E così, nel giro di sedici ore, l'Italia apprende che Silvio Berlusconi è un corruttore, impunito e impunibile, di magistrati. Come il suo braccio destro Cesare Previti, già condannato a sedici anni in primo grado. In compenso, il suo braccio sinistro (in tutti i sensi) Marcello Dell'Utri, oltre a essere un pregiudicato per frode fiscale e false fatture, è pure un mafioso. Per almeno trent'anni, dal 1974 a oggi, secondo il Tribunale di Palermo ha protetto e rafforzato la mafia delle stragi e degli omicidi politici concorrendo dall'esterno nel reato di associazione mafiosa nella sua veste prima di segretario di Berlusconi, poi di numero tre del gruppo Fininvest, infine di fondatore, deputato, eurodeputato e senatore di Forza Italia. Cioè del partito di maggioranza relativa che governa l'Italia da tre anni e mezzo, dopo averlo governato per sette mesi nel 1994.
Anche a Roma nel 1984 c'è un'inchiesta
per antenne abusive sulla Fininvest. Ma lì non c'è
problema. Se ne occupa il giudice Renato Squillante che interroga
Berlusconi assistito da Previti e poi lo proscioglie a tempo di
record. È lo stesso Squillante che la sentenza Sme dell'anno
scorso ha condannato a sei anni e definito «stabilmente
a libro paga della Fininvest». Poi, con calma, arriva
la legge sulle tv. La famigerata Mammì, nel 1990. Ancora
una volta è Craxi a imporla con la forza, complici Forlani
e Andreotti (che rimpiazza in una sola notte i cinque ministri
della sinistra dc, dimissionari per protesta). Anche Bettino avrà
la sua bella convenienza. Fra il 1991 e il 1992 riceverà
dalla All Iberian (Fininvest) 22 miliardi sui suoi conti personali
in Svizzera.
Nel 1990 succede tutto, anche il passaggio di
proprietà della prima casa editrice italiana, la Mondadori,
che pubblica Espresso, Panorama, Epoca,
Repubblica e quindici giornali locali. Ha il torto di
dare fastidio a Craxi, dunque a Berlusconi. Niente paura. Il Cavaliere
dà la scalata, complice il voltafaccia degli eredi Mondadori.
Debenedetti, l'azionista di maggioranza, resiste. Si va all'arbitrato.
Che dà ragione all'Ingegnere. Ma c'è la Corte d'appello
di Roma, ci pensa l'amico Vittorio Metta. Annulla il lodo, scrive
270 pagine di motivazioni in una notte (o almeno così dice:
in realtà la sentenza l'hanno scritta, prima, i legali
di Berlusconi) e alla fine incassa 400 milioni in contanti da
Pacifico.
Milioni che, tramite Previti, arrivano dai soliti
conti esteri della Fininvest. Questo dice la sentenza del Tribunale
di Milano che il 29 aprile 2003 ha condannato Previti a tredici
anni di reclusione, insieme a Pacifico e ai giudici Metta e Squillante
(anche per la compravendita di un'altra sentenza, quella che condannò
l'Imi, cioè lo Stato italiano, a pagare un risarcimento
non dovuto alla Sir di Nino Rovelli: mille miliardi, in cambio
di una mazzetta di 67, o forse di 100, a giudici e avvocati, palesi
e occulti). Soltanto l'intervento di Andreotti, allarmato dallo
strapotere mediatico di Berlusconi (e quindi di Craxi) lo costringe
a restituire parte del maltolto (Repubblica ed Espresso)
al legittimo proprietario Debenedetti.
Il groviglio di poteri
Quel groviglio di poteri, quell'impasto di arroganza
e impunità è immortalato, con l'autoscatto, nell'album
di Stefania Ariosto: politici e faccendieri, avvocati e magistrati,
tutti insieme appassionatamente in feste e spedizioni transoceaniche
al seguito di Cesare e Bettino, tutti futuri clienti di procure
e tribunali. Ma la migliore polaroid di quei rapporti illeciti
è nelle contabili bancarie che giungono dalla Svizzera
e dimostrano, nella sola primavera del '91 tre decisivi versamenti.
Il 14 febbraio 1991 Previti paga 425 milioni al giudice Metta
tramite Pacifico. Il 6 marzo 1991 bonifica 500 milioni a Squillante.
Il 16 aprile 1991, ancora tramite Pacifico, dirotta 500 milioni
sul conto del giudice Verde (poi assolto). Sempre con denaro della
Fininvest e del patrimonio personale di Silvio Berlusconi.
Nel 1992-1993 i nodi, con Mani Pulite, vengono
al pettine. I vecchi padrini si dividono fra tribunali e latitanze.
Anche Cosa Nostra perde i vecchi referenti politici così
indeboliti da non garantirla più nei processi. Occorre
un partito nuovo, ma anche vecchio. Dell'Utri, che mai si è
occupato di politica in vita sua, si getta a capo fitto nell'impresa.
Ingaggia un consulente ad hoc, Ezio Cartotto, sin dal maggio-giugno
1992. Che comincia a lavorare in segreto. In pochi mesi, grazie
alle strutture e ai miliardi di Publitalia, il gioco è
fatto.
Il Cavaliere, abbandonato dagli amici, indebitato
fino al collo e terrorizzato dai giudici, confessa a Cartotto:
«Di questo passo mi accuseranno di tutto, anche di essere
mafioso. Ogni tanto, mi scopro a piangere da solo nella doccia».
E poi, a Montanelli e a Biagi: «Se non entro in politica,
mi mettono in galera». Ma provvede Marcello, l'amico
siciliano. Le televisioni e i giornali fanno il miracolo. Il nuovo
miracolo italiano. Forza Italia.
l'Unità, 12.12.04 |