Anna Bravo

Donne, guerra, memoria

1. Vecchio e nuovo nelle guerre

Negli ultimi decenni, un numero sempre maggiore di paesi ha aperto le forze armate alle donne; é forse il simbolo più vistoso della crisi che ha investito nel mondo occidentale il sistema di divisione dei ruoli secondo il genere sessuale. Ma quando, nel gennaio ’91, una delle trentamila donne soldato impegnate nella guerra del Golfo viene catturata dagli iracheni, stampa e televisioni reagiscono in tutto il mondo con emozione e stupore. Quella prigionia inquieta, evoca sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo luogo quello dello stupro, fantasma perenne dell’immaginario maschile ma anche eventualità concreta, come la gravidanza che potrebbe derivarne. Nonostante il grande rilievo dato dai media alla presenza femminile nel Golfo, sembra che solo in quel momento si scopra che ha implicazioni intollerabili: un carcere nemico non é posto per una donna. Eppure cadere prigionieri é una delle conseguenze più ovvie del fare la guerra, ed é già successo a molte - basta pensare alle deportate politiche e alle combattenti dei movimenti di liberazione antinazisti.

L’allarme di fronte alla prigionia di una giovane donna assomiglia per certi aspetti alla reazione con cui durante le due guerre mondiali si guarda ai nuovi lavori femminili. È il fenomeno cui si richiamano prioritariamente le tesi che vedono nelle guerre un potente acceleratore della modernizzazione; e con buoni argomenti.

Nella prima, le donne entrano a milioni in settori prima loro preclusi, innanzi tutto nell’industria bellica, a milioni afferrano le opportunità inedite proposte dall’amministrazione pubblica, dai servizi, dalle stesse forze armate, lavorando sia sul territorio metropolitano con compiti di assistenza e sussistenza, sia al fronte come infermiere, guidatrici di ambulanze, ausiliarie militari.

È una rottura drastica e repentina della divisione sessuale del lavoro che con modalità diverse riguarda tutti i paesi belligeranti e porta non solo gruppi, ma masse di donne fuori da ruoli e settori classificati come femminili, rendendole per la prima volta visibili con questa ampiezza in un ambito non domestico. Meraviglia e preoccupazione sono forti, specialmente in realtà come quella italiana, dove la tradizione culturale e religiosa vede nel lavoro fuori casa una minaccia alla purezza femminile e all’integrità del nucleo familiare.

Insieme alla mancanza di precedenti, ad acuire l’inquietudine é la crisi complessiva che si innesca con la prima guerra, il crollo di un intero mondo, dei suoi simboli, delle sue chiavi di interpretazione del reale. Ma appunto per questo é significativo che nella seconda si abbiano reazioni simili: sulla stampa tornano, come fosse la prima volta, le immagini di postine, tramviere, operaie dell’industria pesante, e tornano gli interrogativi sulle loro capacità, i fantasmi di incidenti dovuti alla loro inadeguatezza ai nuovi impieghi. Lo stereotipo che vuole le donne incompatibili con gli spazi e le mansioni di volta in volta definiti maschili si dimostra tenace.

Si reggono su questa continuità alcuni tratti delle politiche del lavoro che, pur in presenza di differenze radicali su altri piani, si tramandano dalla prima alla seconda guerra: salari spesso migliori di quelli dei settori "femminili", ma quasi sempre lontani da quelli maschili; governi e imprese riluttanti a creare nidi, asili per la prima infanzia e camere di allattamento per le madri, e attenti a presentarli come misure temporanee; carattere a termine di molti nuovi lavori, cui le donne sono chiamate con una esplicita funzione di rimpiazzo dei maschi assenti, in alcuni casi addirittura sostitute ad personam. È l’aspetto basilare.

Rilevarlo non equivale a minimizzare gli aspetti di rottura, né a sostenere che finita l’emergenza le cose tornano uguali a se stesse. Al contrario. Proprio questa gestione del lavoro femminile indica che non si tratta solo di attuare strategie economiche, ma di ammortizzare una sfida, di tenere o di rimettere le donne al loro posto. Varia il modo di farlo e variano le reazioni sociali e istituzionali.

Durante la prima guerra, nella avanzata Torino la gente comune non trova niente da ridire se un vecchio o un ex cameriere si trasformano in operai, ma infierisce contro le donne accusate di aver preso un posto dove qualcun altro avrebbe potuto imboscarsi (1). Nel dopoguerra alla rapidissima espulsione dalle fabbriche si accompagnano ovunque attacchi scomposti contro la "donna nuova" che a partire da inizio secolo si é affacciata sulla scena culturale e lavorativa (2).

Alla fine della seconda guerra, la smobilitazione é più contenuta e minore l’ostilità verso figure femminili inedite. Non si tratta solo di un quadro politico diverso, ma della maggiore capacità di difendersi: nell’estate del ’45 le operaie torinesi reagiscono alla prospettiva di un’indennità di contingenza minore di quella maschile invadendo l’Unione industriali e imponendo la medesima cifra per donne e uomini capifamiglia (3). Che all’epoca il fatto resti isolato non lo rende meno importante come segnale di mutamento, in particolare della crescita di politicizzazione che nell’Italia del ’43-’45 tocca anche le donne.

Ma il quadro é molto meno lineare di quello proposto dalle interpretazioni delle guerre come pietre miliari che porterebbero a passi avanti irreversibili verso la modernità.

Per il lavoro di mercato, né l’una né l’altra delle due guerre mondiali inducono a un riesame concettuale e a un riassetto stabile della divisione sessuale del lavoro; più modestamente, provocano uno spostamento provvisorio dei suoi confini, imposto da un cambiamento dei ruoli maschili (dalla sfera produttiva alla sfera militare) anziché da una ridiscussione di quelli femminili (4).

Per quel che riguarda la conquista dei diritti politici, epilogo classico delle guerre e delle lotte di liberazione nazionale, bisogna interrogarsi innanzi tutto sulle sue radici: il voto nel ’18 alle donne britanniche, per esempio, é frutto dell’impegno pluridecennale delle suffragiste non meno che della necessità di dare riconoscimento alla mobilitazione femminile nel fronte interno, e un discorso simile vale per il voto riconosciuto alle italiane e alle francesi alla fine della seconda guerra mondiale. Bisogna interrogarsi anche sui limiti di quelle conquiste - l’acquisizione di uguali diritti formali può non intaccare affatto la marginalità politica - e sulla loro possibile reversibilità: in Algeria, con il codice elettorale del 1987, non integralista, si é tentato di dare agli uomini la possibilità di votare a nome delle donne.

Nel nuovo c’é molto del vecchio. Vale per il lavoro in settori maschili, come per l’ingresso delle donne nei movimenti di liberazione e nelle truppe regolari. Vale per le guerre del passato ma anche per la contemporaneità, sia di guerra sia di pace, nei limiti in cui é possibile oggi distinguere fra il tempo dell’una e dell’altra.

La vicenda degli Stati Uniti insegna. Nell’apertura dell’esercito alle donne ha certo pesato la lotta delle organizzazioni femminili/femministe liberal per la parità in tutti i campi. Ma sono stati determinanti due obiettivi di politica militare messi a punto negli anni Settanta: controbilanciare la presenza crescente di giovani neri sventando la prospettiva di un esercito troppo di colore; sostenere il volontariato, prevenendo tensioni popolari ricalcate su quelle contro la guerra del Vietnam e diffondendo un’immagine del servizio militare come mestiere, e mestiere non più "sporco" di altri (5). Non é un caso che la divisione sessuale del lavoro si sia prolungata all’interno delle forze armate e al fronte! , mentre , non diversamente che nelle guerre mondiali, al mutamento dei ruoli lavorativi extrafamiliari delle donne non ha corrisposto alcuna ristrutturazione stabile dei compiti e delle responsabilità nello spazio domestico. Durante la guerra del Golfo, la cura dei bambini e della casa delle combattenti é ricaduta per lo più su altre donne, molto di rado su uomini, e in ogni modo come fatto temporaneo ed eccezionale.

Nei processi di trasformazione la compresenza di vecchio e nuovo é la regola. Ma in questo caso si tratta di un carattere fondante: é nello spazio domestico che risiede il primo terreno di organizzazione della disparità. Se il nuovo si ferma alla sua soglia, i mutamenti economici e lavorativi rischiano di non intaccare nella sostanza i rapporti di genere; le conquiste politiche di essere vanificate. È difficile preservare uno spazio politico se non si può mettere contemporaneamente in questione quello culturale e simbolico.

Eppure la presenza femminile ha innescato conflitti solo in parte previsti e prevedibili. Due esempi fra molti: nell’esercito americano le donne hanno aperto il contenzioso delle differenti opportunità di carriera e delle molestie sessuali; durante la guerra del Golfo, altre hanno fatto leva sulla carica innovativa legata alla figura delle combattenti per mettere in discussione la propria, come le saudite che hanno manifestato alla guida di automobili contro il divieto di farlo imposto dall’interpretazione nazionale della legge coranica.

È un fatto tanto più importante se si pensa che in tutta l’area mediorientale le guerre hanno sfrenatamente rafforzato l’enfasi sulla maternità come valore e come servizio principale che le donne devono rendere alla nazione; lo stesso avviene nella ex Jugoslavia, dove la maternità é diventata strumento e bersaglio delle strategie di pulizia etnica. In questi casi c’é davvero da augurarsi che i cambiamenti siano instabili; e c’é da chiedersi se il dibattito sulla irreversibilità o meno delle trasformazioni non sia troppo vincolato alla storia dell’occidente e alla nostra vecchia concezione del cambiamento come invariabilmente progressivo. Applicarla alle vicende delle donne, dove non é affatto chiaro cosa rappresenti un miglioramento e cosa un peggioramento, e non lo é affatto come misurarli (6), sarebbe una leggerezza.

A noi pare che raramente una maggiore libertà femminile sia stata il sottoprodotto di processi che né la perseguivano né la prevedevano. Questi possono contribuire ad allargare la zona neutra in cui donne e uomini operano in termini relativamente interscambiabili; possono dilatare lo spazio d’azione e i compiti femminili, renderli più visibili, metterli in valore - ma come fatto a termine. Difficilmente ridefiniscono i ruoli maschili spostandoli verso la domesticità e la cura.

Se si guarda alla storia del novecento, l’impressione é che per quanto riguarda i rapporti di genere i risultati più importanti siano legati al tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco militarizzate. L’esempio più vicino nel tempo viene dalla prima fase dell’Intifada, in cui l’impegno per l’autonomia sociale e produttiva apre spazi e sollecita iniziative delle donne; mentre il predominio dell’aspetto armato a partire dal ’90-’91, con l’avvitamento nella spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova strage, ha tolto loro visibilità, respiro, forse consapevolezza (7).

Donne e uomini

Fare del nuovo una parentesi anziché un punto di partenza é stata la strategia generale per contenere gli effetti disordinanti delle guerre. Almeno potenzialmente, le trasformazioni minacciano infatti sia i rapporti di genere sia le costruzioni simboliche del maschile e del femminile, a partire da quella che associa le donne al privato e gli uomini alla sfera pubblica del lavoro e della politica.

Nel caso delle donne soldato, si direbbe che le preoccupazioni nascano dal loro distacco dalla casa non meno che dal loro contatto con il nemico. Nira Yuval-Davis (8) ricorda l’intervista radiofonica di un padre inglese che, dovendo occuparsi di due bambini piccoli dopo la partenza della moglie per il Golfo, confessava il suo sgomento per la mole di lavoro e formulava la calda speranza che lei rientrasse al più presto e se ne facesse nuovamente carico. Forse una donna capace di combattere e insieme disponibile a tornare alla domesticità può essere la versione postmoderna dell’emancipata, sempre titolare di un doppio lavoro, anche se il secondo é in questo caso radicalmente diverso da quello produttivo.

Altrettanto persistente si é dimostrato lo stereotipo che identifica la guerra con il maschile e la pace con il femminile. Al punto che, passate le emergenze che l’hanno contraddetto, ha finito spesso per riaffermarsi, sia pure in versione aggiornata: sì alle donne soldato, per esempio, ma protette dalla contiguità con il nemico e assegnate a settori e funzioni che non creino ansie di tutela, rivalità e controllo negli uomini.

C’é da stupirsi, ma non troppo. Più che a dar conto di quanto donne e uomini fanno, una costruzione simbolica serve a convalidare un assetto di norme e di immagini mentali: in questo caso, un assetto costitutivo della divisione dei ruoli fra donne e uomini e del rapporto individuo/Stato. A dispetto degli enormi cambiamenti nei rapporti fra i generi e nella soggettività femminile, da più parti si insiste tuttora nell’aspettarsi, quasi nell’esigere dalle donne in quanto tali, particolari competenze e assunzioni di responsabilità in tema di pace (9). Fra le molte che sene sono fatte carico, alcune hanno agito appunto in nome di una radicale estraneità di genere alla guerra; e le donne in nero, cui si deve se in questi anni il dissenso femminile é stato portato nelle strade e davanti a sedi diplomatiche e militari, hanno scelto deliberatamente i simboli classici del lutto e della testimonianza silenziosa. Ma il rischio, ha notato Lea Melandri, é "di riprodurre una parte già assegnata: quella di una fisicità senza parole, che si é voluta immobile nel tempo, a custodire gli eventi dell’esperienza umana che la storia ha escluso da sé: la nascita e la morte" (10). Quasi una riedizione del tradizionale pianto materno di fronte alle rovine della guerra.

Storicamente, sembra persino ovvio ricordarlo, la separazione non é invece mai stata netta. Nonostante le molte manifestazioni antibelliciste cui hanno dato vita, nella loro maggioranza le donne hanno lavorato sostenendo la guerra, ne hanno tollerato la violenza per rassegnazione, ma anche per convinzione, spesso sotto le insegne della maternità. A volte hanno preso le armi; sempre hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni; sempre hanno riparato ai guasti della guerra, o si sono sforzate di farlo.

Non é solo effetto dell’identificazione con il destino maschile o della propaganda - sebbene nessun governo abbia mostrato di ignorare che per impadronirsi dei corpi e dei cuori dei soldati bisogna prima conquistare, quanto meno neutralizzare, le donne. Il punto é che, in mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono nuove forme di autoaffermazione: maternità e lavoro femminile sono promossi a componente decisiva dello sforzo nazionale, la funzione simbolica della donna viene esaltata come contraltare più che mai prezioso al mondo della violenza. Ne nasce anche, almeno per alcune, la possibilità di guadagni economici, di avventure e vantaggi personali. Di più: singole donne possono trovarsi, per scelta, necessità o caso, a trasmettere informazioni e fare sabotaggi, a guidare un’azione armata, salvare e uccidere, torturare e proteggere; e a potenziare con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente per la interposta persona dell’uomo. A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredità storica hanno finora immunizzato le donne dall’orgoglio di condividere esperienze fondate su categorie da cui nella normalità sono state escluse come gloria, onore, virtù civile; né hanno loro impedito di combattere con vecchie e nuove armi (11).

Vuol dire allora che scegliere la pace può dimostrarsi, anziché l’adesione irriflessa a uno stereotipo, una sua interpretazione creativa, e questo libro vorrebbe indicarne alcune espressioni. Vuol dire anche chiedersi se le combattenti in armi manifestino o meno diversità riconoscibili nel modo di vivere la guerra, per esempio una resistenza all’astrazione del pensiero militarista e alla riduzione del nemico a alieno, mostro, non uomo. In mancanza di certezze, si può almeno ribadire che le motivazioni e le esperienze formano un mosaico così complicato da non sopportare generalizzazioni.

Ma é così per la stessa esperienza maschile. Assegnarla in toto alla guerra é altrettanto meccanico che identificare donne e pace. Solo una parte degli uomini fa il soldato, di questi solo una parte combatte; e non tutti sono affetti dal virus militarista. Diversamente, come spiegare il bisogno della leva obbligatoria, come spiegare le renitenze di massa, gli innumerevoli processi - centinaia di migliaia nell’Italia del ’15-’18 - per diserzione, rifiuto di obbedienza, abbandono del posto?

Come hanno rilevato per primi alcuni studi ormai classici sulla grande guerra, a intaccare il bellicismo é la stessa fisionomia che può assumere la conflittualità moderna, con il suo tempo interminabile, il suo carattere di meccanismo selvaggio, la dimensione di massa della morte. Nel ’14-’18 per molti volontari di classe media scoprire che la guerra é una copia mostruosa della vita industrializzata mette la parola fine a qualsiasi illusione romantica; a molti operai e contadini la condizione di soldato appariva già in partenza un insieme di mansioni pesanti, sporche e mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in divisa (12).

L’immagine della guerra come trionfo della mascolinità ne viene incrinata a fondo.

Che alla guerra si leghino il piacere della distruzione e lo stupore complice di fronte a manifestazioni di potenza terribili é un dato di fatto (13). Ma sono molti i comportamenti che lo contraddicono, ispirandosi invece al modello del guerriero compassionevole, capace di contenere la violenza, di non infierire sul nemico, di riconoscere il valore più alto non nell’uccidere, ma nel morire per gli altri.

Raramente gli altri sono la nazione o i civili. Più la guerra mostra il suo volto, più la fedeltà del soldato si concentra sui compagni, e precisamente su quelli fra loro che gli sono vicini: si combatte per non lasciarli soli, per aiutarli, se possibile per salvarli. Delle otto medaglie ottenute da un reparto di marines nel 1944, sei riguardavano uomini che si erano buttati a coprire le granate con il proprio corpo per proteggere i compagni dallo scoppio; così tutti e cinque i marines neri decorati di medaglia d’onore in Vietnam (14). È il culmine di una solidarietà che può venire da modelli precedenti, ma che per lo più nasce dall’interno stesso della guerra, dove la sofferenza e il rischio patiti a lungo e fianco a fianco uniscono come forse mai nella vita civile. I tanti episodi di fraternizzazione indicano che questo senso di comunanza ha spesso scavalcato gli schieramenti contrapposti.

Non solo: per un singolare paradosso, é il soldato, non l’uomo di pace, a imparare per primo a farsi carico del suo simile, sostituendo alla "virtù eroica" del combattimento quella che Todorov definisce virtù quotidiana della cura (15). Significa misurarsi con l’arte di ascoltare e di parlare, di palesare uno stato d’animo o di nasconderlo se si sa che può ferire o abbattere; significa badare al corpo dell’altro, toccarlo, medicarlo, tenerlo vicino. La guerra é forse l’unica occasione in cui giovani maschi sperimentano fra loro un lavoro di cura simile a quello svolto dalle donne, o riservato a figure professionali come medici, infermieri, psicologi. Non é un dato incompatibile con il bellicismo, spesso ne é anzi una componente; ma può portare anche alla sua negazione. Ne fa fede l’ambivalenza con cui lo guardano i comandanti militari, ora facendo della solidarietà di plotone un mito (16), ora temendola come risorsa per comportamenti antagonisti.

Che questo aspetto delle relazioni tra uomini sia stato incapsulato nella cifra dell’emergenza e nella categoria di cameratismo non ha niente di strano. La cura é così rigidamente associata alle donne che per definire il comportamento dell’uomo sollecito non si trovano altro che termini come materno o femminile. E se nel primo caso può agire il fascino dell’analogia eroicistica fra il sacrificio del soldato e quello della madre, un’identificazione con il femminile come "piccola" manutenzione della vita parrebbe devirilizzante, e dunque dannosa per la restaurazione dei rapporti di genere. Anche l’esperienza maschile della cura é stata così archiviata come fatto a termine, mentre il suo potenziale di critica alla polarità fra immagini del maschile e del femminile restava inesplorato.

Ma oggi, primavera duemila, ci sembra che alcuni aspetti del rapporto donne/uomini/guerra siano investiti pesantemente dall’effetto combinato delle trasformazioni tecnologiche e dei nuovi modelli di conflitto via via emersi dopo il crollo del muro di Berlino, in particolare quello sperimentato durante la guerra Nato/Serbia del marzo-giugno 1999. In questo caso, terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse. Sul territorio, uno scontro di tipo tradizionale fra l’Uck, (Esercito di liberazione del Kosovo) e le truppe serbe, che hanno sistematicamente usato la violenza sessuale come strumento della "pulizia etnica": qui le donne sono comparse essenzialmente come vittime, e in qualche caso come militanti della guerriglia nazionalista. Il cielo ha conosciuto invece una guerra tecnologica fatta esclusivamente di incursioni aeree su Serbia e Kosovo e di controffensive serbe: nessuna contiguità con il nemico, crucialità delle conoscenze tecniche, peso ridotto del fattore forza fisica. Mentre essere uomo o donna risultava una variabile meno rilevante, l’assenza di scontri ravvicinati e di insediamenti militari Nato in zona di guerra, il dislivello tecnico fra i contendenti e la brevità del conflitto hanno cancellato una delle condizioni-base su cui si é storicamente costruita la solidarietà fra compagni (ma anche la fraternizzazione con il nemico). Sebbene nella discussione sulla guerra del Kosovo di rado sia entrata una prospettiva di genere, é probabile che ne escano ulteriormente modificati sia il modello maschile del combattente, in molti conflitti sempre più simile a un tecnico che a un soldato, sia le funzioni delle donne nelle forze armate.

Note

1. T. Noce, Gioventù senza sole, Editori Riuniti, Roma 1950.

2. M. De Giorgio, Le italiane dall’Unità a oggi. Modelli culturali e comportamenti sociali, Laterza, Roma-Bari 1992, cap. I.

3. La manifestazione é ricordata in varie narrazioni presenti in B. Guidetti Serra, Compagne, Einaudi, Torino 1977.

4. Vedi F. Thebaud, La femme au temps de la guerre de ’14, Stock, Parigi 1986; M. R. Higonnet, J. Jenson, S. Michel, M. Collins Weitz (a cura di), Behind the Lines. Gender and the Two World Wars, Oxford University Press, Londra-New Haven 1987; G. Braybon, P. Summerfield, Out of the Cage: Women’s Experiences in two World Wars, Pandora Press, Londra-New York 1987; U. Frevert, Women in German History, Berg, Oxford 1989. Sull’Italia, F. Bettio, The Sexual Divison of Labour. The Italian Case, Oxford University Press, New York 1988.

5. Cfr. N. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War: Women’s Citizenship and Modern Warfare, in H. Bresheeth, N. Yuval-Davis (a cura di), The Gulf War and New World Order, Zed, Londra 1991, e C. H. Enloe, Le donne soldato americane e la professionalizzazione della "cittadinanza di prima classe", in E. Addis, V. E. Russo, L. Sebesta, Donne soldato, Ediesse, Roma 1994; nello stesso volume, vedi Sebesta, Donne e legittimità dell’uso della forza: il caso del servizio militare femminile (sull’arruolamento delle donne come risposta alle tendenze verso la delegittimazione dell’uso della forza), e Addis, Le conseguenze economiche del servizio militare: costi e benefici per le donne soldato.

6. J. W. Scott, Rewriting History, in Higonnet et al., Behind the Lines cit., p. 25. Sul concetto di modernità resta essenziale T. Mason, Moderno, modernità, modernizzazione: un montaggio, in "Movimento operaio e socialista", 1987, n. 1-2.

7. Vedi E. Donini, Che cosa resta, in "Inchiesta", 1991, n. 91-92.

8. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War cit.

9. Lo notava nell’84 Alessandra Bocchetti nel Discorso ! sulla gu erra e sulle donne, Centro culturale Virginia Woolf, Roma, ora in A. Bocchetti, Cosa vuole una donna, La Tartaruga, Milano 1995.

10. L. Melandri, L’illusione dell’innocenza, in "Il manifesto", 26 febbraio 1991.

11. J. B. Elshtain, Donne e guerra, Il Mulino, Bologna 1991, parte II, La virtù civica armata; S. Ruddick, Il pensiero materno, Red, Como 1993, pp. 191 sgg.

12. Vedi E. J. Leed, Terra di nessuno: Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985, cap. III, e l’altrettanto noto P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna 1984; per l’Italia A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

13. Cfr. J. G. Gray, The Warriors: Reflection on Men in Battle, Harper & Row, New York 1970.

14. Elshtain, Donne e guerra cit., p. 278. Vedi l’intero capitolo VI, Uomini: i molti militanti / i pochi pacifici.

15. Per la distinzione tra virtù "eroiche" e "quotidiane", T. Todorov, Di fronte all’estremo, Garzanti, Milano 1992.

16. Vedi M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra: da Marinetti a Malaparte, Mondadori, Milano 1990.