentrionale del Rio della Plata ed è importante sia per la sua
posizione sia per il suo discreto porto: lì trovammo una baleniera
francese, e passammo allegramente, da corsari, alcuni giorni.
Rossetti andò a Montevideo per sistemare i nostri problemi ed io
rimasi sulla sumaca per circa otto giorni; a quel punto l’orizzonte
si fece cupo per noi e le cose avrebbero potuto prendere una piega drammatica
se il capo politico di Maldonado fosse stato meno disponibile ed io fossi
stato meno fortunato: questi mi comunicò che, contrariamente alle
mie informazioni, la bandiera riograndense non veniva riconosciuta e che
era giunto un ordine formale d’arresto per me e per la nave. Eccomi
dunque costretto a prendere il mare, col maltempo portato da greco, e
a dirigermi verso l’interno, lungo il Rio della Plata, quasi senza
una destinazione precisa: infatti, avevo appena avuto il tempo d’informare
una persona amica che mi sarei diretto verso la punta di Jesus-Maria,
nei pressi delle scogliere di S. Gregorio, a nord di Montevideo, dove
avrei atteso le decisioni prese da Rossetti e dai nostri amici della capitale.
Arrivammo a Jesus-Maria dopo una faticosa navigazione e avendo rischiato
il naufragio sulla punta di Piedas Negras, a causa di una di quelle circostanze
impreviste da cui dipende spesso l’esistenza. A Maldonado, col rischio
dell’arresto e non potendo contare più di tanto sulla benevolenza
delle autorità locali, mentre ero ancora a terra a sbrigare alcune
faccende avevo dato ordine di sistemare le armi a bordo: così fu
fatto, ma accadde che le armi, tolte dalla stiva, per essere più
a portata di mano furono collocate in un camerino. Salpati di fretta,
a nessuno venne in mente che le armi erano in un punto nel quale avrebbero
potuto influenzare la bussola; per fortuna, dato che non avevo sonno e
che si era alzata la bufera, mi tenevo sottovento del timoniere, cioè
sul lato destro del bastimento, e quindi potevo osservare la costa fra
Maldonado e Montevideo, molto pericolosa a causa dei numerosi scogli.
Era la prima guardia, dalle otto a mezzanotte, e c’erano buio e
tempesta: tuttavia, per un occhio abituato a cercare la terra fra le tenebre,
non era difficile scorgere la costa, tanto più che essa mi pareva
più vicina, nonostante avessi ordinato al timoniere di tenere una
rotta che ci portasse al largo.
"Orza una quarta! Orza un’altra quarta!". Devo aver fatto
orzare più di un intero vento (cioè da quattro a cinque
quarti) ma mio malgrado la costa era sempre più vicina.
Verso mezzanotte la guardia di prua grida "terra". Altro che
terra! In pochi minuti ci trovammo avvolti da orribili frangenti, senza
possibilità di evitare le nere punte degli scogli che affioravano:
il pericolo era enorme, e l’unica via di scampo era precipitarsi
negli spazi vuoti fra gli scogli e cercare un passaggio. Ebbi la fortuna
di non perdere la testa: montai sul pennone di trinchetto e con tutta
la voce dei miei ventotto anni urlai gli ordini per dirigere la nave verso
i punti meno pericolosi e per far eseguire le manovre necessarie. La povera
Luisa era squassata dalla furia del mare, con le onde che si abbattevano
sulla tolda con la stessa violenza con cui colpivano gli scogli.
Uno spettacolo davvero nuovo per me fu vedere molti lupi marini, indifferenti
alla tempeste, aggirarsi attorno alla nave, quasi giocando come tanti
bambini in un prato fiorito. Le loro teste, però, erano nere come
le rocce che ci circondavano, avevano qualcosa di minaccioso, e lo spettacolo
non era certo rassicurante. Chissà che in quelle tetre zucche africane
non ci fosse la prospettiva di un saporito pasto a base di carne umana.
Comunque la consapevolezza del pericolo dominava su tutto il resto, e
fu davvero un caso straordinario poter uscire da quel labirinto senza
danni, dato che il minimo contatto con quelle punte acuminate avrebbe
mandato in frantumi lo scafo.
Come dicevo, arrivammo alla punta di Jesus-Maria, nelle barrancas di S.
Gregorio, a circa quaranta miglia da Montevideo, verso l’interno
del Plata. E solo quel giorno seppi dove erano state collocate le armi.
Alla punta non accadde nulla di nuovo, ed era normale, visto che Rossetti,
ricercato dal governo di Montevideo, aveva dovuto nascondersi per sfuggire
all’arresto e non poteva occuparsi di noi. I viveri scarseggiavano:
non avevamo una lancia con cui sbarcare, eppure bisognava dar da mangiare
a dodici persone.
Avendo scorto una casa a circa quattro miglia dalla costa, decisi di sbarcare
su una tavola e di portare ad ogni costo viveri a bordo. Soffiava il pampero,
il quale, essendo perpendicolare alla costa, rendeva l’approdo particolarmente
arduo, anche con palischermi (piccolissime imbarcazioni): demmo fondo
alle due ancore il più possibile vicino alla costa, ad una distanza
pericolosa ma che in quel momento era indispensabile per arrivare a riva.
Eccomi con un marinaio, Maurizio Garibaldi, imbarcati su di una tavola,
sorretti da due barili e coi vestiti appesi a un’asta, come un trofeo:
su quella nave di nuovo modello non navigavamo, ma ruotavamo nei frangenti
di quella costa inospitale.
Il Rio della Plata circonda lo stato di Montevideo, detto anche Banda
Oriental, alla sua sinistra, e dato che la regione è formata da
colline, più o meno alte, il fiume ne ha eroso la costa e vi ha
formato delle rupi, quasi uniformi, in certi punti altissime. Lo stesso
fiume, sulla destra, lambisce lo stato di Buenos Aires, e vi porta le
sue alluvioni, che con l’andare dei secoli sono andate formando
le immense pianure de las Pampas.
Arrivammo felicemente sulla costa e approdammo con la nostra sconquassata
imbarcazione; lasciato Maurizio a ripararla, mi avviai da solo verso l’abitazione.
[...]
PRIGIONIERO
È singolare che nella mia lunga carriera militare io non sia mai
stato fatto prigioniero, pur essendomi trovato infinite volte in situazioni
pericolosissime. E in quel frangente ovunque andassimo saremmo stati arrestati,
dato che nessuno riconosceva la bandiera del Rio Grande del Sud.
Arrivammo a Gualeguay, paese della provincia di Entre Rios, dove ci furono
di enorme aiuto il capitano Luca Tartabull, della goletta Sintoresca di
Buenos Aires, ed i suoi passeggeri, tutti argentini. Quando incontrammo
questa imbarcazione, alla nostra richiesta di aiuto quella brava gente
si offrì di accompagnarci sino a Gualeguay, dov’erano diretti;
di più, mi raccomandarono al governatore della provincia, Don Pasquale
Echague, e questi, dovendo partire, mi affidò al suo chirurgo,
Don Ramòn dell’Arca, un giovane argentino, il quale mi estrasse
la palla dal collo e mi curò perfettamente.
Per sei mesi rimasi a Gualeguay, ospite di Don Jacinto Andreus, che insieme
ai suoi familiari mi trattò con estrema gentilezza e generosità.
Ma non ero libero! Malgrado tutta la buona volontà del governatore,
e l’affetto della popolazione, non potevo partire senza un preciso
ordine in merito da parte del dittatore di Buenos Aires, che non si decideva
mai.
Guarito, potevo passeggiare e avevo il permesso di fare delle gite a cavallo
entro un raggio di una dozzina di miglia. Potevo contare, oltre al vitto
offertomi generosamente da Don Jacinto, su una modesta diaria: una condizione
di grande benessere per quei paesi, dove tutto era decisamente a buon
prezzo.
Ma tutto questo non valeva la libertà di cui ero privo.
Qualcuno, per amicizia o per la ragione opposta, mi fece capire che al
governo non sarebbe dispiaciuto che io sparissi, e così, incautamente,
decisi di sgombrare, credendo che ciò non sarebbe stato né
molto difficile né gravido di conseguenze, e nemmeno considerato
particolarmente grave.
Il comandante di Gualeguay era un tale Millan. Una sera di brutto tempo
mi avviai verso la casa di un buon vecchio al quale ero solito far visita,
a circa tre miglia dalla città: lo informai della mia decisione
e gli chiesi di cercarmi una guida che coi propri cavalli mi potesse portare
fino all’Ibicuy, dove speravo di poter trovare un’imbarcazione
che mi portasse di nascosto a Buenos Aires o a Montevideo. Trovati sia
la guida che i cavalli, ci avviamo attraverso i campi, per non essere
scoperti. Dovevamo percorrere cinquantaquattro miglia, che al galoppo
divorammo nella notte. All’alba eravamo in vista dell’Ibicuy,
a quattro miglia dall’estancia con lo stesso nome; la guida mi disse
di aspettarlo nel bosco mentre lui sarebbe andato alla fattoria per raccogliere
informazioni. Smontai da cavallo e lo legai a una delle acacie di cui
in genere sono formati quei boschi, che peraltro sono piuttosto radi,
tanto che ci si può cavalcare agevolmente; me ne stetti ad aspettare,
sdraiato, ma a un certo punto, vedendo che la guida non ricompariva, mi
avviai a piedi verso il limitare del bosco; d’improvviso sentii
dietro di me uno scalpitare di cavalli e vidi un drappello di cavalieri
che con la sciabola sguainata mi si avventavano contro: erano ormai fra
me e la mia cavalcatura e quindi era inutile tentare di fuggire o anche
di resistere.
Mi misero su di un ronzino, legandomi le mani dietro la schiena e i piedi
alla pancia dell’animale, e mi portarono a Gualeguay dove mi aspettava
un trattamento ancora peggiore. Rabbrividisco ancora ripensando a quei
brutti momenti. Il comandante Millan mi stava aspettando sulla porta della
prigione e quando gli fui davanti mi chiese chi avesse collaborato alla
mia fuga: resosi conto che non gli avrei detto nulla, cominciò
a colpirmi brutalmente con la frusta che teneva in mano e dato che continuavo
a tacere ordinò di far passare una fune su una trave della prigione
e di tenermi appeso per le mani.
Due ore di tortura mi fece subire quel maledetto! Sofferenze che non si
possono descrivere. [...] Quando mi sciolsero non mi lamentavo più,
ero come un cadavere, e così mi misero i ceppi. [...]
Dopo pochi giorni fui condotto alla capitale della provincia, Bajada,
dove rimasi in prigione per due mesi; poi il governatore mi lasciò
libero. [...]
[...]
NAUFRAGIO
Pronti per la partenza, aspettammo l’ora della piena e verso le
quattro del pomeriggio salpammo. In quell’occasione ci fu molto
utile la pratica nello spingere le imbarcazioni tra le onde, altrimenti
non so come avremmo potuto mettere in acqua i lancioni perché,
pur avendo atteso l’alta marea, la profondità dell’acqua
non era sufficiente. Comunque mentre cominciava a far notte i nostri sforzi
furono premiati e gettammo l’ancora nell’Oceano, al di là
dei furiosi frangenti, a circa seicento metri dalla costa. E si badi che
nessun tipo d’imbarcazione era mai uscita dal Tramanadai.
Verso le otto partimmo con una buona brezza da sud, che andò aumentando
fino a diventare vera e propria bufera, tanto che alle tre del pomeriggio
seguente facevamo naufragio nei pressi dell’imboccatura del fiume
Averinguà, con sedici marinai dispersi e col Rio-pardo, che comandavo
io, distrutto. Vista la pericolosa situazione in cui si trovava il piccolo
legno, che rischiava, da un momento all’altro, di essere sopraffatto
dalle onde e di venir rovesciato, decisi di avvicinarmi alla costa ed
approdare ad ogni costo. Ma il mare e la tempesta infuriavano sempre più,
non ci diedero modo di scegliere il punto adatto e fummo travolti da un
terribile maroso: in quel momento mi trovavo in cima all’albero
di trinchetto, con la speranza di individuare un approdo non troppo pericoloso,
e quando il legno si rovesciò sulla destra fui lanciato in quella
direzione. Ricordo bene che, malgrado l’estremo pericolo, non pensai
alla morte ma, preoccupato del fatto che molti dei nostri non erano marinai
e non erano avvezzi alle bufere, mi diedi da fare per raccattare remi
ed altri pezzi di legno, esortando tutti a prenderne uno per tenersi a
galla ed aiutarsi a guadagnare la riva; il primo che incontrai, aggrappato
a una sartia sul lato sommerso dell’imbarcazione, fu il mio vecchio
amico Edoardo Mutru, e gli passai un boccaporto, raccomandandogli di non
farselo sfuggire per nessuna ragione.
Luigi Carniglia, il valoroso nostromo che era al timone al momento della
catastrofe, era rimasto aggrappato al bordo, verso i giardini di sinistra,
cioè sul fianco non coperto dal mare; per cattiva sorte un giaccone
di calmouk, tutto imbevuto d’acqua, lo appesantiva pericolosamente,
ma non riusciva liberarsene perché aveva le mani impegnate a reggersi,
per non essere portato via dalle onde. Mi fece un gesto e corsi in aiuto
dell’amico del cuore: in una tasca dei pantaloni avevo un piccolo
coltello dal manico bianco e lo presi cominciando a tagliare con tutta
la forza di cui ero capace il colletto di velluto del giaccone; avevo
quasi finito quando un maroso, con un fracasso orrendo, travolse il bastimento
e tutti quelli che vi erano aggrappati.
Fui scaraventato sott’acqua come un proiettile e quando riemersi,
stordito dal colpo e dalle onde che mi soffocavano, il mio sfortunato
amico era scomparso per sempre.
Alcuni dei compagni risultavano dispersi e gli altri cercavano a tutti
i costi di raggiungere la riva: ed anch’io dovetti fare lo stesso,
per salvare la pelle. Nuotavo da quand’ero bambino, quindi arrivai
a terra fra i primi, e appena posai i piedi sul solido la mia prima preoccupazione
fu quella di girarmi indietro per vedere cosa succedeva ai miei compagni.
Edoardo comparì non lontano: aveva mollato il boccaporto che gli
avevo dato, o, più probabilmente, la violenza del mare gliel’aveva
strappato di mano; nuotava, sì, ma con una fatica enorme, che rivelava
lo stato di sfinimento in cui era ridotto! Lo amavo come un fratello e
la sua situazione disperata mi angosciava: forse allora ero più
sensibile e generoso, poi gli anni e i malanni induriscono il cuore!
Mi slanciai verso l’amico per passargli il pezzo di legno che mi
aveva tenuto a galla: gli ero già arrivato vicino e, spronato dalla
gravità del momento, ero certo che l’avrei salvato! Che fortuna
sarebbe stata per me! Una fortuna troppo grande! Un’ondata ci sommerse
entrambi; un attimo dopo riemersi, e chiamai, chiamai disperatamente non
vedendolo ricomparire, ma invano. L’amico era stato travolto dall’Oceano,
che egli non aveva esitato ad attraversare per servire la causa della
libertà.
Altri sedici compagni seguirono la sua sorte e furono ingoiati dal mare.
I cadaveri furono trasportati dalle correnti a trenta miglia di distanza,
verso nord, e là furono seppelliti, sulla riva. Fra costoro c’erano
sei dei sette italiani, solo io mi ero salvato. Luigi Carniglia, Edoardo
Mutru, Luigi Staderini, Giovanni D. ed altri due di cui non ricordo il
nome: tutti giovani, forti e coraggiosi.
I superstiti, quattordici in tutto, uno dopo l’altro avevano raggiunto
la riva, e inutilmente cercai fra loro un italiano. Tutti morti! Mi sembrava
di essere rimasto solo al mondo! Deliravo, la mia vita, salvata con tanto
sforzo, mi pareva insopportabile. [...]
Camminammo, camminammo come macchine lungo la costa, verso sud, incoraggiandoci
a vicenda. La fascia costiera ci riparava dalla furia del vento e verso
l’interno scorreva l’Areringuà, un fiume di poca importanza
che per un lungo tratto scorreva in direzione nord, parallelo al litorale,
per sfociare poi nell’Oceano a breve distanza: seguimmo dunque la
sponda destra del fiume e dopo quattro miglia trovammo una casa, dove
ricevemmo completa ospitalità. [...] Per i naufraghi fu una meravigliosa
sorpresa!
[...]
INNAMORATO
Il generale Canabarro mi ordinò di uscire dalla laguna con tre
legni armati, per attaccare le truppe imperiali sulle coste del Brasile,
e quindi mi preparai per la missione approntando tutto quanto era necessario.
Fu allora che avvenne uno dei fatti decisivi della mia vita.
Non avevo mai pensato al matrimonio, al quale non mi ritenevo adatto,
visto il mio carattere troppo indipendente ed il mio spirito d’avventura.
Avere una moglie, dei figli, mi pareva del tutto fuori luogo per chi si
era dedicato interamente a una causa sicuramente degnissima ma che, per
essere servita con la dedizione di cui mi sentivo capace, non mi avrebbe
certo consentito la quiete e la stabilità necessarie a un padre
di famiglia.
Ma il destino volle diversamente.
Con la perdita di Luigi, Edoardo e gli altri, ero rimasto tremendamente
solo. Non c’era più nessuno di quei tanti amici che erano
un po’ la mia patria in quei lontani paesi. Non c’era alcuna
familiarità coi nuovi compagni, che conoscevo appena; niente amici,
dei quali ho sempre sentito il bisogno. La situazione, poi, era cambiata
in modo così orribile e inaspettato che ne ero rimasto sconvolto.
Rossetti, l’unico che avrebbe potuto colmare quel vuoto, era lontano,
impegnato nel governo del nuovo Stato repubblicano, quindi mi era impossibile
godere della sua fraterna compagnia. Avevo bisogno di un essere umano
che mi amasse, subito!, che mi stesse vicino, altrimenti l’esistenza
mi sarebbe stata insopportabile.
Una donna, sì, una donna! L’ho sempre considerata la più
perfetta fra le creature, e, checché ne dicano, è molto
facile trovare un cuore femminile disposto all’amore.
Passeggiavo sul cassero dell’Itaparica, perso nei miei cupi pensieri:
dopo ragionamenti fra i più vari, decisi finalmente di trovare
una donna, per uscire da quella mia triste e insopportabile condizione.
Per caso posai lo sguardo verso le case della Barra: così si chiamava
una collina piuttosto alta, all’ingresso della Laguna, nella parte
meridionale, sulla quale vi erano alcune pittoresche e semplici abitazioni.
Là, col cannocchiale che abitualmente tenevo a portata di mano
quand’ero sul cassero, vidi una giovane e ordinai che mi portassero
a terra, in quella direzione. Appena sbarcato mi diressi dove avrebbe
dovuto trovarsi la meta del mio viaggio, ma non trovai nulla; per caso
incontrai un abitante del luogo, che avevo conosciuto subito dopo l’arrivo
in città, ed egli m’invitò a prendere un caffè
a casa sua: entrammo e la prima persona che vidi era proprio la donna
che mi aveva spinto a sbarcare. Era Anita. La madre dei miei figli! La
compagna della mia vita, nella buona e nella cattiva sorte! La donna il
cui coraggio ho così spesso invidiato! Restammo entrambi affascinati,
e in silenzio, guardandoci come persone che non si vedono per la prima
volta e che cercano sul viso dell’altra qualcosa che aiuti a ricordare.
Finalmente la salutai e le dissi: "Devi essere mia." Parlavo
poco il portoghese e pronunciai in italiano queste parole impertinenti.
Comunque la mia insolenza fu magnetica: avevo stretto un nodo, pronunciato
una sentenza, che solo la morte potevano distruggere! Avevo trovato un
tesoro segreto, un tesoro inestimabile!
Se vi fu colpa, fu interamente mia. E vi fu colpa, sì! Due cuori
si univano in un amore infinito, e si annientava l’esistenza di
un innocente! Ora lei è morta! Io sono infelice e lui è
vendicato, sì, vendicato! Capii il male che avevo fatto solo il
giorno in cui, sperando ancora che lei fosse viva, mi trovai a stringere
il polso di un cadavere, piangendo disperato. Camminai a lungo, e camminai
solo!
[...]
L’ASSEDIO
DI MONTEVIDEO
Era il 13 febbraio 1843: le fortificazioni della città erano appena
state ultimate, restavano da piazzare solo pochi cannoni, quando sulle
alture vicine apparve l’avanguardia nemica. Il generale Rivera,
alla testa della cavalleria, non aveva forze sufficienti per contrastarlo
e quindi, apertosi un varco, si era lanciato verso la campagna, aggirando
il fianco sinistro del nemico e piazzandosi dietro di esso. Una manovra
del genere può riuscire in un paese in cui ogni uomo è un
provetto cavaliere e dove, essendo la carne l’alimento principale,
non servono tutti i vettovagliamenti indispensabili nelle guerre europee.
Rivera, poi, se non era un gran generale nelle battaglie campali, era
un maestro negli stratagemmi tipici della guerriglia, e quel suo spostamento
lo metteva di nuovo in condizione di impensierire notevolmente il nemico.
Paz restava al comando delle forze della capitale, forze numerose ma in
gran parte composte da reclute inesperte, e non si può che ammirare
la bravura del generale nell’essere riuscito a organizzarle e a
guidarle in battaglia.
Naturalmente non mancarono codardi e traditori: Vidal aveva rubato la
cassa dell’erario ed era fuggito; il capo della polizia era passato
al nemico insieme a vari ufficiali ed impiegati; un corpo di mercenari
aveva defezionato; e anche singole persone avevano disertato.
Le cose, insomma, non si mettevano molto bene, e non ho mai capito perché
Ourives, che pure veniva informato dalle sue spie, non ne abbia approfittato
per attaccare subito: si limitò a semplici scaramucce, che servirono
soltanto ad agguerrire i nostri inesperti soldati.
Nel frattempo andavano armandosi ed organizzandosi i contingenti stranieri:
comunque si sia valutato lo spirito che animava la legione francese e
quella italiana, non si può negare che fu l’effetto di uno
slancio generoso, mirato a respingere l’invasione della terra che
aveva dato loro asilo. Che in seguito al loro interno si siano infiltrati
individui spinti da interessi personali è certamente vero, in ogni
caso quei corpi armati, se non furono decisivi, valsero almeno a garantire
la sicurezza della città. I francesi, più numerosi di noi
e più attratti dal prestigio della vita militare, in breve tempo
furono in 2600; gli italiani si riunirono circa in 500, e, malgrado sembrino
pochi rispetto al totale dei connazionali sparsi in quel paese, non avrei
mai immaginato che sarebbero stati così numerosi, considerando
quelle che sono le abitudini e la cultura della nostra gente: quel quantitativo
in seguito aumentò, ma non oltrepassò mai i 700.
Approfittando dell’aumento delle forze regolari, il generale Paz
collocò una linea esterna di difesa, distante dalle mura più
o meno un tiro di cannone: da quel momento il sistema difensivo fu permanente
ed il nemico non fu più in grado di avvicinarsi alla città.
Dovendo io comandare la flottiglia, proposi come comandante della legione
italiana un certo Angelo Mancini, di infame memoria. |