Susan Sontag

Sontag è stata una delle voci più importanti della controcultura degli anni sessanta ed era considerata una degli intellettuali più influenti d'America.

Autrice di 17 libri tradotti in 32 lingue, divenne famosa nel 1964 con la pubblicazione di 'Notes on Camp', che definì il concetto del "così brutto che è quasi bello" nei confronti della cultura popolare applicabile a tutto, dai boa di struzzo al 'Lago dei Cigni'. Questo saggio venne poi incluso due anni dopo in 'Against Interpretation'. L'ultimo libro di Susan Sontag, 'Davanti al Dolore degli Altri' era dedicato alle foto di guerra.

Sontag, nata a New York nel 1933, di origine ebraica, era cresciuta a Tucson e a Los Angeles. Era stata una bambina prodigio: a tre anni aveva già imparato a leggere, a 16 frequentava il college. Nel suo lavoro di scrittrice si amava definire una "moralista ossessiva" e una "zelota della serietà".

Tra i suoi romanzi più celebri, "L'Amante del Vulcano" del 1997, ambientato nella Napoli sontuosa e miserabile del Settecento.

Nel 2000 fu insignita di uno dei più prestigiosi premi letterari statunitensi, il National Book Award, per il suo romanzo ''In America''. Conosciuta anche per il suo lavoro di critico d'arte, cultura e società fin dagli anni sessanta, la Sontag era anche un'attivista per i diritti umani, nonchè esponente del movimento femminista.

Non c'è forma della rappresentazione - dalla pittura, al cinema, al teatro, alla letteratura, alla fotografia - che Susan Sontag non abbia appassionatamente frequentato, indagato, messo alla prova di quel che passa per essere scontato e al suo sguardo non lo è mai. Persino l'apparizione dei primi grattacieli di New York, davanti agli occhi increduli della attrice polacca protagonista del suo ultimo romanzo In America, si staccavano con prepotenza dal fondale della nostra immaginazione, ingombrata da milioni di immagini documentarie e cinematografiche, per avanzare verso il lettore trascinandolo a una rinnovata meraviglia. Ma forse, di tutte le arti che hanno catturato l'attenzione dì Susan Sontag, la fotografia è rimasta nei decenni quella verso cui ha mantenuto una affezione più costante, probabilmente per la seduzione esercitata dal suo carattere di leggibilità universale, per l'intrinseca democraticità del suo valore testimoniale, che valica le frontiere stabilite dalle lingue e dai back-ground culturali, sebbene non ci sia evidenza che possa fare a meno della parola per essere interpretata.Quando circa trent'anni fa apparve il saggio di Susan Sontag Sulla fotografia la sua eco fu tale che si riprodusse in una miriade di citazioni, imitazioni, parafrasi; e non soltanto perché quasi nulla era stato scritto fino a allora sull'argomento, ma perché quel saggio - inaugurale di un interesse che sarebbe velocemente diventato di moda - conteneva già in sé un panorama dal quale ben poche considerazioni sembravano restare escluse.

A proposito di guerra e di pacifismo, nel 2003 dichiarò di aver "sostenuto l'azione militare per la deposizione di Miloseviç e non l'intervento Usa in Iraq, che è stato il risultato di una nuova politica estera mondiale adottata dal mio paese: un'idea di Impero planetario sempre più aggressiva. Questa politica minacciosa, per nulla preventiva, è cominciata dopo l'11 settembre. Hussein è un mostro, è un dittatore di prima classe, ma sull'intervento in Iraq si sono dette una serie di bugie. Il vero motivo del conflitto è l'interesse americano ad avere basi militari permanenti nel paese di Saddam e esercitare il controllo sul petrolio. George W. Bush è più sanguinario dell'imperatore Augusto, può essere definito un barbaro ma è un grande furbo."

Nel 2002 era venuta in Italia a presentare In America, storia di una attrice polacca che con i familiari e gli amici emigra dall’Europa di fine Ottocento in un paese dove si è liberi di "immaginarsi come non si è ancora", perché è"un intero paese di gente che crede nella volontà". Quasi una storia personale. "Scrivere romanzi, abitare altre identità - aveva annotato in un breve saggio - dà la sensazione di perdere se stessi. Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo è più brillante di me. perché posso riscriverlo. Si scrive per leggere, sperando che gli altri possano leggere un libro pieno di saggezza, che sappia far giocare la mente, che dilati la capacità di comprendere e partecipare, che registri un mondo reale (non solo l’agitazione di una mente singola), al servizio della storia, che difenda emozioni contrarie e ardite."


E adesso, dopo il romanzo, signora Sontag, che cosa sta scrivendo?

Un altro romanzo, al quale penso dopo aver finito In America. Sarà pronto l’anno prossimo. Intanto preparo due brevi saggi, una novantina di pagine ciascuno, per riflettere attorno a due esperienze: la guerra e la malattia. Ero a Sarajevo e ho sofferto il dolore della gente. Ho in testa un titolo: Regarding the pain of others.

In italiano sarebbe «Guardando il dolore degli altri». Ma forse guardare non rende. Sarebbe qualche cosa di più: considerare e vedere...

Sarà una saggio sulla rappresentazione della guerra attraverso la fotografia, i video, i film, l’immagine insomma....

Tornando a un vecchio e famoso saggio «On photography»...

Ho visto la guerra non solo a Sarajevo. Prima ad Hanoi, poi in Rwanda, adesso in Afghanistan. Vorrei mostrare come l’immagine neutrale falsifica la guerra e la sofferenza che ne nasce. Il secondo libro, anch’esso breve, sarà sulla malattia. Un’altra esperienza mia, in questo caso sarò più autobiografica. Anni fa mi venne diagnosticato un tumore. Era una sentenza di morte, perché mi venne detto che il cancro era all’ultimo livello. Sopportai cure pesanti e ne uscii. Allora scrissi Illness as metaphor, la malattia come metafora. Non volevo dire di me, ma del modo in cui il malato e la malattia venivano stigmatizzati dalla coscienza comune. Per questo volevo fosse un libro utile. Credo d’esserci riuscita, non solo perché ho venduto tante copie in tante lingue diverse (trenta), ma perché la gente mi ringrazia ancora. Uscire dal ghetto della malattia, dai luoghi comuni che quasi additano la colpevolezza del malato. Quattro anni fa il cancro mi toccò per la seconda volta. La diagnosi arrivò molto presto. Mi sottoposi a un intervento chirurgico e alla chemioterapia. Sto bene. Non come una volta, ma sto bene e sono fiduciosa. Mi racconterò un po’ di più. Le idee erano nell’altro libro, in questo caso mi sembra giusto parlare di me. Non lo faccio abitualmente. Scrivere non è esprimere se stessi, il romanzo prende vita attraverso un personaggio inventato... Anche se ho l’impressione che in larga parte del pubblico l’idea di letteratura si sia ristretta a qualche cosa di personale, di biografico e basta.

La guerra, la malattia, quella malattia vissuta un tempo come un tabù, qualcosa da nascondere. Due esperienze estreme di vita e di morte, una collettiva, l’altra intima. Insieme possono diventare una lente particolare sul mondo?

A Sarajevo chiunque in qualunque momento poteva morire. Ci sono persone che sono morte nel proprio letto, in strada, persino in un cimitero mentre andavano a seppellire altri morti. La morte era sempre accanto. Il legame con la malattia è ovvio. Da malati si vive con la morte al fianco, soprattutto con la morte degli altri. Vale per i famigliari, per gli amici, per chiunque assista. Ho vissuto ore e ore di chemioterapia e il giorno dopo potevo non rivedere più chi sedeva accanto a me il giorno prima. Per questo non farei una distinzione sul senso di un vivere collettivo: chi s’ammala e chi gli sta vicino entra in una comunità, spogliata dei caratteri dell’esistenza quotidiana, nella forma non identica ma parallela di chi soffre l’assedio di una guerra, come a Sarajevo. Ricordo quei giorni quando non c’era la luce, non c’era l’acqua, si faticava a trovare da mangiare, la posta non funzionava. In albergo, nella camera, avevo due secchielli di metallo. In uno raccoglievo l’acqua per lavarmi. L’altro era il mio cestino dei rifiuti, che rimaneva inesorabilmente vuoto, tuttalpiù qualche pacchetto di sigarette acquistato al mercato nero. Era un’esperienza di spoliazione, di riduzione all’essenziale, nella quale al terrore s’aggiungeva l’euforia della sopravvivenza, come nella malattia e all’ospedale. È molto complicato ed è quasi indecente ammetterlo, ma sono prove in cui a ciascuno di noi si si rivelano il corpo, i sentimenti. In chemioterapia con me era un amico colpito dalla leucemia. Era Steven Gould. Mi lasciai sfuggire una domanda: non è divertente? Mi riferivo alla nostra sfida, alla coesistenza con il dolore e con la paura, alle scoperte. Rispose di sì. Poco dopo sarebbe morto. Nella guerra come nella malattia non si sa come possa andare a finire, narrazioni cariche di suspense. Mesi fa in un incidente stradale mi procurai varie fratture: ma era tutto scontato. Mi sarei riaggiustata....

Ancora la guerra. I giornali scrivono che Osama Bin Laden sta bene, che il mullah Omar sta bene, che insieme preparano nuovi attentati. Che impressione le fa leggere queste notizie dopo l’11 settembre e la guerra in Afghanistan?


Dal suicidio dell’impero sovietico, l’impero americano ha fatto il possibile per inventarsi un nuovo nemico, che non poteva identificare in un paese, sempre troppo piccolo davanti alla superpotenza. Per essere credibile il nemico doveva essere transnazionale, tale da giustificare la presenza americana e delle basi americane in tutto il mondo. Così si scoprì la droga e si mise in moto la guerra alla droga. Poca cosa: non s’andava oltre la Colombia, le Filippine, l’Afghanistan. L’11 settembre è stato il più grande regalo a un gruppo di potere che si è riconosciuto nell’amministrazione Bush, un gruppo che stava all’estrema destra e che adesso si è ricollocato al centro, scalzando il centro di Clinton che sembra diventato l’estrema sinistra. La parola terrorista può funzionare come in passato funzionava la parola comunista. Ovunque, in qualsiasi angolo del pianeta, si possono nascondere cellule terroriste. Un nuovo attacco alimenterebbe quello che Bush suggerisce, cioè l’immagine di uno stato assediato, di un fortino circondato, e giustificherebbe la militarizzazione che protegge dall’attacco e che restringe gli spazi di ogni opposizione democratica, di ogni discussione. Quando, dopo l’11 settembre, scrissi un articolo invitando a riflettere sulle ragioni di quell’atto, perché - dicevo - non bisogna giustificare, ma si deve tentare di capire, venni insultata e qualcuno invitò persino le autorità a deportarmi. Deportarmi per aver scritto solo cose di buon senso e della minaccia di gente che usa la religione come un’arma ideologica. Il problema grave è quello di una modernità nostra che non funziona ovunque allo stesso modo e che per molti paesi è diventata un oltraggio. Credo che per paesi così il linguaggio della Jihad possa risultare assai attraente. Credo che una buona via per capire la loro antimodernità (e l’uso della religione) sia la condizione della donna. In compenso a chi sta contro piacciono le semplificazioni, che annullano i problemi o li classificano sotto una stessa voce, il nemico necessario. Ci sono libri che hanno fatto la loro fortuna semplificando l’attacco dell’11 settembre...

Faccia qualche nome, per capire...


Lei è gentile. Non mi chieda tanto.

Già, troppo chiasso...

In Europa vale di fronte all’immigrazione. In America è altra cosa, non ha lo stesso peso simbolico, perché l’America è un paese disegnato dall’immigrazione. Ma l’immigrazione in Europa è il fantasma di un pericolo, l’invenzione simbolica di un’emergenza che fugge la politica...

l'Unità, 25.06.2002

Susan Sontag

Scrivere e leggere


Leggere romanzi mi sembra del tutto normale, scriverli, invece, tanto strano... lo penso finché poi ricordo a me stessa quanto le due cose siano strettamente correlate. (Niente generalizzazioni blindate, solo qualche osservazione). Primo, perché scrivere è esercitare, con particolare intensità e attenzione, l'arte del leggere. Scrivi per leggere ciò che hai scritto, per vedere se va bene e, visto che non è mai così, riscriverlo una, due, quante volte ci vogliono per farlo diventare qualcosa che puoi sopportare di rileggere. Sei il tuo primo, forse più severo lettore. "Scrivere è arrogarsi il diritto di giudicare se stessi", scrisse Ibsen sul risvolto di copertina di uno dei suoi libri. Difficile immaginare di scrivere senza rileggere. Ma quello che si scrive di getto davvero non va mai bene? Certo che sì, persino più che bene, tanto da suggerire, almeno a questa scrittrice, che a guardar meglio, o a voce alta, cioè rileggendolo, potrebbe ancora migliorare. Non dico che lo scrittore debba logorarsi per produrre qualcosa di buono.

"Ciò che è scritto senza sforzo non si legge in genere con piacere" disse il Dr. Johnson, e la massima sembra lontana dal gusto contemporaneo quanto il suo autore. Molti scritti prodotti senza sforzo danno sicuramente un grande piacere. No, il problema non è il giudizio dei lettori, che preferiscono forse opere più spontanee, meno elaborate, ma quello che pensano gli scrittori, questi professionisti dell'insoddisfazione. Pensi: se riesco ad arrivare a questo livello al primo tentativo, senza troppa difficoltà, non potrei fare ancora meglio? 
E benché questo - il riscrivere, e il rileggere - suoni faticoso, è in realtà la parte più piacevole dello scrivere. Talvolta l'unica parte piacevole. Mettersi a scrivere, con in mente l'idea della "letteratura" è arduo, spaventa. Un tuffo in acque gelide. Poi ti scaldi, quando hai già qualcosa da elaborare, migliorare, correggere. 
Mettiamo che sia un disastro, ma che ci sia il modo di sistemarlo. Cerchi di essere più chiaro. O più profondo. O più eloquente. O più eccentrico. Cerchi di essere fedele a un certo mondo. Vuoi che il libro spazi di più, sia più autorevole. Vuoi tirar fuori te stesso da te stesso. Vuoi tirar fuori il libro dalla tua mente recalcitrante. Il romanzo è dentro la tua testa, come la statua è sepolta nel blocco di marmo e tu tenti di liberarlo. Tenti di avvicinare quella robaccia sulla pagina a quello che pensi dovrebbe essere il tuo libro a quello che sai, nei tuoi accessi di esaltazione, che il tuo libro può essere. Leggi e rileggi ogni frase. È proprio questo il libro che sto scrivendo? È davvero tutto qui? 

Mettiamo invece che vada bene. Perché va bene, a volte (in caso contrario un giorno o l'altro impazziresti). Ecco fatto, anche se scrivi a mano più lentamente di chiunque altro e sei pessimo a dattilografare, hai aperto un sentiero di parole e vuoi andare avanti, così lo rileggi. Forse non osi esserne soddisfatto, ma nello stesso tempo ti piace quello che hai scritto. Ti ritrovi a gustare con piacere, un piacere da lettore, quello che c'è sulla pagina. Scrivere in fondo non è altro che fare a te stesso una serie di concessioni, permettendoti di esprimerti in un certo modo. Di inventare. Saltare. Volare. Cadere. Di trovare il tuo proprio modo di narrare e di affermare, di trovare cioè la tua libertà interiore. Di essere severo senza farti troppo male. Di non fermarti troppo spesso a rileggere. Di continuare a remare, quando osi pensare che stia andando bene (o non troppo male), senza aspettare la spinta dell'ispirazione. 

Gli scrittori ciechi non possono certo rileggere ciò che hanno dettato. Forse non è un grosso problema per i poeti, che spesso hanno nella mente gran parte delle loro opere prima di mettere qualsiasi cosa sulla carta. (I poeti si affidano all'orecchio ben più di quanto facciano i prosatori.) Non poter vedere non significa che non si faccia opera di revisione. Come non immaginare che le figlie di Milton abbiano riletto al padre, ad alta voce ogni sera le parti di Paradiso perduto che lui dettava per poi annotarne le correzioni? Ma i prosatori, che lavorano tra cataste di parole non possono tenere tutto a mente. Hanno bisogno di vedere quello che hanno scritto. Deve essere così anche per gli scrittori all'apparenza più capaci di comunicare, più prolifici. (Così Sartre, divenuto cieco, annunciò la fine della sua carriera di scrittore.)
Pensiamo al grande, venerabile Henry James, che passeggia su e giù per una stanza a Lamb House mentre detta The golden Bowl ad una dattilografa. Lasciando da parte la difficoltà ad immaginare come James abbia potuto dettare in assoluto la sua ultima prosa, e per giunta al ticchettio infernale di una Remington del 1900, non c'è forse da presumere che James abbia riletto il dattiloscritto, e sia stato prodigo di correzioni? Quando tornai ad ammalarmi di cancro, due anni fa, e dovetti smettere di lavorare a In America, ormai quasi terminato, un gentile amico di Los Angeles, che mi sapeva disperata e preoccupata di non poter mai più finire il libro, si offrì di prendere un periodo di aspettativa dal lavoro e di venire a stare con me a New York per tutto il tempo necessario a dettargli il resto del romanzo. È vero, i primi otto capitoli erano pronti (cioè riscritti e riletti molte volte), avevo iniziato il penultimo e sentivo di avere in mente l'arco completo dei due capitoli finali, eppure... eppure dovetti respingere la sua offerta, per quanto generosa e commovente. Non fu solo per il fatto che ero già troppo confusa da dosi massicce di chemioterapici e di antidolorifici per ricordare che cosa avevo in mente di scrivere. Dovevo essere in grado di vedere che cosa avevo scritto, non semplicemente di sentirlo. Dovevo poter rileggere. 

La lettura precede di solito lo scrivere e l'impulso a scrivere è quasi sempre scatenato dalla lettura. Leggere, l'amore per la lettura, è quello che ti fa sognare di diventare scrittore. E dopo che lo sei diventato, leggere libri scritti da altri e rileggere i tuoi libri preferiti, rappresenta un'irresistibile distrazione dallo scrivere. Distrazione. Consolazione. Tormento. E, sì, ispirazione. Naturalmente non tutti gli scrittori lo ammetteranno. Ricordo che una volta parlando con V.S. Naipaul ho fatto accenno ad un romanzo inglese del diciannovesimo secolo che adoravo, e che pensavo lui ammirasse altrettanto, come tutti gli appassionati di letteratura che conoscevo. Invece no, mi disse che non lo aveva letto, e notando un'ombra di meraviglia sul mio volto aggiunse severo: "Sono uno scrittore, Susan, non un lettore." 
Molti scrittori ormai non più giovani sostengono di leggere poco, per svariate ragioni, e di considerare in realtà lettura e scrittura in qualche modo incompatibili. Forse per alcuni è davvero così, non sta a me giudicare. Se dipende dal timore di essere influenzati, mi sembra una preoccupazione inutile, superficiale. Se è per mancanza di tempo - le ore sono quelle e se le passi a leggere, ovviamente non puoi scrivere - allora è un ascetismo cui non aspiro. 
Perdersi in un libro, il vecchio detto, non è pigra fantasia, ma un modello di realtà che dà assuefazione. Sono famose le parole di Virginia Woolf in una lettera: "Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine." Sicuramente il paradiso sta, ancora con le parole della Woolf, "nella completa eliminazione dell'ego durante la lettura". Sfortunatamente non smarriamo mai l'ego, come non possiamo andare oltre i nostri piedi. Ma quel rapimento incorporeo, leggere, è una sorta di trance sufficiente a farci sentire privi di ego. 
Come la lettura, quella estatica, scrivere romanzi, abitare altre identità, dà anche la sensazione di perdere se stessi. A tutti oggi piace pensare che scrivere sia solo una forma di amor proprio, definita anche autoespressione. Dato che non siamo più reputati capaci di un altruismo autentico, si presuppone che non sappiamo scrivere se non di noi stessi. Ma non è vero. William Trevor parla del coraggio dell'immaginazione non autobiografica. Perché non dovresti scrivere per sfuggire a te stesso, piuttosto che per esprimerti? È molto più interessante scrivere di altre persone. Inutile dire, ho prestato una piccola parte di me ad ogni mio personaggio. Quando in In America i miei immigrati polacchi arrivano nel sud della California e, usciti dal villaggio di Anaheim nel 1876, vagabondando nel deserto vengono sopraffatti da una spaventosa, trasformante visione di vuoto, stavo di certo attingendo al mio personale ricordo delle passeggiate fatte da bambina nel deserto dell'Arizona meridionale, appena fuori quella che allora era una piccola città, Tucson, negli anni '40. Nella prima stesura di quel capitolo c'erano i saguaros (enormi cactus a forma di candelabro, ndt) nel deserto della California meridionale. Alla terza stesura li avevo eliminati a malincuore. (Ahimè, niente saguaros a ovest del fiume Colorado.) 
Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo infatti è più brillante di me. Perché posso riscriverlo. I miei libri sanno quello che sapevo una volta , in forma irregolare, a intermittenza. E mettere sulla carta le parole migliori non diventa più facile neppure se si scrive da molti anni. Al contrario.
Qui sta la grande differenza tra leggere e scrivere. Leggere è una vocazione, un'arte, nella quale, con l'esercizio, sei destinato a diventare più abile. Da scrittore accumuli soprattutto incertezze e timori. Tutto questo senso di inadeguatezza da parte dello scrittore - della qui presente, in ogni caso - è basato sulla convinzione che la letteratura conti (contare è sicuramente un eufemismo), che ci siano libri "necessari", libri cioè che mentre li leggi, sai che rileggerai. Forse anche più di una volta. Esiste forse privilegio più grande di avere una coscienza estesa, riempita dalla letteratura e ad essa orientata? Un libro pieno di saggezza, che sappia far giocare la mente, che dilati la capacità di comprendere e partecipare, che registri fedelmente un mondo reale (non solo l'agitazione di una mente singola), al servizio della storia, che difenda emozioni contrarie e ardite... un romanzo che si reputa necessario dovrebbe essere gran parte di queste cose. Se poi continueranno ad esserci lettori che condividono questa alta concezione di letteratura, beh, "È una domanda senza risposta", come disse Duke Ellington una volta che gli chiesero perché lo si trovasse ancora a fare "matinée" all'Apollo. Meglio continuare a remare.

la Repubblica, 18 dicembre 2000

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