Per una decrescita sostenibile, pacifica e conviviale: un approccio sistemico

 

SOSTENIBILITA' SOLIDARIETA'
ECONOMIA P A C E
ENERGIE RIFIUTI
INQUINAMENTO O G M
TRASPORTI LIBRI

 

 

 

Mauro Bonaiuti

Georgescu-Roegen, padre fondatore della bioeconomia, è stato il primo a presentare la decrescita come una conseguenza invitabile dei limiti imposti dalle leggi di natura. Se vogliamo comprendere per quali ragioni il modo tradizionale di fare economia, teorizzato dagli economisti neoclassici e diffuso dagli apologeti della globalizzazione e del pensiero unico, non è sostenibile, dobbiamo partire dalla teoria bioeconomica di Georgescu-Roegen. (1) La critica di Georgescu-Roegen ruota attorno a due punti fondamentali, che richiamerò brevemente.

1) Teoria della produzione e prima legge della termodinamica

La teoria tradizionale della crescita economica è basata su una funzione aggregata di produzione neoclassica del tipo:
Q = A f (K, L, R)
Ciò significa essenzialmente che la produzione (Q) cresce al crescere della quantità di lavoro (L), dello stock di capitale (K) e del progresso tecnologico (A).
Soprattutto essa assume che sia possibile produrre un qualsiasi quantità di prodotto, (Q0) riducendo a piacimento le risorse naturali (R), purché venga aumentato sufficientemente lo stock di capitale. (2)
In altre parole, la teoria neoclassica assume completa sostituibilità fra risorse naturali e capitale fabbricato dall'uomo. Una assunzione che non a caso, è anche alla base della definizione neoclassica di sviluppo sostenibile. Ciò significa che - come ha affermato il premio Nobel per l’economia Robert Solow - "non c'è in linea di principio alcun problema, il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali". (3) È possibile dimostrare, tuttavia, che tale assunzione viola le leggi della termodinamica. Se, come affermano i neoclassici, la funzione di produzione altro non è che una ricetta, Solow e Stiglitz implicitamente affermano che sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi una pizza più grande semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due cuochi al posto di uno. Com'è evidente, questa formulazione semplicemente non rispetta il bilancio dei materiali: un modo diverso di leggere la prima legge della termodinamica.
Questo errore si spiega con la pretesa, tipicamente neoclassica, di estendere a tutti i fattori della produzione quella sostituibilità che esiste solo - pur con evidenti ripercussioni sociali - tra capitale e lavoro. Essa manifesta inoltre l’incapacità da parte degli economisti di fare i conti con i fondamenti del processo economico. La prima legge della termodinamica sancisce, in conclusione, che il flusso di materia che “entra” nel processo economico coincide necessariamente con il flusso di scarti che ritroviamo in uscita (beni prodotti + rifiuti). (4)
In generale, dunque, la produzione di quantità crescenti di beni e servizi implicano l’utilizzo di quantità maggiori di materie prime ed energia e, pertanto, un più incisivo impatto sugli ecosistemi.

2) Degradazione entropica e limiti alla crescita

Anche il secondo principio della termodinamica - o legge di entropia - ha rilevanti conseguenze per il processo economico. Secondo Georgescu-Roegen, infatti, ogni attività produttiva comporta l'irreversibile degradazione di quantità crescenti di materia ed energia.
Essendo la biosfera un sistema chiuso (scambia energia, ma non materia con l'ambiente), ne discendono due importanti conclusioni per l'economia: l'obiettivo fondamentale del processo economico, la crescita illimitata della produzione (e dei redditi), essendo basato sull'impiego di risorse non rinnovabili, finirà inevitabilmente per esaurire le basi energetiche e materiali su cui si fonda. Esso, pertanto, va abbandonato o, comunque, radicalmente rivisto.
L'evidenza empirica accumulatasi negli ultimi trent'anni è del resto, a questo proposito, robusta e concorde. (5) Certo i dati possono essere sempre messi in discussione, ma, a uno sguardo d'insieme, essi manifestano con evidenza a chi voglia leggerli senza pregiudizi quanto il sistema produttivo globale sia, già oggi, insostenibile per la biosfera. La decrescita, quantomeno nel lungo periodo, assume dunque i tratti di una necessità ecologica.
La seconda conclusione è di natura metodologica: la rappresentazione pendolare del processo economico, presentata in apertura di ogni manuale di economia, secondo la quale la domanda stimola la produzione e quest'ultima fornisce il reddito necessario ad alimentare nuova domanda, in un processo reversibile e apparentemente in grado di riprodursi all'infinito, andrà sostituita da una rappresentazione circolare ed evolutiva, in cui il processo economico risulti radicato nell'ambiente biofisico che lo sostiene. Questa revisione epistemologica, oltre a ricordarci l'inevitabile carattere fisico, materiale di ogni processo economico - riportando la scienza economica dalle rarefatte atmosfere della matematica, all'universo concreto del vivere quotidiano (6) - fornisce un imprescindibile carattere transdisciplinare alla “nuova economia”.

Il progresso tecnologico non è la soluzione alla crisi ecologica

Da sempre gli economisti ortodossi hanno difeso la crescita economica dagli attacchi degli ecologisti con una molteplicità d’argomentazioni, il cui fulcro teorico ruota attorno al concetto di progresso tecnologico. L'idea fondamentale è che il progresso tecnologico consentirà, come già avvenuto in passato, di "oltrepassare i limiti,” giungendo a produrre quantità crescenti di beni con un uso sempre minore di materia ed energia. Questo fenomeno, noto in letteratura come dematerializzazione del capitale, ha suscitato grande interesse negli economisti, che hanno visto nei recenti successi della new economy, la più evidente manifestazione della sua efficacia. (7) Il passaggio dal capitalismo "fordista", con le sue fabbriche fumose, alla civiltà on line comporterebbe, secondo questi autori, la transazione definitiva verso un'economia leggera, verso un capitalismo pulito, caratterizzato da un bassissimo consumo di risorse materiali e da un ridotto impatto sugli ecosistemi.
Naturalmente l’innovazione tecnologica sarà favorita da un ritmo accelerato di crescita economica. Ecco dunque che crescita e progresso tecnologico vengono a formare un binomio inscindibile e, paradossalmente, la sola possibile soluzione della crisi ecologica.
Quest’idea è stata recentemente espressa in modo estremamente chiaro dal presidente americano Bush, il quale ha dichiarato: "La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie avanzate: essa è la soluzione non il problema." (8) Certo non stupisce che questa sia l’opinione del presidente americano e dei leader occidentali. Il fatto è che, pur con diverse sfumature, questa posizione è condivisa dall’intero arco delle forze politiche e persino da alcune importanti associazioni ambientaliste, passando per le principali tecnocrazie internazionali, dalla Banca Mondiale al WTO, per finire con le varie commissioni sullo sviluppo sostenibile sia in sede ONU che nell’ambito dell’Unione Europea. Resta dunque la domanda fondamentale: è vero che il progresso tecnologico comporta una riduzione dell’impatto sugli ecosistemi e in particolare sui consumi di materia ed energia?
È certamente corretto affermare che le tecnologie informatiche e, più in generale, le cosiddette nuove tecnologie, siano capaci di produrre reddito con un minore impiego di risorse naturali. Tuttavia, mentre i consumi di numerose risorse per unità di prodotto sono effettivamente diminuite nei paesi più avanzati, i consumi assoluti di risorse continuano ad aumentare. Alcuni dati basteranno a chiarire questo punto:
Una unità di GNP (9) può essere prodotta oggi con meno energia che all'inizio degli anni Ottanta. L'intensità dell'energia (misurata come energia per unità di GNP) è diminuita addirittura del 32% negli USA dal 1980 al 2000. Ma questa diminuzione dell'intensità di energia non ha portato a una riduzione del consumo totale di energia. Il consumo totale di energia (Primary Energy Consumption) è aumentato del 23% negli USA nello stesso periodo. Considerazioni analoghe valgono per i principali paesi europei. (10)
Se realizziamo poi un'analisi comparata, il paradosso risulta confermato: le economie più efficienti, come gli Stati Uniti o la Norvegia, hanno consumi energetici pro capite oltre tre volte superiori a quelli di economie nettamente meno efficienti, come il Messico o l'Ungheria. (11)
Come è possibile, dunque, che ad un aumento dell’efficienza corrisponda un aumento – anziché una riduzione – nei consumi totali di energia?

Un approccio sistemico alla teoria economica: il modello stocks e flussi

Per comprendere compiutamente il paradosso dell’efficienza, occorre abbandonare la tradizionale rappresentazione del processo di produzione, in favore di un nuovo approccio in grado di considerare, a fianco dei flussi (materie prime, prodotti intermedi), gli stocks coinvolti nel processo. (12) Tali stocks sono essenzialmente di tre tipi: capitale naturale (ecosistemi), capitale economico (impianti), forza lavoro (intesa come lavoro organizzato). A differenza dei flussi, che vengono trasformati nell’ambito del processo di produzione, gli stocks in quanto sistemi autopoietici, sono ancora presenti e quindi riconoscibili al termine del processo. Come noto, la teoria tradizionale della produzione assume che le quantità prodotte dipendano unicamente dai flussi in input e dalla tecnologia impiegata. In questo modo si trascura il ruolo fondamentale giocato dagli stocks, ossia dai sistemi, sia di natura biologica (la biosfera ed i suoi sottosistemi) che di natura economica e sociale (impianti, strutture formali e informali di organizzazione del lavoro) nell’ambito del processo di produzione. (13)
Ora, il punto essenziale è che questi sistemi richiedono continui apporti di materia/energia (e lavoro) per mantenersi “in condizioni di efficienza”. Le organizzazioni produttive, non diversamente dalla biosfera, sono infatti strutture dissipative. (14) Queste strutture, come noto, si mantengono lontano dall’equilibrio termodinamico grazie a continui apporti di energia provenienti dall’esterno del sistema. Diveniamo così consapevoli come tali strutture (stocks) necessarie alle economie avanzate per produrre innovazione tecnologica (imprese multinazionali, centri di ricerca, burocrazie, sistemi di trasporto, ecc.) richiedano enormi flussi di materia/energia (e lavoro), non solo – e non tanto - per produrre benessere, quanto - innanzitutto - per mantenere sé stesse. Alcuni esempi aiuteranno a comprendere questo punto.
Con ogni probabilità un giovane ingegnere occidentale, impiegato in una società di software, utilizza direttamente meno risorse naturali di quanto non ne utilizza, ad esempio, un operaio indiano impiegato in uno stabilimento per la produzione di coloranti. Tuttavia quante risorse e quanto lavoro richiede la produzione sociale di un ingegnere? E delle tecnologie informatiche in generale? Si può forse programmare computer senza recarsi al lavoro in automobile o senza disporre di una casa arredata con ogni comodità? In conclusione le strutture economiche (imprese multinazionali di produzione e servizi) e le organizzazioni (sistemi di trasporto, cura, svago, istruzione, ricerca, ecc.) necessarie alle democrazie avanzate per farsi promotrici dell'innovazione tecnologica richiedono esse stesse, per poter essere mantenute, enormi quantità di lavoro e di risorse naturali, e questo indipendentemente dalla loro capacità di produrre benessere.
Non solo, i flussi di materia/energia necessari al mantenimento di tali strutture aumentano al crescere della scala e della complessità di questi sistemi. Comprendiamo dunque perché maggiore progresso tecnico, implicando generalmente strutture più grandi e più complesse, significhi maggiore consumo di materia/energia e maggiore sfruttamento del lavoro.
Ecco dunque che, nelle giustificazioni razionali che vengono portate a sostegno di ogni nuova soluzione tecnologica ai problemi sociali ed ecologici, vi sia un livello, del tutto essenziale, che tende a rimanere inconscio. Di fronte ad ogni nuova tecnologia la domanda che abitualmente ci poniamo è semplicemente se questa sia più o meno efficiente della precedente, cioè, in termini ecologici, se consuma più o meno risorse. Di fronte ad una risposta positiva a questa domanda siamo certi di aver compiuto un passo avanti - per quanto piccolo - sulla via della sostenibilità. E qui, invece, ci inganniamo. Le automobili di oggi consumano certamente meno carburante di quelle di trenta anni fa, tuttavia ben difficilmente potremmo affermare che gli avanzamenti tecnologici nel settore dell'auto abbiano portato ad una riduzione dell’impatto di questo strumento sugli ecosistemi, o a una riduzione nei consumi di carburanti. (15)
La riformulazione della teoria della produzione in termini sistemici che abbiamo qui abbozzato, ci porta a considerare la questione del progresso tecnologico da una prospettiva completamente diversa, ponendoci nuovi interrogativi. Posti di fronte ad ogni innovazione tecnologica, occorrerà innanzitutto domandarsi quali sono le tipologie di strutture (biologiche, economiche, sociali) implicate nella produzione di quel bene, e quali sono i flussi di materia energia e lavoro che queste presuppongono per automantenersi. È possibile infatti che la quantità di risorse assorbita dai sistemi necessari alla produzione della nuova tecnologia sia superiore a quella risparmiata direttamente dalla tecnologia stessa. I dati presentati ad esempio da Denis Cheynet a proposito dell’auto confermano questa ipotesi. (16) Se traduciamo in ore lavoro il costo necessario all’acquisto dell’auto e vi aggiungiamo i costi sociali legati agli incidenti automobilistici – la velocità reale di questo mezzo di trasporto scende sotto i 20 Km orari. Si consideri inoltre che nel calcolo non sono stati inclusi i costi del carburante e i costi di manutenzione della rete stradale. In altre parole, se consideriamo i costi per il mantenimento delle strutture (stocks) indispensabili al suo funzionamento, la velocità media dell’auto è comparabile, e probabilmente inferiore, a quella della bicicletta. Naturalmente con la differenza che la prima richiede una tonnellata di metallo per spostare un uomo, rispetto ai 10/15 chilogrammi della seconda; oltre al consumo di molte altre risorse, la maggior parte delle quali non rinnovabili. Senza considerare, inoltre, i costi psicologici e sociali, e quindi il tempo che potrebbe essere “liberato” dal lavoro di fabbrica, o lungo le strade (come autisti e/o come manutentori), e rivolto ad altre attività, meno alienati, socialmente più vantaggiose e più rispettose dell'ambiente.
Inoltre occorrerà valutare quale impatto la nuova tecnologia potrà avere sugli equilibri dei sistemi ai diversi livelli (biologico, economico e sociale). È infatti possibile (come è accaduto per l'auto e per le tecnologie informatiche) che tali innovazioni spostino ciascun sistema verso un nuovo equilibrio, con conseguenti, anche significative, trasformazioni nelle quantità dei flussi necessari al mantenimento dei sistemi nella nuova condizione di equilibrio. I progressi tecnologici a cui abbiamo assistito nell’ambito delle tecnologie informatiche hanno portato, ad esempio, a una riduzione del prezzo dei prodotti e quindi a un aumento - anziché una riduzione - dei consumi. Il cosiddetto effetto rimbalzo (17) non è altro che un esempio dell’assestarsi del sistema economico verso un nuovo equilibrio. Allo stesso modo i progressi compiuti dalle tecnologie dell'auto hanno favorito, attraverso l'affermarsi di un nuovo sistema di trasporti, (si pensi alla progressiva estensione della rete stradale, ecc.) un significativo incremento nei flussi di materia ed energia, (per es. un aumento nel consumo di gomma e petrolio) dovuti, non certamente alle dirette trasformazioni della nuova tecnologia (le auto più efficienti) quanto piuttosto alla nuova condizione di equilibrio raggiunta dal sistema.
Quanto detto, ci consente di offrire una diversa e - credo - più profonda interpretazione delle trasformazioni strutturali legate al progresso tecnologico, oltre al cosiddetto paradosso dell’efficienza. Se le ipotesi che abbiamo avanzato sono corrette è evidente che il progresso tecnico non può rappresentare, né oggi né in futuro, la soluzione alla crisi ecologica (e sociale). Al contrario, il suo inscindibile associarsi alla crescita economica comporta l’evolversi della struttura produttiva verso scale più ampie e più complesse, con un conseguente aumento del degrado entropico, e dello stress a cui sono sottoposte le strutture sociali (sradicamento, sfruttamento del lavoro, stress, alienazione, ecc).
Tali trasformazioni, contrariamente a quanto previsto dalla teoria ortodossa, comportano una riduzione anziché un aumento del benessere sociale. Questa osservazione ci introduce al secondo grande paradosso dell’economia contemporanea.

Il paradosso del benessere

Secondo l’economia ortodossa, a un aumento dei consumi di beni e servizi corrisponde necessariamente un incremento del benessere del consumatore. Un’ipotesi specifica è introdotta per garantire che non vi siano eccezioni a questa regola. (18) Tuttavia, è sempre più evidente che le economie occidentali presentano, a fianco di un continuo aumento dei consumi, un’altrettanto evidente riduzione del benessere sociale, attestata da numerosi indicatori. Il Genuine Progress Indicator (GPI) - per esempio - mostra, a partire dagli anni Ottanta, un andamento decrescente, con una chiara inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti. (19) Come è dunque possibile che a un aumento della produzione (e del consumo) si accompagni una riduzione del benessere sociale?
Il modello stock e flussi consente di offrire un’interpretazione anche di questo paradosso. Un aumento della quantità di beni consumati, e dunque del flusso di beni prodotti, comporterà infatti, a differenza dei modelli ortodossi, (20) una alterazione negli equilibri dei sistemi (stocks) coinvolti nel processo di produzione. Poiché gli stocks che partecipano al processo di produzione, sono gli stessi coinvolti nel processo di creazione del benessere, (21) una alterazione in questi ultimi potrà risolversi in una riduzione di benessere. Tralasciando qui spiegazioni più formali, un incremento dei consumi - e quindi della produzione - comporta una riduzione del benessere sociale in quanto riduce la qualità degli stocks biologici e sociali coinvolti nel processo di creazione del benessere. (22) In certi casi tale alterazione può condurre ad una perdita totale di resilienza di tali sistemi (o di alcuni loro sottosistemi) con conseguenze tragiche per il benessere delle popolazioni (crisi ecologiche o sociali).
La teoria ortodossa, non considerando il ruolo svolto dai sistemi biologici e sociali nel processo di produzione (e nel consumo) di beni, non è in grado di cogliere le conseguenze di queste trasformazioni strutturali, e le relative conseguenze di lungo periodo sul benessere economico e sociale.
Più di venticinque anni or sono Ivan Illich aveva profeticamente intuito quanto queste megamacchine (sistemi di produzione, trasporto, cura, ecc.), superata una certa soglia, producano varie forme di disutilità, sino a divenire pericolose per la sopravvivenza dell’intero corpo sociale che le ha generate (e per la biosfera). La rappresentazione sistemica del processo economico mediante stock e flussi consente di fornire una spiegazione analitica delle ragioni che stanno alla base di questo fenomeno, offrendoci uno strumento concettuale per tentare di valutare le conseguenze delle trasformazioni strutturali che diversi modelli di società presuppongono.

Verso una decrescita conviviale e sostenibile

Quello alla decrescita è innanzitutto un appello. Come tale ha il merito di esprimere l’urgenza di una inversione di rotta rispetto al paradigma dominante della crescita. Poiché - come abbiamo visto - crescita e sviluppo sono inscindibilmente connessi, l’invito alla decrescita indica al tempo stesso una prospettiva alternativa rispetto ai diversi modelli di sviluppo realmente esistenti, comunque aggettivati (sostenibile, durevole, alternativo ecc.) (23).
È bene riconoscere, tuttavia, che questo appello si presta ad alcuni fraintendimenti. Per tentare di sgombrare il campo da tali possibili equivoci, va chiarito subito cosa la decrescita non è: non è un programma masochistico-ascetico di riduzione dei consumi, nell’ambito di un sistema economico-sociale immutato. Come ha affermato più volte Serge Latouche, parafrasando Hanna Arendt, non vi sarebbe nulla di peggio di una società di crescita senza crescita. (24) È evidente che una politica economica incentrata su una drastica riduzione dei consumi creerebbe, data l’attuale struttura del sistema produttivo e delle preferenze, una drammatica riduzione della domanda globale e dunque un aumento significativo della disoccupazione e del disagio sociale. Non è questa, dunque, la prospettiva qui auspicata.
Decrescita, inoltre, non significa condannare i paesi del Sud del mondo ad un’ulteriore riduzione dei loro redditi procapite. (25)
Per quanto la decrescita alluda, sul piano economico, a una riduzione complessiva delle quantità fisiche prodotte e delle risorse impiegate, essa va intesa piuttosto come una complessiva trasformazione della struttura socio-economica, politica, e dell’immaginario collettivo verso assetti sostenibili. Questo nella prospettiva di un significativo aumento - e non certo di una riduzione - del benessere sociale.
Tale trasformazione presenta dunque un carattere multidimensionale. A scopo esplicativo, è possibile individuare quantomeno quattro livelli (o sistemi) sui quali il processo di decrescita influisce: ecologico, sociale, politico e immaginario. Per quanto sia consapevole della straordinaria vastità del problema, può essere utile cercare di individuare alcuni circoli virtuosi che il processo di decrescita può innescare a ciascuno di questi livelli e tra questi.

Perché piccolo è... effettivamente bello

A livello economico decrescita significa innanzitutto riduzione nei flussi materiali di produzione e consumo. Come abbiamo visto, questa non si ottiene né incentivando lo sviluppo e il progresso tecnologico secondo la logica sino ad oggi prevalente, né invocando le virtù ascetiche del risparmio energetico. Essa richiede piuttosto una trasformazione profonda delle strutture economico-produttive (stocks).
Questo implica innanzitutto una riduzione delle dimensioni (scala) dei grandi apparati produttivi (imprese trans-nazionali), e, più in generale, delle grandi organizzazioni (tecnocrazie, sistemi di trasporto, cura, svago, ecc.). Il cammino verso un sistema economico e sociale sostenibile non potrà avviarsi seriamente sino a quando non si diverrà consapevoli che la gran parte delle risorse (e del lavoro) sono oggi impiegate - come abbiamo mostrato - non per produrre benessere, ma per alimentare le tecnostrutture stesse. Più è alto il grado di complessità, maggiore è l'entropia, maggiori sono le risorse che tali megamacchine esigono semplicemente per la loro autoconservazione. L’esempio dell’automobile, riportato in precedenza, mostra come una tecnologia più semplice possa essere più efficiente, da un punto di vista sistemico, di una più complessa.
L’approccio bioeconomico suggerisce che il benessere è legato, più che ai flussi di beni e servizi prodotti, alle condizioni delle strutture (stocks) che intervengono nel processo di produzione e consumo. Come accade nell’universo biologico, in cui gli organismi non tendono alla massimizzazione di alcuna variabile, ma utilizzano risorse e assumono dimensioni adeguate al contesto ecologico in cui vivono, così le strutture economiche (impianti, beni durevoli, ecc.) dovrebbero essere ripensate secondo forme e dimensioni tali da garantire una duratura capacità di produrre benessere in condizioni di minima dissipazione entropica. Le condizioni per un benessere duraturo non si ottengono, infatti, puntando sulla massimizzazione dei flussi di reddito e consumo a breve, quanto piuttosto cominciando ad immaginare e a realizzare strutture (tecnologie, beni durevoli, relazioni sociali), in grado di “sostenere” un buon livello di benessere, in modo duraturo, pur dissipando quantità modeste di materia/energia. Questo non significa affatto invocare un ritorno al passato, né tantomeno avere come unico obbiettivo la minimizzazione dei flussi di risorse naturali.
È possibile chiarire questo punto con un semplice esempio. Da un punto di vista entropico, è certamente meglio per il pescatore dedicare un certo ammontare di lavoro e di risorse per costruirsi una rete, o una barca da pesca (stock), piuttosto che affidarsi alla semplice pesca con le mani. Questo significa che, da un punto di vista bioeconomico, non si auspica la minimizzazione nell’uso delle risorse, né il regresso tecnologico, né tantomeno lo sciopero dell’ingegno. Ingegno, risorse naturali, e lavoro andrebbero finalizzati - tuttavia - alla cura e alla progettazione di quegli stock (sistemi naturali, impianti, beni durevoli, relazioni sociali, valori) che sono in grado di produrre benessere in modo duraturo, pur utilizzando quantità modeste di risorse ed energia. In altre parole, tali soluzioni ricercano le migliori combinazioni tra complessità, benessere ed entropia, nella consapevolezza che, generalmente, le soluzioni più complesse sono anche le più energivore. In generale occorrerà spostare il baricentro dell’attenzione, nel processo economico, dai flussi agli stocks (naturali, economici, relazionali) in quanto questi ultimi sono in grado di sostenere un benessere (più) duraturo, pur con modesti apporti di materia, energia e lavoro.

Decrescita: differenze tra Nord e Sud

Questa raccomandazione vale in modo particolare per le economie meno avanzate. Queste dovrebbero finalizzare le proprie risorse innanzitutto nella realizzazione di quei sistemi (ri)produttivi (stocks) - in particolare (sistemi di coltivazione, impianti, ecc.) beni durevoli (case, infrastrutture per il trasporto, per la distribuzione dell’acqua, per l’istruzione, ecc.) - che sono in grado di garantire un benessere adeguato e duraturo, pur in presenza di flussi modesti di reddito, di risorse e di beni di consumo. Parallelamente si tratterà di conservare /consolidare quegli stocks (ecosistemi, sistemi di relazioni sociali, neoclaniche, ecc.) che sono già presenti e in grado di produrre benessere, pur con modesti apporti di risorse. In sintesi si tratta di consolidare gli stocks nella prospettiva di una riduzione dei flussi. Come si può vedere si tratta di un modello economico che muove esattamente nella direzione opposta rispetto a quello che si va attualmente affermando in questi paesi. Gli interessi del capitale internazionale e delle imprese multinazionali, premono infatti nella direzione di una massimizzazione dei flussi a breve, anche al prezzo del depauperamento/distruzione degli stocks. Quando anche tali flussi (beni, risorse, capitali) ricadessero nelle mani delle popolazioni locali – anziché prendere la volta dei paesi ricchi - essi andrebbero indirizzati alla realizzazione di sistemi tecnologici relativamente semplici, duraturi, che consentissero maggiore autonomia e reale sostenibilità della economie locali.
Al contrario, per quei paesi che sono già passati per una fase prolungata di modernizzazione-industrializzazione e che pertanto possiedono livelli elevati di ricchezza (impianti, infrastrutture, beni durevoli), la ricetta sarà quella della decrescita in senso proprio: riduzione dei flussi attraverso la ristrutturazione degli stock, la quale non può non passare - in alcuni casi - per una vera e propria riduzione della scala delle organizzazioni produttive e delle tecnocrazie. (26) È evidente, in conclusione, che il processo di decrescita, così definito, consente di realizzare un cammino verso condizioni di autentica sostenibilità ecologica.

Decrescita e sostenibilità sociale

Il secondo livello, o seconda via della decrescita, è quello che influisce sulla dimensione dell’equità, della giustizia e della pace; in altre parole su quella che possiamo definire sostenibilità sociale. Attraverso quale processo la decrescita può favorire il prevalere di relazioni pacifiche tra gli esseri umani? Anche qui la storia può fornirci indicazioni importanti. Essa ci insegna che una civiltà fondata sull’espansione è incompatibile con la conservazione della pace. La biologia e l’antropologia ci mostrano che comportamenti particolarmente aggressivi e competitivi possono favorire la specie in contesti espansivi, ma in contesti non espansivi - quali quelli a cui la nostra specie si va necessariamente approssimando (la biosfera è infatti ormai pressoché interamente colonizzata) - sono i comportamenti cooperativi a risultare premianti. (27) La decrescita, cioè la (ri)organizzazione del processo economico secondo modalità non predatorie, in particolare di quelle risorse possedute da altre società, è la premessa indispensabile per pensare ad un modello economico sostenibile (anche) da un punto di vista sociale.
Se questo è vero a livello “macro” (rapporti tra società), a livello “micro” cosa può favorire l’affermarsi di un’economia più giusta? L’idea qui suggerita è che la decrescita, attraverso il progressivo trasferimento di quote crescenti della domanda verso la produzione di beni relazionali, favorisce la sostenibilità sociale. Con l’espressione “beni relazionali” si intende quel particolare tipo di "beni" che non possono essere goduti isolatamente, ma solamente nella relazione tra chi offre e chi domanda. Esempi di questo tipo di "beni" sono i servizi alla persona (cura, benessere, assistenza), ma anche l'offerta di servizi culturali, artistici e religioso/spirituali. Nelle società avanzate vi è una specifica domanda di qualità della vita. Ma tale domanda non si soddisfa grazie alla produzione di maggiori quantità di beni tradizionali" (Zamagni, 1997). È piuttosto una domanda di attenzione, di cura, di conoscenza, di partecipazione, di nuovi spazi di libertà, di spiritualità. È questa la via dell’economia solidale e civile. Non vi è dubbio, inoltre, che queste forme di produzione della ricchezza, fondate come sono su forme organizzative di tipo cooperativo o associativo, generalmente di piccole dimensione, a loro volta favoriscono l’affermarsi di un processo di decrescita.

Decrescita e convivialità/partecipazione

Il terzo livello è quello che potremmo definire degli assetti politici. La decrescita, grazie alla riduzione delle dimensioni delle imprese, delle istituzioni e dei mercati, valorizza la dimensione locale, favorendo l’affermarsi di forme politiche partecipate e conviviali. Conviviale, secondo Ivan Illich, oltre ad alludere alla piacevolezza del vivere assieme, indica una forma di organizzazione sociale e del lavoro "che consente […] l'autonomia di ciascun lavoratore, intesa come potere di controllo sulle risorse e sui programmi". In altre parole "conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento (la tecnologia) per realizzare le proprie intenzioni". (28) Convivialità, secondo Illich, è dunque sinonimo di partecipazione.
Partecipazione, innanzitutto, alla definizione delle modalità di produzione della ricchezza, e quindi al controllo democratico della tecnologia.
La partecipazione a forme di organizzazione del lavoro maggiormente conviviali consente al lavoratore di migliorare il proprio benessere in quanto contribuisce a liberare ciascuno dagli ingranaggi della Megamacchina tecno-scientifica che domina il mercato globale. (29) Si tratta cioè di offrire ad un numero crescente di soggetti una migliore qualità della vita all'interno di organizzazioni meno disumanizzanti, portatrici di senso, che consentano di liberare maggiori quantità di tempo libero, di ridurre lo stress e l'alienazione, offrendo maggiori possibilità di controllo e partecipazione sulle forme e sulle finalità del processo economico. Questa tensione verso la riappropriazione delle principali attività umane, come il lavoro, lo scambio, la salute e il sapere, e delle relative istituzioni (l'impresa, il mercato, l'organizzazione sanitaria, la scuola, ecc.) è pensabile solo all'interno di una società di decrescita, una società cioè, in cui le dimensioni delle organizzazioni siano tali da rendere pensabile qualche forma di controllo da parte di coloro che vi prendono parte. D’altro canto, forme maggiormente partecipate di definizione delle modalità di produzione e distribuzione della ricchezza sono indispensabili per ottenere il consenso necessario a organizzare un cammino di decrescita conviviale. Anche a questo livello, dunque, l’anello si chiude, generando un possibile circolo virtuoso fra decrescita e partecipazione.

Decrescita e immaginario collettivo

Il quarto livello, e quindi la quarta tipologia di sistemi investiti dal processo di decrescita, è quello culturale/valoriale, in altre parole quello dell’immaginario collettivo. Poiché anche i valori, come ha mostrato Castoriadis, hanno un carattere sistemico, l’affermarsi di una società e di un’economia di decrescita porta inevitabilmente con sé l’affermarsi di nuovi valori (il piacere di vivere, l’armonia con la natura, la lentezza, l’equità, la partecipazione, possono essere alcuni esempi). Allo stesso tempo l’affermarsi di tali valori è indispensabile per legittimare il passaggio verso una società conviviale. A questo proposito dovrebbe essere ormai chiaro che, in una prospettiva sistemica, l’eterno interrogativo se debbano cambiare prima le strutture o prima l’immaginario collettivo, serva solo a ritardare il cambiamento... è evidente che entrambi sono necessari e l’una accompagna e sostiene la trasformazione dell’altro.

Decrescita sostenibile o crescita autodistruttiva?

Per concludere, può essere utile mettere in evidenza come anche tra i processi evidenziati a questi quattro diversi livelli (ecologico, sociale, politico e valoriale), sussistano importanti effetti sinergici.
In primo luogo l’affermarsi di prassi politiche partecipate a livello locale favorisce la sostenibilità ecologica (e sociale). (30) A livello locale, infatti, possiamo ritrovare la volontà e le conoscenze necessarie a proteggere e valorizzare le caratteristiche peculiari dei luoghi (risorse naturali, beni pubblici, conoscenze, saperi tradizionali, ricchezze sociali e relazionali). (31) A questa scala , tali peculiarità sono viste come ricchezze (stocks) da accrescere e valorizzare e non come risorse (flussi) da sfruttare a fini di profitto, come accade nelle "catene lunghe" dell'economia globale. (32) La partecipazione dei cittadini ai processi di definizione delle modalità di produzione della ricchezza favorisce il rispetto dei criteri di sostenibilità ecologica e sociale, come mostrano le ormai numerose esperienze di economia solidale e partecipativa.
In secondo luogo, il trasferimento della domanda verso la produzione di beni relazionali, mentre favorisce la sostenibilità sociale, favorisce anche, indirettamente, la sostenibilità ecologica. La produzione di beni relazionali, infatti, implica la degradazione di quantità molto modeste di materia/energia. (33)
Infine, mentre l’affermarsi di stili di vita ecologicamente sostenibili contribuisce a trasformare l’immaginario collettivo, veicolando una cultura non espansiva ma di equilibrio/cooperazione, possiamo sottolineare che, viceversa, tali valori sono indispensabili per l’affermarsi, a livello politico-sociale, di condizioni di pace e di equità. Fra sostenibilità ecologica, immaginario non espansivo, e condizioni di convivenza pacifica/equa è possibile l’instaurarsi di un importante circolo virtuoso, che l’approccio sistemico consente di analizzare.
Certo non si ignorano - a fianco delle sinergie - le possibili contraddizioni che il processo di decrescita potrebbe alimentare. Una per tutte: non vi è dubbio che la crescita economica conosciuta, nel dopoguerra, dalle economie occidentali ha contribuito a diluire il conflitto per la distribuzione dei redditi. Quando le dimensioni della torta aumentano è almeno teoricamente possibile immaginare di attribuirne una fetta più grande a ciascuno, diluendo così il conflitto distributivo. Indubbiamente, questo è quello che è successo nei paesi più ricchi durante gli anni di maggiore successo delle politiche di sviluppo. Al contrario è presumibile che, a parità di altre condizioni, in una società di decrescita i conflitti distributivi potrebbero riacutizzarsi.
Certamente, come in tutte le rappresentazioni evolutive, il fattore tempo risulta decisivo. Non è difficile rendersi conto che, qualora si arrivasse “troppo tardi”, e la crisi economico-ecologica imponesse la decrescita, per esempio attraverso l’impennata dei prezzi delle risorse energetiche, tutti i circoli virtuosi sin qui individuati si invertirebbero. La scarsità delle risorse favorirebbe l’imposizione di modelli politici autoritari, spazzando via le forme germinali di partecipazione, e rendendo la democrazia una scatola vuota. L’imposizione politico militare si salderebbe con la cultura espansivo–competitiva rendendo il perseguimento dell’equità sociale e della pace un sogno del passato. Del resto i segni dell’avanzare di questo genere di dinamiche nella storia di questo inizio secolo non sono così difficili da individuare. Questo esercizio di immaginazione può essere molto utile. Ecco che la prospettiva della decrescita, da posizione estrema di una minoranza radicale, come viene comunemente presentata, trasfigura nel suo opposto, assumendo i tratti, probabilmente più veritieri, dell’urgenza e della necessità.

note:

1 Per una più ampia trattazione di quest’argomento mi sia consentito rinviare a M. Bonaiuti, La teoria bioeconomica. La nuova economia di Nicholas Georgescu-Roegen, Carocci, Roma 2001; e all’Introduzione a N. Georgescu-Roegen, Bioeconomia. Verso un’economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

2 Assumendo che la funzione di produzione assuma la tradizionale forma tipo Cobb Douglas utilizzata da Solow/Stiglitz:
Q = Ka Rb Lc con: a+ b+ c = 1
Sarà possibile produrre qualsiasi output Q0 aumentando la quantità di capitale e riducendo indefinitamente la quantità di
risorse naturali secondo l'espressione: Rb = Q0/ Ka Lc

3 Cfr. R. M. Solow, Intergenerational equity and exaustible resources, Review of Economic Studies, 1974, p. 11.

4 Su questo punto si vedano gli interessanti studi sul “bilancio dei materiali” portati avanti in Italia in particolare da Giorgio Nebbia.

5 Basti ricordare che l'impronta ecologica - ossia l'area degli ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione umana consuma e per assimilare i rifiuti - è, negli USA, circa 5 volte superiore alla disponibilità media globale. In altre parole, se si estendesse a livello globale il livello di consumi dell'americano medio, occorrerebbero circa cinque pianeti per sostenerne il livello di vita. I valori per i paesi europei sono circa due - tre volte superiori alla disponibilità media globale. Si consideri che la Cina ha ancora un'impronta ecologica pro-capite oltre sei volte inferiore a quella americana. Cfr. N. Chambers, C. Simmons, M. Wackernagel, Sharing Nature's Interest. Ecological Footprints as an indicator of Sustainability, Earthscan Pub., 2000; tr. it. Manuale delle impronte ecologiche, Ed. Ambiente, Milano, 2002.

6 In conclusione, se vogliamo distillare una filosofia dalla teoria bioeconomica, questa ci insegna che, in definitiva, la produzione di qualsiasi bene o servizio, comporta un'opportunità in meno per gli esseri viventi che verranno dopo di noi. In altre parole il processo economico di produzione comporta inevitabilmente un "costo" (in termini di materia/energia degradata), e che tale costo sarà sempre maggiore di zero. La natura, contrariamente a quanto ritenevano gli economisti classici, Marx compreso, non offre nulla gratis.

7 Cfr. A.H. Toffler, Creating a new civilization, Turner, Atlanta.

8 Cfr. Le Monde, 16 Febbraio, 2002.

9 GNP sta per Gross National Product (Prodotto Interno Lordo). Esso corrisponde al valore dei beni e servizi finali prodotti in una data economia in un anno, ndr.

10 Negli Usa si è passati da un consumo di Energia per dollaro di PIL pari a 16321 nel 1980 (misurato in Btu per dollaro di PIL al cambio 1995) a 11.014 nel 2000. Il consumo totale di energia nella stesso periodo è passato 78,47 a 99,32 quadrilioni di Btu. Fonte: Database Energy Information Administration, Marzo 2004.

11 L'efficienza (misurata qui dall'indice di produttività del lavoro) posta quella USA = 100, risulta 31 per il Messico e 51 per l'Ungheria, 131 per la Norvegia (91 è la media Europea). Il consumo pro capite di energia (misurato in milioni di Btu) risulta rispettivamente: 59 per il Messico, 110 Ungheria, 150 media EU, 341 USA, 422 per la Norvegia. Come si può notare all'aumentare dell'efficienza aumenta anche, con una correlazione molto stretta, il consumo pro capite di energia. Fonti: OCSE, Energy Information Administration, Marzo 2004.

12 L’approccio qui proposto, pur rifacendosi al modello fondi e flussi introdotto da N. Georgescu-Roegen, presenta alcune significative differenze. In particolare si considerano qui, al posto dei fondi (terra, e capitale intesi come quantità costanti) gli stocks (capitale naturale, capitale economico, organizzazione del lavoro) intesi come sistemi autopoietici. Ciò che viene conservato nel tempo, è - qui - la capacità del sistema di mantenere la propria struttura organizzativa a fronte di perturbazioni esterne. Cfr. Introduzione a Bioeconomia. Verso un’economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 24-44.

13 Un’analisi completa non dovrebbe mancare di considerare, tra gli stocks, anche i sistemi di valori, ossia l’immaginario collettivo. Per ragioni di semplicità espositiva si è trascurato qui di inserire questa quarta tipologia di sistemi, la cui rilevanza è fuori discussione.

14 Il riferimento è qui in particolare ai lavori di Ilya Prigogine, Cfr. I. Prigogine e I. Stengers, La nouvelle alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris (trad. it. La nuova alleanza, Longanesi, Milano 1981); I. Prigogine, La fin des certitudes, Jacob, Paris (trad. it. La fine delle certezze, Bollati Boringheri, Torino 1997); H. Maturana e F. Varela, The tree of Knowledge, New sciences Library, Boston (trad. it. L'albero della conoscenza, Garzanti, Milano).

15 - 16 Si veda il saggio di D. Cheynet, in questo volume. L’autore, che si rifà all’originale intuizione di Ivan Illich, calcola una velocità media dell’auto di 16,8 Km/orari.

17 Cfr. l’articolo di F. Schneider, qui tradotto.

18 Si tratta, come noto, dell’ipotesi di non sazietà: ad una quantità maggiore nel consumo di ciascun bene corrisponde un incremento di utilità.

19 Cfr. il sito http://www.rprogress.org/projects/gpi/

20 Come noto, nella concezione neoclassica l’utilità dipende unicamente dai flussi di beni e servizi consumati.

21 Ricordiamo che tali stock, secondo le ipotesi qui introdotte, sono individuabili a tre livelli: biologico (la biosfera), economico (sistema produttivo, impianti, infrastrutture ecc.) e sociale (strutture informali, relazioni sociali, ecc). Un’analisi completa non dovrebbe mancare di considerare un quarto livello, ossia quello delle conoscenze/valori che definiscono l’immaginario collettivo.

22 Per una illustrazione più compiuta e formalizzata di tale processo mi sia consentito rinviare al modello presentato nella mia Introduzione a N. Georgescu-Roegen, Bioeconomia. Verso un’economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

23 Vedi il saggio di S. Latouche qui pubblicato.

24 Cfr. S. Latouche, Assurdità del produttivismo e degli sprechi: per una società della decrescita, Le Monde Diplomatique, Nov. 2003.

25 Non si tratta quindi di un appello rivolto ai paesi del Sud, quanto piuttosto e, innanzitutto, ai paesi del Nord. Anche per i paesi meno avanzati, tuttavia, la decrescita comporta un significativo cambiamento di prospettiva: non si tratterebbe più, infatti, di seguire questi ultimi lungo il sentiero dello sviluppo. Questa via, oltre ad essere distruttiva per gli ecosistemi, è - in ogni caso - loro preclusa in quanto gli aumenti della domanda globale sono ampiamente coperti dagli aumenti di produttività dei paesi Occidentali. Si tratterà dunque, anche per i paesi del Sud, di puntare in un’altra direzione. Su questo punto si rimanda alle più ampie considerazioni sviluppate in seguito.

26 Da un punto di vista economico, l'ipertrofia dimostrata dal sistema produttivo poggia - tra l’altro - sul fatto che le imprese non pagano i costi ecologici e sociali necessari al loro funzionamento. Il recupero di queste esternalità costituisce uno strumento molto importante - per quanto non sufficiente - per una società di decrescita. Essa potrebbe essere attuata, come ha proposto H. Daly, attraverso un progressivo trasferimento della tassazione dal reddito al consumo di risorse. Questo porterebbe ad una spontanea ristrutturazione del sistema produttivo su scala più sostenibile, favorendo l’emergere di una società conviviale.

27 Cfr. K. Boulding, Evolutionary Economics, Sage, London, 1981, M. Bonaiuti, Relazioni e forme di un’economia “altra” in Mauss n. 2, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

28 Cfr. Ivan Illich, La Convivialità, Mondadori, Milano, 1974, p. 14.

29 Cfr, S. Latouche, La megamachine, La decouverte, Paris (trad. it. La Megamacchina, Bollati Boringheri, Torino 1995).

30 Cfr. A. Magnaghi, Progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

31 Si fa qui riferimento in particolare all’esperienza della Rete del Nuovo Municipio.

32 Occorre ovviamente essere consapevoli dei rischi impliciti in questa concezione, qualora venisse assolutizzata. Il territorio non va quindi inteso come sistema chiuso, (localismo difensivo), ma come sottosistema aperto di un più vasto sistema economico e sociale sostenibile. Cfr. la "Carta della Rete del Nuovo Municipio".

33 Naturalmente questo non deve portare a credere che sia possibile sostituire interamente la produzione di beni tradizionali con beni relazionali. Tale sostituzione non è infatti estensibile a tutti i settori produttivi, né tantomeno a livello globale. Anche questo processo di sostituzione, per quanto importante non va assolutizzato. In questo caso diventerebbe pericoloso, non diversamente dai miti della dematerializzazione del capitale, della esaltazione campanilistica o xenofoba del territorio, o della esaltazione della partecipazione.