Lelio La Porta
Hannah Arendt e la rivoluzione
|
|
|
Il testo arendtiano Sulla
rivoluzione (1963) affronta il tema della rivoluzione
a partire dall’osservazione secondo la quale l’idea
centrale della rivoluzione “è l’instaurazione
della libertà, ossia la fondazione di uno stato
che garantisca lo spazio in cui la libertà può manifestarsi”.
Attraverso lo studio comparato delle rivoluzioni americana
e francese, la Arendt coglie nell’opposizione fra
la felicità come diritto inalienabile della dichiarazione
d’indipendenza americana e la rivoluzione sociale
dei rivoluzionari francesi il cuore della questione. La
rivoluzione francese, perciò, non può essere
definita una rivoluzione politica in quanto fu mossa “dall’urgenza
delle sofferenze del popolo; fu determinata da un’esigenza
di liberazione non dalla tirannide ma dalla necessità,
e fu realizzata dalla illimitata immensità della
miseria del popolo e della pietà che questa miseria
ispirava. L’illegalità del “tutto è permesso” scaturisce
anche qui dai sentimenti del cuore, la cui stessa infinita
grandezza contribuì a scatenare un oceano di infinite
violenze”. La sofferenza del popolo, quindi, si trasformò in
rabbia che diventò forza devastatrice e fu glorificata
dai leaders della rivoluzione che “si
accinsero a emancipare gli individui non in quanto futuri
cittadini ma in quanto malheureux […] La
liberazione dell’uomo
dalla sofferenza, quando cessò di preoccuparsi dell’instaurazione
della libertà per dedicarsi alla liberazione dell’uomo
dalla sofferenza, rovesciò le barriere della sopportazione
e liberò invece, per così dire, le forze
devastatrici dell’infelicità e della miseria”.
Nella rivoluzione francese la liberazione, ossia la ricerca
della libertà dalla necessità di una vita
misera quale quella dei poveri e degli infelici, sostituì la
libertà il cui unico fine è manifestarsi
per realizzare uno spazio politico nel quale gli uomini
possano convivere. La vera felicità, al dunque,
per i rivoluzionari francesi consisterebbe nella liberazione
dalla necessità.
Ben altro, secondo la Arendt, accadde in America; qui la
felicità già era un diritto inserito nella
Dichiarazione d’indipendenza, per cui agli americani
non si poneva il problema della liberazione dalla necessità come
raggiungimento della felicità in quanto per loro la
felicità era un dato già acquisito. Infatti
i coloni americani avevano fatto apprendistato di questa
felicità partecipando spontaneamente agli affari pubblici,
nella fase precedente la guerra d’indipendenza; la
pubblica felicità “consisteva
per i cittadini nel diritto di accedere alla sfera pubblica,
di partecipare all’esercizio del pubblico potere […] Il
fatto stesso che la parola felicità fosse scelta per indicare
la partecipazione al potere pubblico indica chiaramente che
nel paese prima della rivoluzione, esisteva già qualcosa
come la felicità pubblica e che gli uomini sapevano
di non poter essere felici se la loro felicità era
collocata e goduta solo nella vita privata”.
In sostanza,
per la Arendt, i coloni americani fondarono politicamente
uno spazio pubblico nel quale si esercita la libera attività dei
cittadini, della pluralità. Tale spazio fu garantito
dalle esperienze di governo rappresentativo attuate in alcune
delle colonie, in specie in quelle della Nuova Inghilterra
(Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, New Hampshire),
dove il 70% dei maschi adulti aveva accesso alle urne. Venivano
elette assemblee legislative che si aggiungevano ai consigli
nominati dall’alto che affiancavano nella sua opera
di controllo un governatore di nomina regia (soltanto Connecticut
e Rhode Island erano prive di governatore). Inoltre erano
diffuse forme di autogoverno locale che legiferavano su materie
ritenute non di pertinenza del potere monarchico. Nonostante
queste esperienze di governo rappresentativo fossero abbondantemente
condivise e radicate fra i coloni, esse non venivano estese
né agli schiavi neri, che tali rimanevano, né agli
indigeni ritenuti come una sorta di ostacolo al processo
di colonizzazione e, quindi, affrontati con uno strumento
ritenuto più efficace dell’integrazione: la
violenza. Quando i Padri fondatori si riunirono a Philadelphia
nel 1787 per redigere la Costituzione degli Stati Uniti d’America
avevano alle loro spalle una solida tradizione su cui lavorare.
Soprattutto le esperienze di autogoverno locale diventarono
un punto di riferimento in quanto lo spezzettamento del governo
in tante piccole unità locali deponeva a favore
di una sempre maggiore partecipazione politica. La storia
degli Usa ha mostrato invece una maggiore disponibilità al
voto federale piuttosto che a quello locale, smentendo in
questo i Padri Fondatori e, forse, anche la Arendt la quale,
peraltro, non si preoccupa di fare riferimento allo sfondo
storico che costituisce il referente necessario per fissare
nei termini concreti quale sia stato il fondamento autentico
della Costituzione degli Stati Uniti.
Quindi la diversità dello sfondo storico, politico
ed intellettuale di Francia ed America è in parte
responsabile degli esiti delle due rivoluzioni e della diversa
consistenza istituzionale delle forme del potere che da esse
derivarono. Al tirar delle somme, mentre la rivoluzione americana
instaurò la libertà, la rivoluzione francese
instaurò il regno del terrore come unica soluzione
possibile del nesso libertà-necessità; ossia “… le
rivoluzioni moderne che si sono date alla violenza lo hanno
fatto solo perché hanno modificato le priorità del “compito
della fondazione”; le rivoluzioni che ricorrono
alla violenza sono preoccupate di liberare l’uomo dalla
necessità e non solo dal dominio. La critica della
Arendt alla violenza nella modernità (il terrore delle
rivoluzioni “sociali” in Francia e in Russia,
o il fenomeno moderno del totalitarismo) è condotta
a partire dalla convinzione che la libertà dalla necessità implica
il fare dell’uomo un mezzo “assoluto” (il
totalitarismo allora sarebbe la tremenda realizzazione di
quella idea di libertà) mentre la libertà dal
dominio è la appropriata assunzione del fatto che
l’uomo è un fine in se stesso (la repubblicana constitutio libertatis allora
sarebbe la realizzazione di quest’altra idea di libertà)”.
|
|