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febbraio 2005
Il PIANO TERRITORIALE PROVINCIALE E I SUOI POSSIBILI STRUMENTI ATTUATIVI
dott. Maria Carla Baroni Responsabile Territorio e ambiente PdCI Lombardia
Il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP): nascita e caratteristiche fondamentali.
Il PTCP è l’unico strumento complessivo di pianificazione del territorio previsto dallo ordinamento giuridico italiano ed è stato introdotto dalla legge 142/1990, dopo decenni di discussioni e dibattiti sul ruolo delle province e sulla necessità o meno della loro stessa sopravvivenza (anche personaggi di grande valore politico come Palmiro Togliatti e Ugo La Malfa ne propugnavano l’abolizione, in quanto ente “inutile”, basandosi sulle loro poche e frammentate competenze come previste dalla normativa dell’epoca).
Per fortuna la Provincia si salvò e riuscì a sopravvivere anche all’esperienza (temporanea) dei comprensori, aggregazioni sovraccomunali e interprovinciali i cui organismi non erano democraticamente eletti ma nominati, e, in anni assai vicini, pure alle tentazioni abolizionistiche della Commissione Bicamerale di Massimo D’Alema.
La Provincia si salvò e dico per fortuna, in quanto tale istituzione rappresenta il livello intermedio tra la Regione, troppo grande come territorio e troppo lontana dai bisogni della popolazione, e il Comune, vicino sì alla popolazione, ma troppo piccolo perché nel suo solo ambito si possano affrontare le molte questioni poste dall’espansione economica, edilizia e infrastrutturale verificatasi dagli anni ’50 in poi solo in base a singoli interessi privati e dalle conseguenze nefaste di questa espansione incontrollata sul consumo di suolo e sul degrado dell’ambiente.
Con la legge 142/1990, che fu merito della sinistra e che contiene il nuovo ordinamento degli enti locali rispetto alla legge comunale e provinciale del 1919, si portò a compimento un’altra operazione fondamentale: la trasformazione della Provincia da ente settoriale e limitato (si occupava delle strade provinciali, dell’assistenza psichiatrica e di poco altro) a ente intermedio complessivo, a vero e proprio livello di governo del territorio, titolare di competenze in pressoché tutti i settori. Tali competenze le sono state in parte attribuite direttamente ed esplicitamente dalla legge 142 e da altre leggi statali e regionali e in parte dipendono dal fatto che, essendo il territorio il contenitore di tutte le attività umane, l’ente che deve elaborare il piano territoriale deve in qualche modo occuparsi di tutte le attività che si svolgono su tale territorio e che incidono su di esso. La Provincia deve inoltre coordinare i Comuni e dar loro assistenza tecnico-amministrativa e concorrere al programma regionale di sviluppo e agli altri programmi e piani (di settore) della Regione: e così il cerchio delle competenze si completa e si chiude.
Torniamo ora al piano territoriale provinciale come strumento complessivo di pianificazione del territorio.
Complessivo significa che riguarda tutte le possibili forme di tutela e di uso del territorio, mentre i piani settoriali riguardano un solo settore (piano della viabilità, dei trasporti, energetico, paesistico, piano di bacino idrografico, piano di risanamento delle acque, piano territoriale di un parco, piano cave, piano consortile per l’edilizia economica e popolare, ecc.).
È l’unico strumento complessivo di pianificazione territoriale di area vasta, cioè per aree più vaste del livello comunale o sovraccomunale, e cioè per aree corrispondenti alle province.
Si è parlato in passato, e si parla ancora, di “piani territoriali regionali”, ma le regioni italiane (tranne la Valle d’Aosta, il Friuli, il Molise e la Basilicata) sono troppo estese, popolate, costruite e differenziate al loro interno, dal punto di vista geografico-ambientale come da quello degli insediamenti e delle attività umane, perché sia tecnicamente possibile e politicamente opportuno elaborare a livello regionale dei veri piani, cioè degli strumenti che facciano scelte riguardo all’uso del territorio e che siano giuridicamente capaci di renderle vincolanti. Senza prescrizioni vincolanti non si hanno piani, ma documenti direttori ovvero documenti di indirizzo.
Il PTCP, beninteso, contiene anche indirizzi, rivolti a piani (di settore e d’area), programmi, azioni successive, proprie e di altri soggetti, in quanto il PTCP è uno strumento complesso, che innesca processi da governare con una molteplicità di strumenti attuativi.
La legge 142/1990 prevede poi il raccordo tra gli atti di pianificazione dei tre livelli di governo del territorio ricondotti così a sistema coerente: il PTCP, prima dell’approvazione da parte della Provincia, è trasmesso alla Regione perché ne sia verificata la compatibilità con gli indirizzi regionali; e la Provincia, infine, ha il compito di accertare la compatibilità degli strumenti di pianificazione comunali con le previsioni del PTCP.
La fluida situazione lombarda
Prima di approfondire il discorso sul PTCP occorre dire che in Consiglio regionale è in fase di approvazione il progetto di legge 351 di iniziativa della giunta “Legge per il governo del territorio”, che trasforma il PTCP, pur continuando a chiamarlo piano territoriale provinciale, da vero e proprio piano ad “atto di indirizzo della programmazione socio-economica della provincia”.
Anche lo strumento che viene chiamato “piano territoriale regionale” costituisce “atto fondamentale di indirizzo, agli effetti territoriali, della programmazione di settore della Regione”, il quale definisce “i criteri e gli indirizzi per la redazione degli atti di programmazione territoriale di province e comuni”.
La pianificazione, insomma, scompare ai livelli sovraccomunali, così come scompare negli articoli dedicati a ben tre strumenti comunali, pur chiamati, per buttar fumo negli occhi, “piani”.
Se a ciò si aggiunge il fortissimo ridimensionamento territoriale già operato nei confronti dei grandi parchi regionali, non si può che concludere che è saltato il sistema di regole a garanzia dell’interesse collettivo centrato sulla pianificazione; si lascia mano completamente libera ai grandi interessi immobiliari e finanziari nell’ulteriore distruzione dell’ambiente e nell’ulteriore sfruttamento di un territorio che è ormai, in Lombardia, una risorsa scarsissima (in provincia di Milano il territorio artificializzato è il 36% e in provincia di Varese, pur in presenza anche di zone collinose e montane, è del 29%).
Proprio in quanto il territorio è una risorsa tanto scarsa e proprio in quanto più territorio si destina a un certo uso e meno territorio è disponibile per altri usi, le scelte riguardanti in prima battuta la tutela di parti consistenti del territorio ( parchi, paesaggio, sponde dei fiumi, territorio agricolo) e poi l’uso del resto del territorio, scegliendo tra i possibili usi che se ne possono fare (abitativo, industriale, commerciale, per infrastrutture di mobilità, per servizi e funzioni pubbliche) devono rimanere in mano pubblica: per le ricadute determinanti che le scelte pianificatorie hanno sulle condizioni di vita: sulla salute, sui tempi di trasporto, sulla qualità dell’ abitare, ecc.
La distruzione del sistema di regole che riguardano la pianificazione è resa ancora più grave dalla continua diminuzione delle risorse finanziarie che lo Stato passa ai Comuni, per cui i Comuni, attanagliati dalla mancanza di denaro con cui far fronte anche ai servizi primari, saranno quasi costretti ad accettare qualunque nuova costruzione, specie se grande, pur di incassare gli oneri di urbanizzazione.
Parlo di situazione “fluida” perché l’attuale giunta Formigoni non avrà i tempi tecnici per rendere operativa questa sua legge prima delle elezioni di inizio aprile e a me pare che tutti e tutte noi dobbiamo trarre, anche da quanto è avvenuto e sta avvenendo in merito alla distruzione del territorio ( oltre che da quanto è avvenuto nella distruzione della sanità pubblica e della scuola pubblica), slancio e determinazione per una campagna elettorale che porti alla vittoria del centrosinistra.
La prima cosa da fare, poi, sarà abrogare la legge della destra e metter mano a una vera legge per un vero governo del territorio, che consenta di fare buoni piani, cioè piani che tutelino il territorio e l’ambiente e che migliorino, quindi, il nostro ben-essere.
Qualche altro elemento inerente il PTCP in base alla legge 142/1990 e ad altre leggi statali e regionali
Intanto la legge 142/1990 (Ordinamento delle autonomie locali), poi confluita nel decreto legislativo 267/2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), è ancora viva e vegeta (almeno finora), anche se di fatto abrogata, in Lombardia, dalla legge dell’attuale giunta; possiamo dunque continuare a ragionare in base ad essa, anche per trarre, dalle esperienze fatte e dal dibattito fra noi, spunti per migliorare il fondamentale strumento della pianificazione territoriale.
Solo dopo le elezioni, e in base al loro risultato, potremo decidere come continuare il nostro impegno: se con una nuova legge oppure con attività di resistenza/interpretazione dal punto di vista giuridico e urbanistico per un verso e di lotta politica nel territorio per l’altro.
Secondo l’art. 20 del decreto legislativo 267/2000 la Provincia, ferme restando le competenze dei Comuni e in attuazione della legislazione e dei programmi (non dei piani!) regionali, predispone e adotta il PTCP, che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica:
- le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti;
- la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione;
- le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica e idraulico-forestale e, in genere, per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;
- le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali.
Il sesto comma dice poi che “gli enti e le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle rispettive competenze, si conformano ai piani territoriali di competenza delle Province e tengono conto dei loro programmi pluriennali.”
Tutto ciò va visto alla luce dei compiti della Provincia quali: la difesa del suolo; la prevenzione delle calamità; la tutela e la valorizzazione dell’ambiente sia nel suo complesso, sia, in particolare, delle risorse idriche ed energetiche; il rilevamento, la disciplina e il controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche e sonore; l’organizzazione dello smaltimento dei rifiuti; la protezione della flora e della fauna, i parchi e le riserve naturali; la valorizzazione dei beni culturali.
La legislazione regionale (L.R. 1/2000) rincara (giustamente!) la dose attribuendo al PTCP il valore, e quindi i compiti, di piano paesistico provinciale.
Tutto ciò significa: 1) che il PTCP deve essere elaborato proprio a partire dalla difesa del suolo e dalla tutela del paesaggio: solo dopo possono venire le scelte infrastrutturali e insediative; 2) che la pianificazione provinciale deve essere, contemporaneamente, territoriale e ambientale; e 3) che enti come l’ANAS e le FFSS devono conformarsi, nei loro tracciati, piani e programmi, al PTCP (con problemi enormi di coordinamento per opere sulle lunghe distanze, ma per questo è previsto lo strumento dell’accordo di programma tra enti pubblici). Quest’ultima norma è tanto importante quanto disattesa: è fondamentale perché anche le scelte relative alle grandi infrastrutture di mobilità sono state sempre operate da enti settoriali (Anas, Società Autostrade, FFSS) e, anche se sono passate attraverso accordi di programma comprendenti enti pubblici territoriali, sono rimaste estranee a una visione complessiva di governo del territorio.
Mi preme ricordare che anche la legge 183/1989 per la difesa del suolo e delle acque contempla la Provincia tra i soggetti cui spetta operare per tale tutela, e che tra le attività di tutela delle acque sono espressamente previsti “provvedimenti per la trasformazione dei cicli produttivi industriali e il razionale impiego di concimi e pesticidi in agricoltura”.
La legge regionale 14/1999 sul commercio stabilisce inoltre che “i piani territoriali di coordinamento definiscono disposizioni in materia di grandi strutture di vendita tenuto conto degli obiettivi indicati dal programma triennale regionale”, il quale riguarda gli indirizzi generali per l’insediamento delle attività commerciali. Questa norma è generale: sta alla volontà politica e alle capacità politico-tecniche della Provincia darle un contenuto più o meno pregnante.
Ci sono infatti due scuole di pensiero rispetto ai contenuti del PTCP: una che lo vuole strumento “leggero”, che si occupi solo di parchi, ambiente, principali infrastrutture di mobilità e telematiche; e l’altra che di occupi anche: 1) di come sono distribuite sul territorio le varie costruzioni (se accentrate e raccolte oppure disperse); delle modalità e dimensioni in cui sono distribuite sul territorio l’industria, la grande distribuzione commerciale, l’agricoltura; la collocazione e la tipologia di eventuali nuovi quartieri residenziali; gli interventi di riqualificazione urbana e ambientale di portata sovraccomunale; la localizzazione e le dimensioni di grandi opere, impianti, funzioni e servizi con un bacino di utenza o sovraccomunale o di area vasta (che può essere anche più ampia dell’ambito provinciale), come la Fiera di Milano, gli aeroporti, i grandi ospedali, i grandi complessi scolastici, i depuratori delle acque, gli impianti di smaltimento dei rifiuti e di produzione dell’energia, ecc.
Alla realtà lombarda, sia a quella di pianura (massicciamente costruita e ambientalmente degradata), sia a quella di montagna e collina (soggetta al dissesto idrogeologico), e a una visione di sinistra attenta agli interessi collettivi, conviene, con tutta evidenza, il secondo approccio.
Anzi, a me pare che quando potremo noi scrivere una legge per il governo del territorio, dovremo rendere inequivocabilmente più efficace il piano territoriale-ambientale provinciale, attribuendogli, ad es., maggiori poteri in merito agli insediamenti produttivi, come fa ad es. la legge regionale 14/1999 dell’Emilia Romagna in merito alla grande distribuzione commerciale.
Il rapporto tra Provincia e Comuni in materia di territorio e ambiente
Da tutto quanto detto emerge la fondamentale importanza del PTCP rispetto agli strumenti urbanistici dei singoli Comuni, per quanto grandi e importanti essi siano: il PTCP avrebbe dovuto essere introdotto, nella legislazione e nell’operatività politico-professionale, insieme al piano regolatore comunale, in quanto, dal punto di vista dell’efficacia, dovrebbe essere elaborato prima dei singoli piani comunali.
Così non è stato, ci sono voluti decenni di lotte culturali e parlamentari della sinistra per ottenere i PTCP, e, a maggior ragione, bisogna far di tutto, oggi, per contenere il danno.
Lo sfascio del territorio in Italia è figlio, infatti, sia della voracità degli interessi immobiliari e finanziari privati, sia di una legislazione che, dal 1942 al 1990, è stata imperniata quasi esclusivamente sul piano regolatore. È vero che, con varie leggi, sono stati via via introdotti piani settoriali di area vasta a tutela del territorio e dell’ambiente, ma lo strumento “che conta”, l’unico veramente usato, è sempre stato il PRG, con cui i Comuni hanno operato come isole in regime di autarchia, infischiandosene del contesto territoriale più ampio e delle ricadute delle loro scelte.
Quasi tutti i Comuni, anche se governati dalla sinistra, hanno voluto, a suo tempo, le zone industriali lontane dai propri abitati, scaricando sul Comune confinante inquinamento, fumi, puzza e rumore e senza prevedere impianti di depurazione; quasi tutti hanno voluto, in tempi più recenti, il centro commerciale o altra struttura della grande distribuzione, salvo accorgersi poi della congestione e dell’inquinamento da traffico e della desertificazione dei centri abitati che si tiravano in casa e che appioppavano anche ai Comuni vicini, i quali, oltre a tutto, non avevano nè deciso il centro commerciale, né incassato i relativi oneri di urbanizzazione…
Noi della sinistra siamo stati sempre abituati a considerare il Comune come un’entità intoccabile, da valorizzare sempre e comunque: bisogna convincersi invece che, se vogliamo salvare il salvabile dal punto di vista del territorio e dell’ambiente, dobbiamo entrare nell’ordine di idee che i Comuni devono perdere un po’ del loro “potere” sul proprio territorio, che va trasferito a un livello di governo intermedio tra Comuni e Regione quale è la Provincia, e che però, così facendo, i singoli Comuni acquistano anche un po’ di “potere” su un territorio ben più ampio, quello provinciale, in quanto partecipano alla pianificazione territoriale-ambientale e alla programmazione socioeconomica provinciale.
I Comuni devono quindi partecipare, singolarmente o, meglio ancora, aggregati nei Circondari e negli enti di gestione dei parchi, alla pianificazione provinciale, perché i processi complessi danno risultati positivi e duraturi solo se sono basati su scelte condivise; ma le scelte di area vasta sono di competenza della Provincia, alla quale spetta, nella logica della legge 142/1990, sia valutare se i singoli piani regolatori comunali sono compatibili con proprio piano territoriale, sia approvare questi ultimi quando compatibili o dopo che sono stati resi compatibili.
In pratica occorre trovare, con grande capacità politica e pianificatoria sia da parte della Provincia sia da parte dei Comuni, il punto di equilibrio tra le esigenze di razionalità nel localizzare ciò che serve dove è meglio localizzarlo e le esigenze locali, oppure la capacità di individuare, Provincia e Comuni insieme, soluzioni alternative o compensative (nessun Comune vuole l’impianto di smaltimento dei rifiuti o la centrale elettrica…).
Quando il punto di equilibrio non si trova, rimane il successivo ricorso al contenzioso, che rappresenta lo scacco della politica e lo scacco della pianificazione.
La necessità di strumenti attuativi del Piano territoriale provinciale
Il PTCP è strumento fondamentale già di per sé per contenere l’ulteriore degrado territoriale e ambientale e per riqualificare i contesti degradati; ad es. quando interviene correttamente in materia di parchi e di viabilità e trasporti; quando prescrive la rinaturazione -invece che la cementificazione- delle sponde dei fiumi; quando impedisce lo spreco di nuovo suolo evitando nuove costruzioni non socialmente indispensabili in aree agricole; quando fornisce studi e indirizzi per la riconversione ecologica dell’industria e dell’agricoltura, ecc.
Ma il PTCP ha bisogno, per poter dispiegare tutta la sua efficacia, di strumenti attuativi, che possono essere di vario tipo: ad es: piani d’area (o provinciali o regionali ma con la partecipazione
delle Province interessate), che prevedono una pianificazione più dettagliata e programmi attuativi intersettoriali in aree particolarmente complesse e/o con caratteristiche specifiche (ad es. il piano d’area per Malpensa e il piano d’area della Brianza milanese); piani di settore provinciali, che specificano e organizzano in dettaglio settori di intervento (ad es. piano cave, piano dei trasporti, piano casa, ecc.); programmi attuativi di settore, riguardanti tutto il territorio provinciale o alcune sue parti, come programmi di interventi operativi per la riconversione ecologica delle attività industriali e agricole; programmi per la valorizzazione del commercio al minuto e il contenimento della grande distribuzione (programmi commerciali d’area), e così via.
Strumenti e processi attuativi di nuovo tipo
Oltre a questi strumenti tradizionali possiamo considerare strumenti attuativi del PTCP, o, meglio, di un piano che chiamerei territoriale-ambientale per sottolineare la direzione verso cui devono marciare tutte le scelte di piano, anche strumenti e processi di nuovo tipo che generalmente consideriamo a sé stanti e che invece possono integrare, arricchire, rafforzare e concretizzare le scelte di fondo contenute nello strumento complessivo della pianificazione provinciale. Questi strumenti innovativi, che offrono grandi opportunità, rischierebbero di ingenerare confusione se non fossero ricondotti a una visione d’insieme entro un quadro di pianificazione di area vasta che superi le angustie del “locale”.
Le caratteristiche comuni a questi processi e strumenti di nuovo tipo mi paiono essere: 1) un livello di coinvolgimento e di partecipazione concreta alle scelte da parte di una miriade di soggetti sociali, economici, culturali, ben più elevato di quello che è possibile attivare mediante le consultazioni che possono essere effettuate in alcune fasi di elaborazione dei piani provinciali; e 2) una dimensione territoriale più contenuta dell’ambito provinciale, una dimensione “locale” che non vuole essere “localistica” , indifferente o, peggio, chiusa o addirittura ostile a tutto quanto non vi appartiene, ma una dimensione che consenta una maggiore concretezza ed efficacia alle realizzazioni, una maggiore possibilità di conoscenza e di partecipazione da parte della popolazione e una valorizzazione di caratteristiche e specificità locali che servono a contrastare, a livello psicologico, l’omologazione, l’estraniamento, lo spaesamento e la perdita di identità, e, a livello collettivo, la perdita di risorse produttive e culturali causata dalla globalizzazione; questa valorizzazione, che mira a recuperare o a ripristinare l’identità dei luoghi, può essere attuata anche accogliendo modalità e soggetti provenienti da altre culture e altri paesi.
Si tratta dell’approccio comune, non a caso, al movimento delle donne e all’ambientalismo, secondo cui occorre “pensare globalmente e agire localmente”.
Prima di accennare a questi processi, di cui il più noto è quello delle Agenda 21 locali, desidero sottolineare che il loro substrato culturale è già presente, in qualche modo, nella legge 142/1990, ad es. quando dice che il PTCP indica le diverse destinazioni del territorio provinciale “in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti” e poi quando prescrive che ciascun territorio provinciale debba avere dimensioni tali, come abitanti e attività produttive, “da consentire una programmazione dello sviluppo che possa favorire il riequilibrio economico, sociale e culturale del territorio provinciale”.
Le Agenda 21 locali
L’Agenda 21 (letteralmente “le cose da fare nel ventunesimo secolo”) fa parte degli atti emersi dalla Conferenza sull’ambiente e sullo sviluppo organizzata dalle Nazioni Unite a Rio De Janeiro nel settembre 1992, insieme alla Dichiarazione di Rio, alle convenzioni sul clima e sulla biodiversità e a una dichiarazione di intenti sulle foreste.
Mentre la Dichiarazione di Rio è costituita da una serie di 27 principi ritenuti fondamentali per affrontare in modo integrato i problemi ecologici ed economici a livello globale, l’Agenda 21 è un programma di sviluppo sostenibile del pianeta, articolato in 40 capitoli che indicano, con un dettaglio notevole, sia gli obiettivi concreti dello sviluppo ambientalmente e socialmente sostenibile, sia le modalità e gli strumenti per raggiungerli, una stima degli investimenti necessari per realizzare il programma nei paesi del Sud del mondo e la quota a carico dei paesi sviluppati.
Il concetto di sviluppo sostenibile era stato enunciato nell’ambito del Rapporto della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo presieduta dalla prima ministra norvegese Gro Harlem Brundtland denominato “il futuro di noi tutti” e conosciuto come Rapporto Brundtland (1987): lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri. È un concetto che esprime la massima solidarietà sia all’interno delle generazioni attuali (e si parla perciò di sviluppo socialmente sostenibile), sia nel tempo (sviluppo ambientalmente sostenibile) e che va concretizzato con piani, programmi e azioni a tutti i livelli.
(Una definizione un po’ più concreta di sviluppo sostenibile è quella di uno sviluppo che, sul versante ambientale, sfrutta le risorse naturali a livelli non superiori alla capacità di rigenerazione – naturale o controllata- delle risorse stesse, integrando ecologia ed economia nelle scelte a ogni livello, e che, sul versante sociale, attua una equa redistribuzione di tutte le risorse - anche culturali e di cura in senso lato - esistenti in una società).
Il capitolo 28 dell’Agenda 21 rivolge un preciso appello a tutte le comunità locali affinché mettano a punto un’Agenda 21 locale che traduca gli obiettivi generali in programmi e interventi concreti, tarati sulle caratteristiche di ogni realtà; riconosce quindi a ogni autorità locale un ruolo fondamentale nel realizzare l’obiettivo globale dello sviluppo sostenibile, in quanto si tratta di un livello di governo che costruisce, manutiene e rinnova le strutture economiche, ambientali e sociali, sovrintende ai processi di pianificazione, definisce politiche e regolamentazioni ambientali e, in quanto più vicino alla popolazione, può giocare un ruolo importantissimo nel sensibilizzarla e nel coinvolgerla per ottenere lo sviluppo sostenibile.
L’Agenda 21 locale è, quindi, un programma condiviso di azione ambientale, per mettere a punto il quale è fondamentale il coinvolgimento attivo della popolazione interessata nelle sue varie componenti: è perciò uno strumento di partecipazione politica, senza la quale l’Agenda 21 non esiste e gli eventuali programmi e interventi previsti sotto questo nome diventano altra cosa.
Il processo con cui si definisce l’Agenda 21 locale consiste:
1) nell’ individuare una serie di principi che costituiscano una visione condivisa sul futuro della comunità locale;
2) nell’analizzare i problemi ambientali locali e nell’individuare le loro cause;
3) nel definire gli obiettivi generali dell’azione ambientale e le priorità dei problemi da affrontare;
4) nel fissare obiettivi specifici e misurabili dell’azione ambientale (i target) e le opzioni da intraprendere per raggiungerli;
5) nel dettagliare, all’interno di programmi attuativi, le opzioni e i target stabiliti;
6) nel verificare che l’insieme dei programmi attuativi: porti a raggiungere la visione condivisa individuata all’origine del processo; eviti sovrapposizioni; tralasci questioni importanti; aggredisca le cause dell’inquinamento; e non si limiti al trasferimento delle sostanze inquinanti da un mezzo all’altro (dalle acque al suolo ad es.), da un territorio all’altro (tramite i venti e lo scorrere dei corsi d’acqua) o nel tempo.
Il programma di azione ambientale, che comprende i programmi attuativi tematici, è sottoposto, durante la fase di attuazione, a un continuo monitoraggio per misurarne e valutarne i risultati via via ottenuti; può inoltre essere sottoposto ad aggiustamenti anche frequenti e continui, in risposta non solo a eventuali successi o fallimenti, ma anche ai cambiamenti delle condizioni ambientali e al miglioramento delle conoscenze e delle capacità tecniche.
Organismo indispensabile nel processo di definizione è il Forum ambientale, al cui interno devono essere rappresentati tutti gli interessi presenti nella comunità locale, ma senza diventare talmente ampio da essere ingestibile e non operativo: gruppi politici, funzionari pubblici, tecnici e consulenti, centri di ricerca pubblici e privati, comitati civici e di quartiere, associazioni ambientaliste, di volontariato e culturali, sindacati, organizzazioni non governative, imprenditori dell’industria e del commercio, agricoltori, ecc.: il Forum è la sede per diffondere, scambiare e confrontare informazioni, conoscenze e saperi, per dirimere gli inevitabili conflitti di interesse tra i vari gruppi, per mediare o trovare soluzioni alternative e arrivare a visioni, obiettivi, priorità, scelte attuative condivise.
La situazione dei piani di Agenda 21 locali in Lombardia e nella Provincia di Milano
Secondo una pubblicazione della Regione Lombardia (dati 2003), i processi di Agenda 21 locali attivati nel territorio regionale coinvolgono tutte le 11 Province lombarde, 16 Comunità Montane, 3 Enti parco, e oltre 150 Comuni, per un totale di popolazione coinvolta superiore a un milione di abitanti. In particolare il Ministero dell’Ambiente ha finanziato in Lombardia 13 progetti, relativi a: 7 Comuni, 2 aggregazioni di Comuni, 3 Province e 1 Ente parco, per un importo pari a 1.373.000 euro.
Lo stato di avanzamento di tali processi è così articolato:
attività preliminari nel 10% dei casi
attivazione del Forum ambientale “ 27% “
predisposizione del Rapporto sullo stato dell’ambiente “ 13% “
compilazione del Rapporto sullo stato dell’ambiente “ 21% “
definizione del Piano di azione ambientale “ 20% “
approvazione del Piano di azione ambientale “ 9% “.
Come casi di eccellenza, in grado di stimolare gli altri enti locali ad attivare Agenda 21 locali, la pubblicazione regionale segnala, in provincia di Milano:
- il Patto per il Nord Milano, comprendente i Comuni di Bresso, Cinisello Balsamo, Cologno Monzese e Sesto San Giovanni;
- l’Agenda 21 intercomunale comprendente i Comuni di Cesano Maderno, Desio, Meda e Seveso (il Comune dell’Icmesa!);
- l’Agenda 21 intercomunale comprendente i Comuni di San Donato e di San Giuliano Milanese.
Lo sviluppo locale
La recentissima legge regionale 1/2005 della Toscana (approvata in gennaio) sul governo del territorio dice che, per promuovere lo sviluppo sostenibile delle attività pubbliche e private che incidono sul territorio regionale, “ i Comuni, le Province e la Regione perseguono…la conservazione, la valorizzazione e la gestione delle risorse territoriali e ambientali promuovendo, al contempo, la valorizzazione delle potenzialità e delle tendenze locali allo sviluppo”.
Vi è poi quello che Alberto Magnaghi ( Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000) chiama lo “sviluppo locale autosostenibile” e cioè, in sintesi (e con parole mie), uno sviluppo
basato sulla cura e sulla valorizzazione di ogni territorio e delle sue caratteristiche fisiche, economico-produttive e culturali, sulla riduzione drastica delle varie forme di inquinamento, sulla riqualificazione degli spazi, sull’allargamento della partecipazione politica e su una vita di relazione rigenerata.
Altre segnalazioni che mi paiono interessanti riguardano i libri: di Giuseppe De Rita e Aldo Bonomi (Manifesto per lo sviluppo locale. Dall’azione di comunità ai Patti territoriali, Bollati Boringhieri, 1998), con le sue dieci tesi per lo sviluppo locale, e di Sara Ongaro (Le donne e la globalizzazione, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2001) , secondo cui le strategie per uno sviluppo alternativo alla globalizzazione e centrato sulla cura riguardano il rispetto del ciclo della vita, le attività che si autorigenerano, che creano socialità, che non sfruttano la natura e che hanno una dimensione locale; e il convegno internazionale “Verso uno sviluppo locale partecipato” organizzato dal Comune di Roma nel settembre 2004.
Anche la CGIL , con la relazione di Paola Agnello Modica della segreteria nazionale al convegno “Investire nella sostenibilità” (novembre 2004) lancia la strategia del “Tornare a investire su di noi”, che “richiede la valorizzazione di ciò che abbiamo: le capacità e la professionalità dei lavoratori (risorsa fondamentale per lo sviluppo), il territorio, la storia, l’ambiente”. Nello stesso filone di pensiero, qualche mese prima (aprile 2004) c’era stato a Sasso Marconi un convegno di sei Camere del Lavoro (Brescia, Bologna, Cosenza, Matera, Reggio Emilia, Torino) che, dopo aver riflettuto assai criticamente sull’attuale modello di sviluppo, in particolare a seguito delle politiche della destra (declino industriale, distruzione dello stato sociale e dei diritti del lavoro, disgregazione sociale, degrado ambientale), aveva affermato la necessità di uno sviluppo qualitativamente nuovo, in grado di non inquinare, non deturpare, non espropriare e non privatizzare i beni sociali, valorizzare il lavoro produttivo e il lavoro di cura, migliorare gli investimenti sociali e i servizi pubblici territoriali (trasporto pubblico), reincludere le persone attualmente emarginate, e aveva avanzato l’ipotesi di un fondo territoriale - da destinare a investimenti sociali aggiuntivi rispetto a quelli esistenti e da ottenere mediante la contrattazione aziendale - finanziato mediante contributi delle imprese e mediante prelievi in percentuale sui proventi di iniziative sportive, ricreative, culturali, commerciali promosse da privati e da amministrazioni pubbliche.
Per concretizzare questi processi di sviluppo locale si possono usare gli strumenti di programmazione negoziata già previsti dalla legislazione statale (legge 662/1996), tra cui soprattutto i patti territoriali (“accordi per attuare un programma di interventi nei settori dell’industria, dell’agroindustria, del turismo, dei servizi e delle infrastrutture, tra loro integrati con lo scopo di promuovere lo sviluppo locale, compatibile con uno sviluppo ecosostenibile”); si tratterebbe di allargarne e arricchirne di fatto le modalità partecipative, anche senza bisogno di modifiche normative (che a livello regionale si potrebbero comunque fare); l’importante è prendere l’iniziativa e creare le condizioni politiche perché questi processi si possano attivare e il primo passo è conoscerne l’esistenza.
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