LA DONNA SI DIFENDE
Guida pratica alla difesa personale
4. LE ARTI MARZIALI
ORGOGLIO E PREGIUDIZIO
In un libro rivolto alle donne, parlare di arti marziali è in qualche modo imbarazzante: cosa c’è di più tradizionalmente maschile del combattimento? E, ancora, se per arti marziali intendiamo quell’insieme variegato di discipline di lotta [76] che si è sviluppato in particolare in Estremo Oriente, non possiamo non rilevare come proprio in questi paesi, seppur con modalità molto differenziate, la donna era - e in buona misura è ancora - in posizione nettamente subalterna nell’ambito di una gerarchia, culturale e sociale, la cui architettura è tutta maschile.
Un esempio per tutti: in Cina, malgrado che la rivoluzione abbia rappresentato una cesura fortissima rispetto alle strutture e alle tradizioni feudali, non è affatto scomparsa la cultura dell’infanticidio “mirato”: l’eliminazione, cioè, delle neonate, soprattutto nelle campagne dove la sopravvivenza di una famiglia è condizionata dalla presenza di braccia forti.
E la fotografia, molto nota qualche anno fa, del soldato americano preso prigioniero da una giovane e minuta vietcong, ha più un valore simbolico che il significato di una parità su cui pesano negativamente millenni di storia.
Su varie arti marziali, inoltre, ha molto pesato l’origine “di casta”, rigorosamente maschile, oltre che l’apparentamento stretto con culture apertamente reazionarie. [77]
Sì è già detto che in uno scontro fisico il peso e la forza muscolare sono elementi determinanti, e ciò pone la donna in condizione di innegabile inferiorità, ma, viceversa, l’agilità, la resistenza, la determinazione, l’abilità manuale, sono caratteristiche che, almeno teoricamente, [78] rendono la donna in grado di fronteggiare assai efficacemente un avversario corpulento.
Questo vale, a maggior ragione, per le tecniche di lotta basate sull’uso del corpo, ma a ben vedere si adatta perfettamente anche al combattimento con le armi, sia quelle tradizionali (arco, coltello, spada, lancia, ecc.), sia quelle ricavate da attrezzi (bastone, uncino, frusta, zappa, catena, ecc.), [79] sia quelle da fuoco.
È evidente che parlare di combattimento significa parlare di armi, ma il sacrosanto disgusto per questi strumenti di morte non deve farci perdere di vista il punto essenziale: ripudiare la violenza non può voler dire subirla passivamente, e quindi ignorare le possibilità di difesa. [80]
In ogni caso un discorso sulle armi esula dall’argomento di questo libro, oltre che dalle competenze dell’autore, e se ne farà cenno solo perché il loro uso è strettamente connesso con molte forme di combattimento.
Parlare di arti marziali significa addentrarsi in un terreno insidioso, se non in un vero e proprio labirinto: si è già detto come a riguardo siano innumerevoli i luoghi comuni, le leggende, la disinformazione in genere, e se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che, a fronte di una matrice comune (il combattimento), si sono sviluppate nei secoli discipline con tecniche e filosofie anche molto diverse tra loro, la questione si fa davvero complessa.
Qui, però, non importa analizzare l’uso distorto che il cinema ha fatto delle arti marziali, dandone un’immagine volgarmente spettacolare, dominata da machos irresistibili che, magari con l’ausilio di oscure pratiche mistiche, inevitabilmente trionfano su perfidi e degenerati maestri. Questa spazzatura sta alle arti marziali esattamente come le telenovelas stanno all’amore, o la parapsicologia alle ricerche mentali: se poi vi piace Beautiful o vi fate fare le carte, allora potete anche godervi Bruce Lee. [81]
Né, viceversa, m’interessa esaltare la validità “spirituale” della pratica di un’arte marziale, o cercare di dimostrare la superiorità di una specifica disciplina sulle altre.
Vorrei solo, come ho già avuto modo di accennare nell’Introduzione, fornire alcuni elementi conoscitivi generali, che consentano a chi non pratica alcuna arte marziale di farsi un’idea di questo mondo ed eventualmente accostarsi alla disciplina che ritiene più convincente.
L’importante è ricordare che alla base di questa scelta di approfondimento devono esserci motivazioni razionali (migliorare la propria capacità di autodifesa, acquisire un maggior equilibrio mentale, curare la salute fisica), non la velleità di diventare imbattibili o di risolvere solo per questa strada i propri problemi psicofisici.
In realtà occorre tenere conto che le arti marziali devono essere intese come discipline del corpo e della mente più che come insiemi di tecniche, quindi la loro diretta utilizzabilità ai fini dell’autodifesa è raggiungibile solo dopo anni di pratica: quindi, se v’interessa soltanto acquisire rapidamente strumenti idonei alla difesa personale, praticare un’arte marziale non è indispensabile, ma, più utilmente, potrete cercare qualche palestra in cui si dichiari esplicitamente l’ambito strettamente pratico che viene curato. [82] In alcune grandi città, le stesse Amministrazioni Comunali si sono fatte promotrici di corsi di autodifesa femminile.
Se invece volete orientarvi verso un discorso più generale, potrete cercare di farvi un’idea su quella che può essere la disciplina più adatta a voi: a questo proposito mi sembrano particolarmente utili e convincenti le considerazioni di Stefano Di Marino, nella sua Guida alle arti marziali (Mondadori, 1992) ma, semplificando al massimo, credo che i parametri di scelta (stato e tipologia del vostro fisico, tempo disponibile, orientamenti culturali) debbano in qualche modo essere subordinati alle possibilità oggettive che vi si offrono. A Milano o a Roma, infatti, potrete sicuramente fare una ricerca accurata fra decine di palestre, e trovare alla fine la disciplina ottimale per voi, ma in un centro più piccolo sarà prioritario invece individuare - ammesso che ve ne siano - degli istruttori seri, indipendentemente dalla disciplina che insegnano.
Fondamentale, quindi, è trovare il luogo giusto in cui praticare.
Per i giapponesi Do è la “via” attraverso la quale si tende continuamente all’elevazione spirituale: [83] il dojo è dunque il luogo dove si cerca la via attraverso la pratica di un’arte marziale.
In realtà anche le palestre più serie, in Occidente, il più delle volte hanno rinunciato a questo termine giapponese e la ragione è molto semplice: lo Zen non fa parte della nostra cultura, [84] così come assai distanti ci appaiono molti concetti che stanno addirittura alla base delle arti marziali.
Più in generale possiamo dire che in quasi tutte le arti marziali tradizionali (cioè non quelle che hanno assunto stabilmente una dimensione prettamente sportiva), di varia provenienza, gli aspetti formali o addirittura rituali, e nel complesso quelli legati alla cultura del paese d’origine, hanno grande importanza.
Assistiamo così al paradosso di istruttori nostrani (ma troppo spesso si fanno chiamare “maestri” senza averne titolo) [85] che imbottiscono gli allievi di nozioni di “cultura orientale” senza alcuna mediazione fra la loro vita di tutti i giorni e la lontananza della civiltà giapponese o cinese; e, al contrario, in molte palestre si bada più che altro all’addestramento per vincere le gare o per far bene a cazzotti, senza la minima attenzione alla storia e alla dignità di quell’arte marziale.
Questi estremi li ritroviamo, appunto, in molti dei luoghi dove si praticano arti marziali: è certo più accogliente un dojo col pavimento di legno e le pareti arredate da preziosi ventagli, piuttosto che una triste palestra al linoleum con vista su giovanotti stolidamente impegnati nel body building; ma non è detto che raffinatezza sia sinonimo di serietà, o, viceversa, che povertà di mezzi equivalga a superficialità.
Sono convinto che una buona palestra sia quella in cui c’è molto senso della misura (che è una delle essenze del karate), senza sciatteria ma senza eccessivo “orientalismo”: mi pare giusto che vengano osservate alcune abitudini tipiche del dojo [86] che taluni invece considerano formali banalità, ma trovo francamente ridicolo trasformare, per tre ore alla settimana, la palestra della scuola “De Amicis” di Canicattì o lo scantinato del circolo Arci di Voghera [87] in succursali del Sol Levante.
Ci sono moltissime palestre che promettono miracoli o che vantano una maggior “nobiltà” della loro scuola rispetto alle altre: diffidatene, cercate possibilmente di scegliere [88] sulla base dell’esperienza di una persona amica; rinunciate, piuttosto che affidarvi a qualche ciarlatano con pretese di grande “maestro”. Un modo che personalmente mi sento di suggerire per capire se una palestra non fa per voi è valutare l’importanza che viene data all’aspetto agonistico: se questo sembra essere dominante, lasciate perdere.
Più o meno ogni arte marziale può essere praticata a qualsiasi età (ma di regola è preferibile non iniziare prima dei 10-12 anni, e dopo una certa età è consigliabile un parere preventivo del medico curante) e se l’istruttore guarda con sufficienza i vostri chili di troppo o le vostre gambe un po’ rammollite significa che da lui imparerete ben poco; certo, se è una persona seria non vi vezzeggerà, anzi, vi farà sudare (e talvolta avrete seri dubbi sulla moralità della sua mamma), ma non confonderà mai il rigore con l’ottusità. E se anche siete in forma, o v’interessa fare agonismo, badate che potrete diventare un’ottima atleta soprattutto dove viene curata la serietà e si fanno le cose con calma, non dove l’obiettivo è fare incetta di coppe.
In ogni caso, evitate senz’altro una palestra che sembri una scuola per allievi kamikaze o in cui, viceversa, ciascuno si veste e si comporta come gli pare.
Ma può anche darsi che l’argomento arti marziali sia comunque al di là dei vostri interessi e non voglio certo convincervi che dovete a tutti i costi approfondirlo: si può amare la musica senza per questo essere dei provetti violoncellisti, come si può essere persone colte anche se non si è letto una pagina di Dostoëvskij. [89]
Vorrei solo aggiungere una considerazione rispetto a quella che in genere è la prima obiezione che si fa, ad esempio, al karate.
“Per carità, è così violento, io mio figlio piuttosto lo mando a nuoto, o a calcio, o a judo.”
Senza voler assolutamente entrare nel merito delle preferenze individuali, vorrei far notare che il nuoto, appunto, può talvolta provocare scompensi importanti dal punto di vista dello sviluppo armonico del corpo, e che il karate è invece considerato, dopo la danza, l’attività fisico-sportiva più completa.
A me il calcio piace molto, ma siete proprio sicure che, al pari dello sci o della pallacanestro, sia meno pericoloso del karate? [90]
Il judo è considerato molto meno violento del karate, perché fra l’altro non ci si danno calci e pugni. Guarda caso, però, il judo è nato specificamente come disciplina agonistica e presuppone, per definizione, la presenza attiva di un avversario. Il karate (almeno fino a certi livelli, e comunque richiedendo l’intervento di un istruttore) può anche essere praticato da soli, e anzi certi esercizi si devono necessariamente fare per conto proprio.
LE ORIGINI
Stanley Kubrick si è cimentato in quasi tutti i generi di cinema e in ognuno ha realizzato dei capolavori. 2001 Odissea nello spazio è il più bel film di fantascienza mai girato e chi l’ha visto non può non ricordare una delle scene iniziali, quando due branchi (no, ormai due gruppi) di scimmie si contendono l’acqua di uno stagno: una vera e propria guerra, le cui sorti si decidono quando uno dei due capi, un po’ per caso un po’ per intuizione, capisce che può usare l’osso di un animale morto come una clava.
Forza, abilità e intelligenza si combinano per dar vita a una soluzione strategicamente ineccepibile: il complesso dispositivo di leve, cuscinetti, articolazioni, che è il corpo, trova un’integrazione perfetta con qualcosa che sembrerebbe un semplice rifiuto della natura. Al precedente equilibrio se n’è sostituito un altro, fondato su un livello più alto di armonia.
Può sembrare un termine improprio riferito alla violenza, ma tutto l’universo è regolato (o almeno così pare) da questo paradosso: non vi è nulla di perfettamente stabile, tutto prima o poi si evolve attraverso un conflitto, il cui esito produce un equilibrio superiore, che a sua volta sarà superato da un altro conflitto e da questo scaturirà una situazione di status più raffinata. E così via.
L’arte marziale segue sostanzialmente uno sviluppo analogo: un insieme elementare di tecniche viene perfezionato, adattato alle situazioni, e questa continua rielaborazione genera un livello più sofisticato di conoscenze e di pratica.
Diversamente dalle tecniche più proprie della guerra (evento in cui la quantità di uomini e di armi e la loro brutalità sono determinanti), l’arte marziale si evolve in qualche modo secondo schemi nei quali praticità e bellezza sono ugualmente importanti.
Con ciò non voglio sopravvalutare l’aspetto estetico, perché lo scopo di un’arte marziale resta sempre uno: neutralizzare un avversario con la massima efficacia e rapidità possibili. Ma, come dicevo, l’arte marziale non è un fatto militare, [91] e l’importanza degli elementi formali - che hanno in ogni caso una strettissimo rapporto con quelli direttamente pratici - è da ricercarsi nelle molteplici e spesso misteriose correlazioni con la sfera magico-religiosa (la meditazione, il contatto con l’infinito), con quella medica (la respirazione, gli esercizi di longevità), con quella acrobatica (tuttora, in paesi anche molto distanti fra loro, come il Brasile o le Hawaii, certi incontri di lotta sono in realtà dei veri spettacoli di abilità).
Da questa complessità, unita al fatto che l’apprendimento di un’arte marziale può richiedere anche molti anni e sicuramente notevoli difficoltà, deriva che la storia delle arti marziali è circondata dal mistero: molto difficile era accedere a una scuola, e talvolta era ancora più arduo allontanarsene; [92] i maestri conservavano gelosamente il loro sapere e lo tramandavano secondo regole arcane e rigidissime, in genere affidando il cuore degli insegnamenti a un solo allievo designato come successore.
Per questo insieme di ragioni è praticamente impossibile ricostruire le origini e gli sviluppi di queste discipline (tra i molti siti dedicati alle arti marziali e che ne ricostruiscono la storia, segnaliamo http://www.funakoshidocesanomaderno.it/storia.html).
Da vari dipinti e sculture si può desumere con ragionevole certezza che forme di combattimento basate su tecniche di mano e di piede (quindi non semplice lotta corpo a corpo) erano già presenti nell’antica Grecia, e prima ancora, fra il 3000 e il 2000 a.C., in Mesopotamia. [93] In realtà le prime, anche se molto vaghe, notizie di un’arte marziale vera e propria, cioè codificata in qualche modo, si hanno in riferimento all’India, dove un principe osservò come molte movenze e forme di attacco degli animali potessero essere applicate alle tecniche tradizionali del combattimento umano. [94]
Secondo la leggenda, un monaco indiano di nome Bodhidharma (Ta Mo per i cinesi, Daruma per i giapponesi), intorno al V secolo d. C. giunse nel tempio cinese di Shaolin (in giapponese: Shorin), cioè nel Tempio della Giovane foresta, per portarvi gli insegnamenti del Buddhismo Ch’an (Zen in giapponese): notò che i monaci del tempio erano particolarmente debilitati dalla loro vita ascetica e che spesso erano facile preda dei briganti, e quindi insegnò loro vari metodi di respirazione e di allenamento fisico. Ciò non servì solo a ridare loro vigore, ma anche, e soprattutto, a raggiungere nuovi livelli spirituali, proprio tramite l’abbinamento della meditazione con il controllo pieno del corpo.
Che le cose siano andate così, o che, più verosimilmente, siano stati dei guerrieri convertiti al buddhismo ad insegnare tali tecniche ai propri confratelli, è un fatto reale che i monaci di Shaolin divennero grandi maestri nell’arte della difesa. Da lì queste tecniche si diffusero in tutta la Cina, evolvendosi secondo numerosi e diversi stili.
Ma l’influenza culturale della Cina si esercitava ben oltre i confini di questo pur sterminato paese: durante la dinastia T’ang (618-907 d. C.) le tecniche cinesi di combattimento senza armi si diffusero in Corea e sotto la dinastia Ming (1368-1644) approdarono nell’isola di Okinawa, la più grande dell’arcipelago delle Ryu Kyu; dopo che questa venne conquistata dal Giappone, nel XVII secolo, le tecniche di Shaolin, che nel frattempo erano state modificate o rielaborate, si diffusero più tardi anche in Giappone. Naturalmente marinai e pescatori contribuirono, in tempi e modi diversi, a propagare in tutta la regione asiatica, dall’Indocina all’Indonesia, l’arte del combattimento a mani nude.
Per quanto riguarda la diffusione in Occidente, a parte casi abbastanza rari di europei che impararono un’arte marziale, occorrerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale, quando alcuni soldati americani di stanza in Giappone si appassionarono al judo e al karate, e in parte all’aikido, e se ne fecero portatori nel proprio paese. Analogamente accadde coi soldati francesi presenti in Indocina, che riportarono in patria varie forme di combattimento: la fortuna che esse ebbero in Francia, da cui poi si diffusero nel resto d’Europa, è probabilmente da attribuirsi al fatto che in quel paese esisteva già da tempo una forma di lotta, conosciuta come boxe francese, o savate, basata su tecniche di pugno e di piede abbastanza simili a quelle asiatiche.
(Karàte, non karaté: quest'ultimo modo di pronunciare deriva dal fatto che furono dei francesi a importare per primi in Europa il karate, e quindi ci si adeguò alla loro abitudine di porre l'accento sull'ultima sillaba).
KARATE
Abbiamo visto come lo Shaolin sia alla base delle più note arti marziali, ma in questa sintetica esposizione [95] ho preferito seguire una sequenza, del tutto arbitraria, in cui venissero rapidamente descritte prima le discipline più facilmente praticabili [96] e poi, via via, le altre.
Nel Mar Cinese orientale le isole Ryu Kyu si presentano come una sorta di ponte naturale, lungo 800 km, fra Giappone e Cina, e nel corso dei secoli assorbirono molte tradizioni dell’uno e dell’altro paese. È fra il XIV e il XV secolo che nella principale isola dell’arcipelago, Okinawa, cominciano a diffondersi le tecniche di Shaolin: in realtà a Okinawa vi era già una lunga tradizione di combattimento senz’armi, il te (letteralmente mano, e quindi “arte marziale della mano”), ed è su tale ricco patrimonio che s’innesta l’apporto cinese. Da questa sintesi si forma la base originaria del karate, che significava “mano cinese”.
In seguito alla guerra civile che portò all’unificazione dei tre regni in cui era divisa l’isola, le autorità proibirono l’uso delle armi e di conseguenza il combattimento a mani nude (ma anche quello che utilizzava i normali strumenti di lavoro) divenne l’unico modo per potersi difendere. Nel XVII secolo l’arcipelago fu conquistato dai giapponesi, i quali mantennero il divieto di portare armi: a questo punto la pratica del te si diffuse ulteriormente e malgrado ciò avvenisse in segreto portò alla creazione di importanti centri di addestramento.
Gli svariati stili Shaolin che erano giunti a Okinawa, da una parte, e la necessità di praticare il te in piccoli gruppi clandestini senza contatti fra loro, dall’altra, fecero sì che l’arte della mano non si sviluppasse in modo omogeneo, ma desse luogo al formarsi di differenti scuole. Da esse derivarono poi gli attuali quattro principali stili di karate: [97]
Shotokan, “Casa dell’onda dei pini”, del maestro Funakoshi. Goju-ryu, “Scuola del duro e del morbido”, del maestro Miyagi. Shito-ryu, “Filo dell’ovest”, del maestro Mabuni. Wado-ryu, “Via della pace”, del maestro Otsuka.
Con l’avvenuta assimilazione politica e culturale di Okinawa da parte dei giapponesi, caddero anche le restrizioni verso le tecniche di combattimento, e agli inizi di questo secolo uno dei principali maestri, Gichin Funakoshi, fu invitato in Giappone per dare delle dimostrazioni di karate: il successo fu tale che questa nuova disciplina si diffuse molto rapidamente in tutto il paese, [98] soprattutto grazie al paziente lavoro a cui Funakoshi si dedicò per dare una sistemazione organica alle varie tecniche e regole del karate. [99]
Malgrado il formidabile impegno di Funakoshi, per questo considerato il padre del karate, quest’arte marziale risentì moltissimo delle sue origini frastagliate e le divisioni iniziali di stile non solo non vennero superate, ma col passare del tempo si accentuarono: addirittura nell’ambito di uno stesso stile si crearono scuole diverse e le rivalità si sono rafforzate quando il karate ha assunto anche un carattere agonistico. Le divergenze teoriche divennero ben presto soprattutto di ordine economico, si sono moltiplicate le federazioni sportive in contrasto fra loro, e oggi assistiamo allo squallido spettacolo di un’arte marziale fra le più belle smembrata in decine di litigiose organizzazioni.
Chi volesse avvicinarsi al karate non dovrà in alcun modo farsi influenzare da queste diatribe: non c’è uno stile migliore degli altri (anche se vi sono differenze non da poco fra l’uno e l altro), o che possa considerarsi il depositario del “vero” karate.
L’essenziale, come già detto, è trovare il luogo giusto e un insegnante serio.
Il karate nasce da un lavoro accuratissimo di sistematizzazione di tecniche derivate dalla boxe cinese, e in ciò sta forse il suo pregio principale.
Nei differenti stili, pur con varie e talvolta sostanziali distinzioni di tecnica, le modalità didattiche e i princìpi di base sono piuttosto omogenei: a un buon riscaldamento che coinvolge sistematicamente tutte le parti del corpo, segue l’allenamento delle tecniche fondamentali (le varie posizioni del corpo; pugni: al viso, medi, bassi; calci: frontali, laterali, circolari, da dietro; colpi col gomito, col taglio, con le dita tese o col palmo della mano, col ginocchio; parate rispetto a pugni o calci; ecc.; taluni stili comprendono anche prese e proiezioni); ovviamente non viene trascurato il combattimento (kumite), ma quello vero proprio viene praticato solo a un certo livello [100] e nei gradi più bassi se ne privilegia un tipo codificato, in cui, cioè, ad uno specifico attacco bisogna rispondere con una determinata tecnica.
A volte trascurato deplorevolmente (da quei club che puntano tutto sul combattimento sportivo), il centro di tutto il karate sono però i kata, le forme: si tratta di varie sequenze di tecniche - che si praticano senza partner, da soli o in gruppo - più o meno complesse, che simulano in modo stilizzato un combattimento contro più avversari, e hanno lo scopo non solo di affinare le tecniche stesse, ma di perfezionare le altre doti indispensabili per un buon karateka: la respirazione, [101] la fluidità dei movimenti, il coordinamento corporeo, la velocità, l’equilibrio, la potenza, l’agilità, la concentrazione mentale.
Il karate viene praticato a piedi nudi su un pavimento di legno o sul tatami (che in realtà è tipico del judo), una superficie di gomma formata da più materassine ciascuna di 1 m x 2, indossando un particolare costume di cotone bianco [102] composto da pantaloni e da un’ampia giacca (riprende l’abituale tenuta di lavoro dei pescatori di Okinawa) stretta con una cintura: a seconda dell’abilità raggiunta, con un esame si passa di grado, evidenziato progressivamente - per i livelli più bassi, i kyu - dalla cintura bianca, e poi gialla, arancione, verde, blu, marrone, fino ad arrivare alla cintura nera di primo Dan. Si tratta naturalmente di un traguardo molto ambito, che si raggiunge in genere dopo 4-5 anni, ma in realtà è proprio da quel momento che si comincia davvero a imparare il karate.
KUNG FU
Si tratta di un termine il più delle volte usato erroneamente per definire l’arte marziale cinese del pugno: Kung fu, [103] infatti, letteralmente significa “azione eseguita con abilità” e può quindi non riferirsi necessariamente a un’arte marziale. Più propriamente andrebbe usato il termine Wu Shu, arte marziale, che è appunto quello adoperato ufficialmente nella Repubblica Popolare Cinese, anche per differenziarsi dal Kung Fu praticato a Taiwan e Hong Kong.
O forse si dovrebbe parlare di Shaolin Ch’üan, cioè il pugilato di Shaolin, ma da quando, tre secoli fa, il tempio fu distrutto dalle truppe imperiali, i monaci si dispersero in tutta la Cina e il loro patrimonio di conoscenze perse il proprio carattere unitario, andando ad alimentare una molteplicità di stili, che presero vari nomi. Anche qui, tuttavia, siamo più nell’ambito della leggenda che della realtà storica, perché se certamente il tempio di Shaolin [104] fu un centro molto importante di studio e di pratica della lotta, è difficile pensare che ad esso, e solo ad esso, possa essere riconducibile ogni arte marziale. Più verosimilmente, da uno o più nuclei originari, e relativamente semplici, di tecniche di controllo del corpo, si svilupparono nelle diverse zone dell’immensa Cina svariate decine di stili, ciascuno dei quali si strutturò e si raffinò sulla base delle caratteristiche specifiche del luogo (etnia, lingua, cultura, esigenze pratiche, ecc.).
È convenzione dire che le arti marziali cinesi sono suddivise in due gruppi principali, gli stili esterni, o “duri”, e gli stili interni o “morbidi”: i primi sono caratterizzati appunto dall’ampiezza e dal vigore dei movimenti, con pugni e soprattutto calci indirizzati al combattimento a media e lunga distanza, mentre i secondi privilegiano la velocità che si sprigiona dall’energia interiore e la lotta a distanza ravvicinata; sono rispettivamente gli stili del nord e del sud, dove le pianure settentrionali venivano percorse a piedi o a cavallo, rendendo quindi le gambe di quegli abitanti particolarmente forti, e dove la fitta rete di comunicazione fluviale aveva reso i cinesi del sud ottimi rematori, ovvero persone dotate di braccia potenti e di notevole equilibrio.
Le differenziazioni fra stili esistono, e sono notevoli, ma in realtà non si esprimono sul piano della durezza e della morbidezza, [105] perché le tecniche efficaci combinano sempre questi due elementi, e comunque attingono a quell’energia vitale interna, il Chi, [106] che in qualche modo è regolata dalla respirazione addominale e si sprigiona poi nel colpo accompagnato dal grido, il Fa Sheng.
In tutti gli stili la preparazione fisica, la cura delle posizioni, il coordinamento dei movimenti, sono alla base delle varie tecniche di mano, di piede, di pressione sui punti vitali, di presa, di proiezione e di uso delle armi (svariati tipi di bastone, spada, catena, ecc.).
Come nel karate i praticanti indossano un abito particolare (generalmente bianco) con la giacca annodata da una cintura corrispondente al grado, bianca per gli 8 Chi, nera per i Chieh; oltre all’allenamento nelle specifiche tecniche, vengono praticati vari tipi di combattimento, Po Chi, e di forme, Quien; abitualmente vengono calzate delle leggere scarpette di tela.
Il Kung Fu-Wu Shu probabilmente è l’arte marziale più elaborata e il suo apprendimento è dunque molto lungo: ciò, quindi, non la rende adatta a chi vuole rapidamente impadronirsi delle tecniche di autodifesa.
Va aggiunto, infine, che la presenza di numerosi stili ha comportato la proliferazione delle scuole, e di tale confusione teorico-organizzativa hanno approfittato parecchi sedicenti maestri, cinesi e non, che spesso e volentieri si presentano come i “veri” custodi dell’antica tradizione: mi raccomando, diffidare e verificare.
TAI CHI CHUAN - TAIJIQUAN
È generalmente conosciuto come “ginnastica cinese”, e in effetti ogni mattina milioni di cinesi di tutte le età, ma soprattutto anziani, lo praticano collettivamente, in strada, per mantenere in buona salute i muscoli, il sistema respiratorio e gli organi interni. Questo aspetto è però solo una parte del Tai chi, che è fondamentalmente un tipo particolare di meditazione, che viene effettuata in movimento, sul Supremo fondamento [107] a cui si rifà l’intero universo e sul Tao, la Via.
Il suo simbolo, così noto da essere sovente abusato, rappresenta il cosmo che racchiude la luce, yang, e l’oscurità, yin: sono divisi da una linea ondulata che indica l’eterno moto degli elementi e contengono al proprio interno ciascuno una componente dell’altro. Quest’ultima rappresentazione grafica sta appunto a indicare che la vita - in generale, non solo quella dell’uomo - non si svolge tanto in virtù del contrasto fra gli opposti, bensì secondo un principio universale di complementarità fra elementi diversi, ovvero di sintesi rispetto alla dialettica delle cose.
Essendo l’energia vitale, il Chi, presente anche nell’essere umano e per lui indispensabile al fine di perseguire la Via, [108] il Tai chi ha come scopo quello di far fluire meglio il Chi in tutto il corpo e di rafforzarne la presenza nel punto focale dell’organismo, il dan-dian, posto qualche centimetro sotto l’ombelico.
Ma controllo del proprio corpo significa anche capacità di agire sul corpo altrui, in particolare sui punti vitali, e infatti Tai Chi Chuan significa propriamente Pugno del Supremo Fondamento, ed è a tutti gli effetti un’arte marziale che deriva direttamente dagli stili interni dello Shaolin e che a sua volta è suddiviso in vari stili. Che generalmente esso venga praticato con movimenti lenti, per gli effetti benefici che può avere sulla salute mentale e fisica, non è affatto, come molti in Occidente ritengono, in contrapposizione con la “violenza” della lotta, ma casomai un modo limitato d’intendere il Tai chi: le forme, cioè le complesse sequenze di esercizi ampi e fluidi che lo compongono, se eseguite velocemente si trasformano in una micidiale successione di colpi e parate.
Chi volesse dedicarsi ad esso, dovrebbe cercare di coglierne l’insieme delle caratteristiche, sapendo, tuttavia, che ciò ne renderà ancora più lungo e difficile l’apprendimento.
JU JITSU
A differenza di quelle discipline, come il karate e il wu shu - kung fu, che privilegiano nettamente le tecniche basate sui colpi, il ju jitsu, e soprattutto il judo e l’aikido, tendono a sfruttare in particolare la forza e lo slancio dell’avversario, per neutralizzarlo tramite prese e proiezioni.
La cedevolezza, o flessibilità (Ju), ha naturalmente tutta una serie di riferimenti filosofici, [109] ma con una certa forzatura pragmatica si può dire che questo tipo di combattimento a mani nude (il quale comunque non disdegna affatto l’uso dell’atemi, cioè del colpo) si basa sulla cedevolezza non tanto per ragioni teoriche quanto per motivi pratici: i samurai, che dedicavano praticamente tutta l’esistenza al combattimento, si addestravano soprattutto all’uso della katana, la spada, ma dovevano essere in grado di affrontare un nemico anche se sprovvisti di un’arma; di qui la necessità di sviluppare una forma di lotta che avesse la massima efficacia ma che sfruttasse appieno, più che la forza, le doti di velocità, equilibrio, concentrazione, proprie dei guerrieri.
Si venne così a creare una disciplina che abbracciava tutte le possibili tecniche offensive e difensive, ma che però non venne mai codificata rigidamente: ciò da una parte fu un bene, perché non nacquero, come per il karate, scuole e stili in aperta contrapposizione fra loro, e la disciplina mantenne una propria sostanziale unitarietà, ma dall’altra causò una notevole dispersione, accentuata anche dagli elementi di segretezza che accompagnarono tutte le arti marziali.
I maggiori studiosi del ju jitsu concordano nel far risalire al XVI-XVII secolo il periodo in cui questa disciplina cominciò a diffondersi, ad opera di un medico di Nagasaki che si era recato in Cina per ampliare la sua preparazione medica e che ebbe modo di apprezzare particolarmente le arti marziali di quel paese: ne studiò i princìpi e le tecniche, li rielaborò e successivamente li diffuse in Giappone; i maestri delle varie scuole d’armi ne compresero ben presto l’efficacia e questo vasto patrimonio divenne parte integrante dell’educazione marziale.
Paradossalmente, forse è proprio nella sua vastità (qualcuno è arrivato a enumerare oltre 2.000 tecniche) il limite del ju jitsu, che si presta a una didattica eccessivamente articolata o, viceversa, spinge a una forzata ma a volte incontrollata semplificazione.
Come per il judo, alla base dell’allenamento vi sono una diligente preparazione fisica e uno studio accurato delle cadute; dopodiché si passa (con metodologie d’insegnamento che possono variare da scuola a scuola, ma che mantengono sostanzialmente una matrice comune) alle tecniche fondamentali: parate, leve, torsioni, proiezioni, immobilizzazioni, colpi di piede e di pugno, strangolamenti, pressioni, spostamenti.
Il ju jitsu potrebbe essere dunque considerata la disciplina ideale per l’autodifesa, ma resta il punto debole relativo alla sua vastità (oltre alle riserve già espresse nel capitolo precedente su tecniche come le leve e le proiezioni, efficacissime se effettuate da un esperto, difficili e pericolose se tentate da un principiante): occorrerebbe, quindi, un lavoro teorico di rielaborazione del ju jitsu rivolto a estrarne organicamente il “meglio” applicabile alla difesa personale, o comunque sarebbe decisamente utile che bravi istruttori si dedicassero anche a una corretta divulgazione per uso “pratico”.
Le lezioni devono necessariamente svolgersi sul tatami, con un abbigliamento analogo a quello del karate (ma generalmente viene preferito il gi scuro) e con un sistema di gradi suddiviso in kyu e dan.
JUDO
Si è detto che una regola fondamentale della lotta corpo a corpo consiste nel non opporre forza a forza, ma di assecondare l’impeto dell’avversario per ritorcerlo contro di lui: si può dire, in estrema sintesi, che tirare quando si viene spinti, spingere quando si è tirati, è il principio di fondo del judo.
Jigoro Kano, verso la fine del XIX secolo, si dedicò a un intenso studio analitico dei vari stili di lotta tradizionale, in specie del ju jitsu, convincendosi che ciascuno di essi aveva notevoli limiti tecnici e mal si adattava alla prospettiva di poter divenire la “nuova” disciplina che potesse educare spirito e corpo dei giapponesi.
Di fronte a quello che pareva essere stato l’inarrestabile declino di ogni arte marziale, Kano seppe introdurre un’innovazione assolutamente radicale: come avverrà anche per l’aikido, l’idea era appunto quella di mantenere viva la tradizione trasformandola al tempo stesso, per dar modo a quanti più giovani possibile - definitivamente tramontata l’epoca dei samurai armati di spada - di praticare utilmente una disciplina istruttiva e sana. Da questa geniale intuizione, accompagnata da una formidabile capacità di sintesi sul piano concettuale e pratico, nacque la “Via della flessibilità”.
Su un tatami due avversari si affrontano afferrandosi per il judogi [110] e cercando di sbilanciarsi: lo scopo principale è effettuare una proiezione talmente efficace da scagliare a terra l’antagonista, e quando ciò non riuscisse completamente, ritrovandosi entrambi i contendenti distesi al suolo, si tratta d’immobilizzare l’altro mediante una presa o una leva. L’enorme successo riscontrato in Giappone e nel mondo [111] deriva proprio da questa caratteristica prettamente sportiva, priva di qualsiasi connotato “mortale” tipico di altre arti marziali: ciononostante la Via della cedevolezza (Ju), come viene anche chiamata, non è del tutto incruenta, anzi registra una frequenza di distorsioni e di fratture superiore al karate.
Anche per questa ragione il judoka dovrà sempre effettuare un buon riscaldamento e dedicare molta parte dell’allenamento a impratichirsi nelle cadute, fino ad esserne perfettamente padrone. [112]
È insensato dire che nel judo la forza non conta, tant’è vero che le competizioni si svolgono per fasce di peso, ma sono certamente prevalenti l’abilità tecnica e l’astuzia tattica: le tecniche di attacco e di difesa sono numerose e complesse, anche se il profano, assistendo a un incontro di judo, difficilmente se ne renderà conto.
Il rigore con cui Kano operò la loro classificazione, e soprattutto l’assoluta novità di questo sport (perché come tale nacque), risparmiarono al judo la sorte che ebbe il karate e lo mantennero una disciplina totalmente compatta, esente dalle lotte intestine tese ad attribuire all’una o all’altra scuola o derivazione il titolo di “vero” interprete degli insegnamenti originari; non a caso, infatti, il judo ottenne ben presto (1938) l’ammissione alle Olimpiadi, riconoscimento che il karate, diviso in numerose federazioni internazionali, non è mai riuscito a conseguire.
Pur riconoscendo al judo una posizione di particolare rilevanza e dignità nell’ambito complessivo delle arti marziali, per quanto riguarda la sua utilità ai fini della difesa personale non si può non rilevarne le carenze: l’essere stato concepito come attività agonistica pura, lo priva per definizione dei requisiti indispensabili per un combattimento realistico, e se una cintura nera di judo riuscirà certamente a difendersi bene contro un comune aggressore, mi permetto di dubitare che riuscirebbe ad avere la meglio su un esperto di karate o, più banalmente, su un buon pugile, essendo sprovvista di un elemento fondamentale dello scontro fisico, ancorché concepito in chiave difensiva, vale a dire la capacità di sferrare un colpo decisivo.
AIKIDO
Assai più del judo, la “Via della divina armonia” è un’arte marziale “non violenta”, perché tende a ridurre assolutamente al minimo il contatto con l’avversario [113] e si basa su tecniche strettamente di difesa.
Un grande maestro giapponese di arti marziali, Morhiei Ueshiba, anch’egli insoddisfatto dei vari metodi di lotta esistenti, intorno al 1930 elaborò e codificò una nuova disciplina in cui, analogamente al judo, il principio fondamentale consisteva nel non contrastare l’iniziativa dell’aggressore ma, viceversa, nell’assecondarla al fine di sfruttare la forza dell’attacco in funzione difensiva.
Ueshiba impostò il suo lavoro su un doppio versante: da una parte si dedicò a un’approfondita riflessione filosofica, riesaminando il concetto stesso di Ki (o Chi) e ponendolo al centro dei sistemi di controllo del corpo e della mente, attraverso i quali percorrere la via (Do) verso l’armonia (Ai). La complessità e il rigore di queste considerazioni, imperniate sulla dottrina Zen, comportarono metodi di allenamento e pratica in cui nulla era concesso all’improvvisazione, ma tutto doveva uniformarsi a procedure perfettamente delineate.
Sotto l’aspetto strettamente tecnico Ueshiba rivisitò la tradizione marziale giapponese e in particolare le forme di combattimento senz’armi (Aiki-ju-jutsu) a lungo praticate dagli stessi samurai, ma anche la scherma classica: con osservazioni affini a quelle di Kano, mise a fuoco i limiti - dal punto di vista della praticabilità e della diffusione a livello di massa - delle antiche discipline e dello stesso ju jitsu, e creò “in laboratorio” qualcosa che potesse adattarsi alla nuova epoca e al tempo stesso restare fedele ai princìpi della cultura tradizionale.
Cedevolezza, armonia e coordinamento dei movimenti (con una certa analogia con gli stili interni cinesi), perfetta esecuzione degli esercizi, grande autocontrollo: questi i punti essenziali di una tecnica/arte che può raggiungere levature qualitative altissime; le prese e i colpi sono rari e dominano invece le proiezioni, con il rapido contatto finalizzato a sbilanciare, in modo da far cadere l’attaccante e immobilizzarlo mediante una leva articolare.
Il keikogi è bianco, stretto da una cintura del medesimo colore: a differenza di judo e karate, infatti, i passaggi di grado non sono contraddistinti cromaticamente, finché non si raggiunge il primo Dan e non s’indossa la cintura nera (e la tipica gonna-pantalone scura). A questo livello il praticante può dire di aver raggiunto una buona (ma non ancora completa) preparazione dal punto di vista dell’autodifesa, tuttavia, al pari del Tai Chi, l’Aikido comporta tempi lunghi di apprendimento e questo ovviamente rappresenta un grosso svantaggio per chi volesse acquisire con una certa rapidità un’efficace capacità difensiva.
Derivato dall'Aikido è l'Hapkido, sviluppato in Corea.
LE ALTRE ARTI MARZIALI
Sono davvero ancora tante le arti marziali e qui, in ordine alfabetico, si accenna alle principali [114] a solo scopo informativo, sia perché una trattazione più accurata esula dall’argomento del libro, sia perché, pur con alcune eccezioni, la loro diffusione nel nostro paese è molto limitata, e ciò le rende inaccessibili ai più (oltre che esposte alle discutibilissime iniziative didattiche dei soliti “maestri” esotici).
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Baritsu
Nel film Sherlock Holmes, del 2009, abbiamo visto il celebre detective usare tecniche di combattimento tipiche delle arti marziali: non si tratta di una furbata degli sceneggiatori, bensì di un richiamo al fatto che S.H. potesse aver imparato il Ju Jitsu, o, forse, il Bartitsu, sistema di autodifesa inventato da E. W. Barton-Wright (ma i fondamentali furono divulgati nel 1899, e quindi i conti non tornano). Si tratta di un insieme di tecniche che combinano vari elementi di ju jitsu, boxe, judo, kendo, savate. |
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Capoeira
Gli africani condotti in schiavitù nelle colonie portoghesi del Sud America vi portarono una forma di lotta basata su agilissime tecniche di pugno e di calcio: l’ovvia proibizione di tale pratica fece sì che essa venisse mascherata sotto forma di danza particolarmente vivace, e come tale oggi in Brasile viene soprattutto esercitata, a base di calci acrobatici ed altre evoluzioni spettacolari. |
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Escrima
È un insieme di arti marziali filippine che ha inglobato nelle forme di combattimento originali dell’arcipelago, soprattutto col bastone e il pugnale, tecniche di pugno proprie della boxe occidentale. Attualmente sta divenendo molto popolare sia negli Stati Uniti che in Europa. |
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Iaidô
Letteralmente "via dell'unione dell'essere" è l'arte dell'estrazione della katana, la spada, ovvero come si estrae e si colpisce mortalmente in un unico movimento. L'essenza dello Iaidô è racchiusa in questo principio: "vincere senza sfoderare", cioè far capire all'avversario di avere una tale conoscenza da indurlo ad abbandonare lo scontro ancora prima di iniziare.
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Jeet Kune Do
Fu proprio un maestro di arti marziali, Bruce Lee, a creare la “Via per intercettare il pugno”, un sistema di combattimento finalizzato all’assoluta praticità, che delle arti marziali (soprattutto cinesi e filippine) ha assunto le tecniche più efficaci, di ogni tipo, escludendone però tutti gli aspetti formali e filosofici. |
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Kalaripayat
In India significa “Addestramento per il campo di battaglia”: la sua origine nell’ambito delle caste guerriere è evidente, ma è molto diffusa nei villaggi contadini, soprattutto nel sud del paese, abbinando le tecniche a mano nuda con quelle di bastone; la respirazione ventrale viene considerata essenziale. |
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Kendo
La “Via della Spada” è la scherma giapponese di stretta derivazione guerriera: la spada, katana, era il simbolo stesso del samurai, ma con l’unificazione politica del paese, nel ‘600, e la conseguente fine delle guerre interne, il combattimento con le armi venne meno e fu sostituito dai duelli con una spada di legno, bokken, comunque improntati ad un accentuato formalismo rituale. Tuttora popolarissimo in Giappone, è affiancato dallo Iai Do, la difficilissima arte di estrarre la spada e colpire, in un unico movimento. |
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Kickboxing
È l’evoluzione più esasperata del karate sportivo, tanto da essere definita una vera e propria degenerazione da chi pratica karate tradizionale: viene praticata con guantoni e protezioni, e a seconda del tipo d’impatto dei colpi si distingue in Full Contact, Semi Contact e Light Contact, con regole e tecniche differenziate.
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Kobudo
Si pratica utilizzando come armi quelli che erano i normali attrezzi da lavoro dei contadini di Okinawa, tra cui: il Bo, bastone lungo, il Tonfa, coppia di bastoni a forma di L, e il Nunchaku, formato da due bastoni uniti fra loro da una corda, originariamente utilizzati per battere il riso.
Pur non appartenendo a questo ambito, sono anche da segnalare le numerose discipline in cui ci si allena a combattere con vari tipi di bastone e che, soprattutto in Oriente, hanno incontrato particolare favore tra le donne. Fra tali discipline ricordiamo solo il keijo-jutsu, praticato con grande abilità dai poliziotti giapponesi, i quali utilizzano un bastone di legno di quercia lungo 125 cm.
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Krav Maga
Non è propriamente un'arte marziale, perché è un sistema di combattimento e sopravvivenza che nasce in Israele, negli anni '50 del XX secolo, per addestrare le forze armate al corpo a corpo. Combinando vari elementi mutuati da karate, ju jitsu, ecc., è diventato un ottimo, e sempre più diffuso, sistema per la difesa personale perchè si basa su tecniche relativamente semplici e molto efficaci, senza il "peso" (ma naturalmente molti ritengono ciò un grave limite) filosofico e formale delle arti marziali tradizionali. Particolarmente adatto per l'autodifesa delle donne, è in realtà un sistema che punta a colpi in grado di neutralizzare il più rapidamente possibile - anche mortalmente - l'avversario. |
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Kyudo
Spesso banalizzato, in Occidente, o esasperato nei suoi risvolti tecnici o sportivi, il tiro con l’arco è una delle più nobili arti marziali: pur derivando direttamente dall’antica pratica dei guerrieri, da quando ha perso la sua utilità direttamente militare e ha assunto la dimensione di “Via”, [115] si è molto caratterizzato sul piano filosofico, tanto che i grandi arcieri concentrano lo spirito e l’attenzione più sui movimenti preparatori che sul bersaglio in sé. |
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Muay Thai
La boxe thailandese è sicuramente l’arte marziale (?) più violenta, praticamente senza esclusione di colpi, e richiede ovviamente un allenamento durissimo e pericoloso. Di fatto viene praticata solo a livello professionistico, e in tornei decisamente discutibili. |
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Ninjutsu
Nel Giappone medievale i ninja erano, né più né meno, che delle spie con licenza d’ uccidere, o più semplicemente dei sicari che avevano sviluppato tutta una serie di sofisticate tecniche di attacco letale, mimetismo, destrezza fisica e ipnotismo, con cui portavano a termini gli incarichi “sporchi” che il codice cavalleresco avrebbe reso inaccettabili per un guerriero. Tale assoluta mancanza di codici da rispettare ne fece una setta pericolosissima, una tetra e perfetta macchina da guerra, in cui le donne ebbero spesso un ruolo centrale. Soprattutto grazie a pessimi film [116] il ninjutsu ha incontrato molto interesse in Occidente, dove, a parte qualche rara e pur sempre opinabile eccezione, pullulano ciarlatani nerovestiti che insegnano l’arte dell’invisibilità, nientemeno, e stravaganze analoghe. |
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Pentjak Silat
Derivato dal kung fu, è l’insieme delle varie arti marziali della Malesia, con una forte componente magico-esoterica. A seconda degli stili viene privilegiato il combattimento con o senza armi bianche.
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Savate
Si tratta di uno sport, nato a metà dell’800, basato sulla mescolanza fra la boxe inglese e i cosiddetti “calci marsigliesi”, cioè colpi che i marinai francesi avevano imparato nei loro viaggi in Estremo Oriente ed importato nel proprio paese. |
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Sumo
È la celebre lotta nazionale giapponese, praticata da atleti giganteschi e basata essenzialmente sulla forza. Ciò nonostante si può senz’altro considerare un’arte marziale - pressoché preclusa ai non giapponesi - per l’assoluta aderenza alle tradizioni nazionali e ai riti dello shintoismo. |
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Tae Kwon Do
Radicato nelle antiche discipline di combattimento coreane, ha assimilato varie tecniche cinesi e giapponesi, soprattutto del karate, e pur avendo ricevuto una codificazione precisa solo dopo la seconda guerra mondiale, è lo sport nazionale coreano. Con l’ammissione alle Olimpiadi del 1988 ha incontrato rapidamente un notevole interesse in tutto il mondo. Si basa essenzialmente sulle tecniche di piede e richiede notevoli doti di agilità e scioltezza.
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Viet Vo Dao
A volte conosciuto impropriamente anche come karate vietnamita, per evidenti ragioni geografiche e culturali ha subìto le influenze maggiori dalla boxe cinese, sviluppando comunque una propria fisionomia originale. Pur curando notevolmente gli aspetti formali, è una disciplina che, più del kung fu e del karate, si basa su tecniche realistiche, forse tra le più adatte all’autodifesa.
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NOTE
[76] Quindi non solo le tecniche di combattimento a mano nuda, ma anche quelle basate essenzialmente sull’uso di una o più armi bianche.
[77] Del resto è notorio che per lungo tempo le arti marziali giapponesi moderne si svilupparono con particolare fortuna in ambienti legati organicamente alla destra fascista e nazionalista. E anche in Europa sovente (ma, sia chiaro, non voglio assolutamente generalizzare) vi è stata questa relazione: io stesso ho avuto la sfortuna di ritardare di molto la pratica del karate, avendo frequentato le mie primissime lezioni - subito interrotte e riprese dopo oltre dieci anni - in una palestra che scoprii essere un ritrovo abituale dell’organizzazione neonazista “Ordine Nuovo”.
[78] Teoricamente perché si tratta di qualità che, seppur specificamente femminili, non sono acquisite una volta per tutte: senza allenamento e consapevolezza si perdono e la donna si trova priva anche di queste importanti forme di compensazione. Anche dove è piuttosto diffuso lo sport femminile (che non è certo il fattore risolutivo, ma che tuttavia offre evidenti vantaggi), è tipico (cioè la società ritiene “normale”) che le bambine abbiano un’abitudine assai minore, rispetto ai coetanei, ai giochi che richiedano un impegno fisico forte (arrampicarsi sugli alberi, fare le capriole, rincorrersi, giocare a pallone, ecc.).
[79] E abbiamo già visto come attrezzi e oggetti quotidiani possono essere utilizzati come efficaci strumenti di difesa.
[80] Non a caso, fra l’altro, tutte le principali confessioni religiose, compresa quella cattolica, non solo giustificano ma ritengono indispensabile la reazione, anche violenta, a un atto di sopraffazione.
[81] Il quale, sia detto per inciso, era un vero maestro di arti marziali: che poi Hollywood ne abbia fatto la caricatura che conosciamo è un altro discorso. E in parte analogo discorso vale per due notissimi protagonisti di film commerciali più recenti: il grandissimo Jet Li e Jackie Chan. Un altro celebre interprete di film basati sulle arti marziali, Chuck Norris, è stato anch'egli un vero maestro, otto volte campione del mondo di karate e due di Tae Kwon Do.
[82] Per intenderci: se dovete imparare a usare un computer per scrivere delle relazioni o tenere la contabilità, non v’iscrivete alla Facoltà di Scienze Matematiche e dell’Informazione, ma cercate uno dei tanti corsi che in qualche settimana vi mettono in condizioni di cavarvela dignitosamente.
[83] Questo termine, sotto l’influenza del Buddhismo zen e dopo la riforma antifeudale di fine ‘800, tese a sostituirsi a Jutsu (“pratica, tecnica”) nell’abbinamento a Bu (“combattente”), Ken (“spada”), Ju (“morbido”), Kyu (“arco”), ecc.
[84] Dire questo, come affermare che la religione cristiana è invece parte integrante della civiltà occidentale, non implica assolutamente rifiuto o adesione, significa solo prendere atto della realtà che si è andata costruendo nei secoli.
[85] Su questo termine forse non è inutile una precisazione: per maestro (Sensei, in Giappone, Sifu in Cina, Guru in India) s’intende, oltre ovviamente a colui che ha fondato una disciplina o che ne ha ereditato la guida, chi ha raggiunto alti livelli di abilità e competenza. A seconda dei casi vi è una codificazione più o meno precisa dell’uso di questa qualifica, ma in genere si può dire che andrà chiamato maestro (sempre che poi ne abbia i meriti tecnici e il riconoscimento ufficiale) il responsabile del corso o della palestra, istruttore chi tiene semplicemente le lezioni.
[86] Il saluto, il rispetto reciproco (“il karate incomincia e finisce con la cortesia”), l’attenzione, ma anche l’uso delle parole in lingua originale per definire le tecniche, dare i comandi, ecc.
[87] Trattasi di esempi a caso: nessuno si senta offeso, per cortesia.
[88] Per varie ragioni qui preferisco non segnalarvi alcuna organizzazione, anche se ve ne sono di molto serie.
[89] O no?
[90] Comunque, come si è già detto, c’è sempre il bridge.
[91] Anche se, ovviamente, alcune discipline (in particolare quelle legate all’uso della spada, ma non solo) erano praticate soprattutto dai guerrieri.
[92] Il sospetto con il quale anche qui le autorità guardavano a chi si allenava in queste temibili forme di combattimento, costrinse molte scuole alla clandestinità, tanto che molte di esse si trasformarono in vere e proprie società segrete: di qui l’estrema difficoltà con cui un allievo poteva distaccarsi dal gruppo a cui era affiliato.
[93] Non pare affatto illogico, dato che proprio in questa regione si formò una delle più antiche e importanti civiltà.
[94] Naturalmente in Cina si dà maggior credito alla tradizione che vuole essere stato un medico cinese, intorno al 2° sec. d. C., il primo organizzatore scientifico di una forma di pugilato. In ogni caso in qualsiasi arte marziale è costante il richiamo al mondo della natura, e agli animali in particolare, per ricavarne insegnamenti spirituali e pratici (si pensi soltanto alle innumerevoli posizioni e tecniche che prendono il nome da: gatto, rondine, tigre, serpente, scimmia, orso, drago, ecc.).
[95] Ciò, fra l’altro, ha comportato l’esigenza di una schematizzazione che non può minimamente dar ragione di tutti i complessi intrecci fra le varie discipline e in particolare dei loro profondi legami con culture, come quella cinese o giapponese, che non solo sono il più delle volte incomprensibili per gli occidentali, ma che si differenziano enormemente l’una dall’altra. La persona esperta di tali argomenti, quindi, perdonerà le ampie lacune, le inevitabili imprecisioni e le dovute semplificazioni.
[96] Attenzione: non più facili, ma solo più legate alla materia di questo libro, più adattabili alla nostra cultura, e anche più diffuse in Italia, e dunque maggiormente accessibili.
[97] Ne esistono svariati altri, tra cui: Kyokushinkai, Shorinji Kempo, Yoseikan Budo, Shotokai, Sankukai.
[98] Com’è noto, il Giappone aveva una solidissima tradizione marziale: schematicamente, il bushido, “la via del guerriero”, era il rigidissimo codice d’onore dei samurai, e intorno ad esso si formarono sia i vari sistemi di combattimento con le armi (bujutsu), finalizzati alla guerra, sia le varie discipline marziali che, sotto l’influenza del buddhismo zen, puntarono soprattutto al perfezionamento di se stessi (budo).
[99] Per ovvie ragioni, i giapponesi non gradivano affatto che quest’arte marziale si chiamasse “mano cinese”, e quindi l’ideogramma che significava cinese venne cambiato con un altro, che voleva dire vuoto ma che si pronunciava nello stesso modo. Karate quindi oggi significa “mano vuota”. In effetti tutta la terminologia delle arti marziali è costellata di sottigliezze linguistiche: la molteplicità e/o l’ambiguità di significati è in diretto rapporto con la complessità e la ricchezza culturale che stanno alla base di queste antiche discipline.
[100] Che vengano o meno usate delle protezioni (mani, stinchi, seno), è una regola di quasi tutti gli stili il controllo del colpo: non si deve effettivamente colpire, ma fermarsi a pochi millimetri dal corpo dell’avversario, anche se talvolta si affonda davvero il colpo, ragionevolmente, per abituarsi a realizzare e a subire l’impatto.
[101] Si è già parlato nel capitolo precedente del kiai, l’urlo che viene emesso nel momento in cui si colpisce e che coincide con lo sprigionamento - in espirazione - di tutta l’energia.
[102] Spesso viene erroneamente chiamato kimono, ma con esso non ha niente a che vedere: il suo nome è keikogi, o più semplicemente gi, ovvero, karategi, judogi.
[103] Com’è noto esistono vari metodi di traslitterazione (in particolare quello tradizionale, Wade, e quello ufficialmente adottato dalla Repubblica Popolare Cinese, il pinyin) e quindi la grafia dei vocaboli cinesi varia a seconda dei criteri usati (si veda, ad esempio, Tai ji quan o Tai chi chuan o T’ai-chi ch’üan): qui useremo le forme grafiche più semplici.
[104] Oltre a tutto è probabile che esistessero più monasteri con questo nome.
[105] Intesa naturalmente non come debolezza, ma come elasticità, flessibilità, rilassamento mentale e fisico.
[106] Non si accennerà nemmeno al complesso insieme di riferimenti filosofico-religiosi (legati in particolare al buddhismo da una parte e al taoismo dall’altra) che rappresenta il substrato essenziale delle discipline del corpo cinesi - ma anche di altri paesi, a cominciare dal Giappone. Per un primo approfondimento si veda H. REID-M. CROUCHER, La via delle arti marziali, Red, 1988, 272 p. Questi elementi esotici ed esoterici - se ci è consentito il gioco di parole - spesso sono appunto utilizzati da presunti “esperti” per far colpo sugli occidentali, tradizionalmente ignoranti di cose orientali.
[107] Anche qui le esigenze divulgative non consentono un esame più attento di questioni decisamente complesse, in cui giocano un ruolo centrale le sfumature linguistiche, le ambivalenze concettuali, il paradosso. Per la traslitterazione dei termini giapponesi vale un’avvertenza analoga a quella formulata per il cinese: Chi, ad esempio, potrà anche essere scritto Ki, così come jitsu e jutsu si equivalgono.
[108] Ma essenziale anche per la salute: l’agopuntura, infatti, è il principale sistema di manipolazione terapeutica del Chi.
[109] Cfr.: O. RATTI-A.WESTBROOK, I segreti dei samurai, Mondadori, 1993, pp. 427-430. Per il concetto di hara (il Centro, dell’uomo ma anche di ogni altra componente dell’universo, a livello sia individuale che collettivo), cfr. ivi, pp. 398-410.
[110] È un costume piuttosto simile al karategi, ma decisamente più robusto. Il sistema gerarchico dei gradi, espresso dalle cinture, è analogo a quello del karate, anzi è stato impostato proprio dal professor Kano.
[111] Un’indagine condotta qualche tempo fa da una rivista specializzata rilevava che, negli ultimi anni, quasi il 50% dei bambini italiani aveva praticato judo, almeno per qualche mese. Cfr.: S. DI MARINO, op. cit., p. 54.
[112] Anche nel judo sono previsti dei kata, ma hanno un’importanza nettamente inferiore rispetto al karate.
[113] Che nel judo, come si è visto, è invece essenziale.
[114] Per una trattazione più ampia, si vedano i già citati: DI MARINO, Guida alle arti marziali, e REID-CROUCHER, La via delle arti marziali, da cui sono state tratte alcune preziose informazioni. Le Edizioni Mediterranee hanno inoltre un catalogo molto ricco di volumi sulle varie discipline.
[115] Si rammenta la fondamentale distinzione, già evidenziata, fra pratica (jutsu) e via (Do). Cfr.: E. HERRIGHEL, Lo Zen e il tiro con l’arco, Adelphi.
[116] Ma di ben altra qualità sono i noti e gradevoli romanzi di Eric Van Lustbader, un profondo conoscitore delle arti marziali e un abile manipolatore ai fini letterari di queste sue conoscenze.
[117] Per un’analisi particolarmente dettagliata (anche dal punto di vista di una stima quantitativa, purtroppo datata) dei reati sessuali, cfr.: C. VENTIMIGLIA, La differenza negata, cit.
[118] I dati forniti (anno di pubblicazione, pagine, ecc.) si riferiscono all’edizione più recente. Tranne alcune eccezioni, evidenziate, non sono stati segnalati i libri esauriti.
[119] TELEFONO ROSA - Centro di orientamento dei diritti della donna è presente anche a: Torino (011/5628314), Verona (045/8013118), Vicenza (0444/321664). Naturalmente esistono numerose altre strutture (associazioni, movimenti, centri di studio, ecc.) che si occupano di assistenza e consulenza alle donne: nell’impossibilità di indicarle tutte, si consiglia di rivolgersi a uno dei Telefoni Rosa indicati per avere l’indirizzo del centro più vicino. Informazioni possono anche essere richieste al Ministero per le pari opportunità. |
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