Lidia Ravera

L’altra metà del Male


Belline e dolci addio. Barbie-carina è morta e sepolta. È nata Barbie-iena, con le tettine velenose e i dentini aguzzi. Niente tutù, niente falpalà, niente fiocco rosa. La femmina femminile, ontologicamente buona, mite e anagressiva, sogno antico della maschia rude umanità guerriera, ha subito un fiero colpo. Janis Karpinski, unico generale donna delle forze armate americane, era la responsabile della prigione in cui alcuni soldati Usa, da bravi esportatori di democrazia, torturavano i prigionieri di guerra iracheni.
Un attimo prima che il simpatico stage di crudeltà venisse smascherato, ha detto, alludendo agli internati, che «le condizioni di vita in cella sono migliori di quelle che hanno a casa loro.»
È per questo che i quadri alle sue dipendenze si sono incaricati di peggiorarle?
«A un certo punto ci siamo preoccupati» ha detto la signora, pensando di essere spiritosa «che non se ne volessero più andare.»
Mettetegli un cappuccio, pisciategli in testa, così riusciranno a rimpiangere perfino quelle loro sgradevoli spelonche, senza moquette, senza dvd, senza tosaerba. Lynddie R. England (una che fa "Inghilterra" di cognome, pensa te) sorride fiera e birichina. La frangetta da liceale sportiva, il pollice della sinistra alzato nel segno internazionale dell’obbiettivo raggiunto, l’indice della destra teso a indicare i genitali di un prigioniero nudo, le mani incrociate sopra la testa, il petto glabro, la vergogna occultata da una maschera nera tipo Ku Klux Klan, con i buchi per gli occhi. Buchi per vedere miss Silly Monkey (stupida scimmia) che si diverte con la sua umiliazione. Il pistolino del musulmano, ah ah ah. Colpisce, nella fotografia che ha fatto il giro del mondo occidentale, suscitando il solito putiferio di indignazione, colpisce l’innocenza giocosa dell’espressione confrontata all’enormità del crimine. Approfittare di una posizione di potere per infierire su un inerme. Via dieci punti, c’è il ritiro dalla patente di essere umano. Non basta. Bisogna aggiungere la mancanza di rispetto per la cultura islamica che non esibisce la nudità, ma la occulta, non commercia in falli e vulve (simbolici e reali) ma li censura.
C’è l’assenza totale di empatia: nudo nelle mani di una ragazzina infedele, come si sarà sentito quel giovane uomo, musulmano, religioso, figlio di una cultura in cui i generi non sono omologati? Chi se ne frega? Certo, è lì il problema. Il problema è che non gliene frega niente a nessuno, fra i supposti raddrizzatori dei torti, fra i civilizzatori del mondo, della sensibilità, delle opinioni, delle religioni degli altri. Chi non è come me, è contro di me. Valanghe di stupore perché, come in ogni festa che si rispetti, anche nell’orgetta delle facili infamie, c’erano le donne.
Quasi sicuramente i maschi si saranno divertiti di più. Viva le truppe miste, viva le galere sadomaso!


Io, scusate tanto, non riesco ad associarmi al coro degli scandalizzati. La famosa diversità femminile esiste, ma raramente veste tute mimetiche, o altre divise militari.
La diversità femminile veste di nero e marcia per le strade d’Europa contro la guerra. La diversità femminile non fa carriera nell’esercito. La diversità femminile non vende milioni di copie insultando l’Islam e proclamando la superiorità occidentale, con rabbia e con orgoglio ignorante. La diversità femminile esiste e veste di bianco negli ospedali da campo, lottando contro fiumi di sangue con pochi mezzi e poche medicine. C’è, la diversità femminile. Ma sta perdendo. È messa all’angolo, in questo precipizio verso una società a dominante «cazzuta», una società dove si impone con le armi lo stile del più forte, riducendo il debole a mero mercato, banchetto di petrolio e povertà, e o ci stai o ti bombardo, ti faccio prigioniero e quindi faccio di te quello che voglio.
Una volta c’era Bob Hope che viaggiava al fronte per tenere alto il morale delle truppe, ora le truppe ci pensano da sole, al loro morale, basta esagerare un po’ con "gli infedeli". «With God on our side», come cantava Bob Dylan con Joan Baez nel 1964?
Sì, con Dio dalla Nostra Parte. Quale Dio? Un Dio tollerante, che accetti la voglia troppo umana di farsi del male l’un l’altro. Ah, cari sbalorditi compagni, sempre pronti a cadere dal pero, ad essere femmine oggi, per fortuna o sfortuna non ho ancora deciso, si può scegliere da che parte stare.
Nessuno costringe più le bambine a giocare con la bambola. Possono salire sugli alberi, e questo è bene. Possono strapparsi via i fiocchi dai capelli. Siamo state noi le prime, negli anni settanta, a lottare per questi diritti. Possono, oggi, le bambine, prendere il fucile e giocare con quello. Possono omologarsi al truce, se solo vogliono. Hanno conquistato quest’opportunità. Il club maschile muore dalla voglia di offrire alle donne il 50% dei posti al sole (per esempio in politica) ad un patto: che le cooptate non eseguano passi di danza troppo complicati, che non parlino con voci straniere, che si adeguino, che non rechino disturbo con certe loro specifiche femminee difficili da gestire fuori dalla fiction e dalla fiaba, nel duro territorio del realtà, ruvida e scabrosa com’è.
Alcune ci stanno, e pagano il prezzo di una perdita d¹identità inevitabile. Altre non ci stanno, e continuano a marciare solitarie, in America, in Italia. Contro la tortura, contro la pena di morte, contro la guerra. Marciano insieme ad altre donne e a molti uomini di buona volontà. Marciano contro il muro, in Israele, in Palestina. Marciano contro l’aparthied, contro il razzismo, contro la legge islamica della «sharja», contro la legge che vuole impedire alle donne di procreare assistite dalla scienza, a favore della legge che consente alle donne di abortire se vogliono. È tutto un marciare nel segno della compassione, della comprensione, della pietà.
Cose da donne? Forse non più. Cose dell’altro mondo, quello che ci piacerebbe rivedere. Dopo aver spento questo, almeno per un attimo, almeno per godere d’una tregua. Nella tristezza, nel dolore.

l'Unità, 03.05.2004