L'antipolitica non piove dal cielo, ma è ben piantata dentro il cuore della politica assoluta. L'antipolitica parla la lingua - sebbene rovesciata - della politica assoluta. Di quella politica "escatologica" che proprio non ne vuol sapere di rinunciare ai Fini Ultimi, quando sa già in partenza che è impossibile realizzarli. È vero, non sempre tutto quello che la politica promette deve per forza mantenerlo. No, non è affatto obbligata a mantener fede alle promesse fatte, come ci insegna Machiavelli. Solo che poi dovrebbe trarne le dovute conseguenze. Una, soprattutto: far ritorno al di qua dei suoi termini, dei suoi limiti e dentro di essi provare a fare quelle quattro cose che realmente è possibile fare. Niente più nemici: questo lo avevamo già da tempo interiorizzato. La tragica categoria schmittiana "amico-nemico", dopo la fine dell'antagonismo epocale tra capitalismo e comunismo pare, per il momento, che non ci sia più di grande aiuto. Ma una politica all'insegna del "buonismo" e che non contempla neanche più uno straccio di avversario con cui arrabbiarsi perlomeno il lunedì mattina, commentando i risultati di calcio, francamente è una novità. Negli anni in cui soprattutto il pensiero femminile più avvertito va imponendo finalmente le sane virtù della differenza, la politica fa invece quadrato intorno a una lirica e neoromantica uguaglianza. Visto come è andata a finire - e le premesse, in questo senso, c'erano tutte - si sarebbe dovuto invece, senza tanti bizantinismi, proprio correrlo il rischio di radicalizzare le divisioni, se si aveva veramente a cuore il progetto di costruire un paese normale. Era la via maestra per far uscire finalmente la politica dai gorghi che dilagano nelle dorate e ineffabili stanze del Palazzo, e avvicinarla alla vita quotidiana dei "normali" cittadini. In fondo, si trattava di riscrivere il patto fondamentale del nostro ethos civile e non l'ultimo codicillo qualunque. Se non chiamarli a pronunciarsi, a partecipare - e perché no, a dividersi - soprattutto in questa importante occasione, che avrebbe potuto rappresentare un momento di crescita civile per tutti, perché poi definire sbrigativamente "qualunquisti" quei cittadini che non credono più alla vocazione terapeutica e vagamente messianica della politica assoluta? Quella politica che non ci pensa due volte a stipulare i necessari patti col demonio, ma poi non è in grado di impedire che il demonio si impossessi della polis. A questo punto i fatti sembrano confermare che il nostro sistema politico e istituzionale non è riformabile. O perlomeno, che questa classe dirigente, asserragliata dentro il Palazzo, non è in grado di riformarlo. E se la politica rinuncia a questa sua funzione principale - e in particolare, la politica di sinistra - il terreno che essa abbandona viene conquistato e arato in largo e in lungo proprio dalle scorribande di coloro che D'Alema chiama "qualunquisti". Giacché il vuoto, in politica, non esiste. L'horror vacui è uno degli inconfondibili tratti che accompagna da sempre la regolarità della politica. Ciò che non riesce a fare la politica, ora viene fatto dall'antipolitica. Che sta più o meno abilmente imparando, grazie anche al lungo tirocinio, a fare politica dicendo che non intende farla. Può piacere o no, ma è così. Perché mai la sinistra è diffidente e storce il naso di fronte a una società civile che intende fare politica direttamente, saltando la rappresentanza di quel che resta dei partiti? Ma la spoliticizzazione contemporanea è l'effetto anche di una sconcertante politica che si ostina a voler inutilmente ancora politicizzare una società gia interamente politicizzata. Perseguendo questo scopo non si accorge, tuttavia, che è dalla volontà di ulteriore politicizzazione - una volontà che peraltro fallisce i suoi supremi obiettivi retoricamente sempre annunciati - che si alimenta l'odierna reazione antipolitica della società. È vero che il distacco delle masse dalla politica che si va consumando è la conseguenza dell'esplosione della tecnica e dell'economia, che si sono imposte ormai come nuovi idoli egemoni nella società. Idoli che hanno rapidamente plasmato una società economicistica, relegando la politica - e i partiti - in angoli ancillari. Ma è altrettanto vero che il distacco delle masse dalla politica è frutto "per buona parte, dei suoi protagonisti più occupati negli intrighi e nel malaffare che nella tutela degli interessi della "polis"" (Eugenio Scalfari, Poteri forti idee deboli, in "la Repubblica", 21 luglio 1996). Duplice è dunque la radice di questo distacco: da un lato, il soverchiante dominio della tecnica e dell'economia; dall'altro, il divorante appetito dei partiti, soggetti classici della politica moderna. È vero, l'onda lunga della rivoluzione conservatrice, che ha seminato in tutte le democrazie occidentali la dirompente idolatria dell'egoismo di massa, solo ora sta restituendo i suoi avvelenati frutti sociali. Dunque, appare veramente azzeccato lo slogan "I care" del Lingotto. Che, tuttavia, resta anch'esso un filantropico proposito. Un generoso se non pio e commovente proposito, fino a quando non si materializzerà in poche ma determinate questioni di cui la sinistra intenderà farsi politicamente carico, se vuole esser presa sul serio. Politicamente, non esistenzialmente o religiosamente carico. Ciò vuol dire, limitatamente - cioè concretamente- non universalmente - cioè genericamente e astrattamente - carico. Altrimenti, la virtuosa svolta "impolitica" impressa dal congresso, la svolta di cui la sinistra aveva tanto bisogno per congedarsi dall'onnipotenza della politica nichilistica e spoliticizzante - "assunzione di responsabilità significa anche assunzione del limite di ogni azione umana, compresi i limiti del diritto e i limiti della politica" - si diluirà in un religioso, untuoso e antipolitico ecumenismo. Giacché è da un bel pezzo che il mercato va riducendo a sua immagine e somiglianza l'intera società, divorandola inesorabilmente boccone dopo boccone. E questo processo che la politica - la sinistra - avrebbe dovuto e dovrebbe non diciamo invertire, ma quanto meno limitare, arginare. E invece, mai come oggi, la politica, in Italia come altrove nell'Occidente, sembra diventata una serva devota del mercato. Dal quale non è mai stata dissociata. Ma del quale oggi accetta, senza fiatare, logiche oscure e progetti di rapina. Una politica ricca di motivazioni ideali non è desiderabile solo perché produce consenso e permette di vincere le elezioni, ma anche e soprattutto produce consenso perché produce [...] senso per chi vi partecipa. La povertà contro cui dobbiamo lottare [...] è quella povertà spirituale di troppa gente, specialmente di molti giovani, che non trovano nell'esistenza tardo-moderna, motivazioni sufficienti per dare un significato alla propria vita [...] per realizzare questa politica quotidiana non possiamo fare a meno dei grandi valori [...] Dobbiamo far risorgere la politica come modo di ciascuno di dare un senso alla propria esistenza [...] L'importante di una politica carica di valori etici non sta solo nel produrre una classe dirigente immune dalla corruzione, ma soprattutto nel creare un clima sociale denso di significati. Occorre uscire dall'afasia, abbinare la ragione alla fantasia, parlare con gli atti ed agire con le idee. L'antipolitica della società politicizzata Paradossalmente, i partiti possono essere considerati come vittime del proprio successo. Le grandi fratture sociali si sono rimarginate soprattutto grazie ai partiti, lasciandoli pero privi della loro ragion d'essere originaria. Se, all'inizio, i partiti nascevano dall'interno della società e trovavano nelle sue fratture il proprio habitat ideale, oggi sono costretti a ricostruire - e giustificare - a ogni tornata elettorale il proprio legame e il proprio ruolo" (Calise 2000, p. 14). La società bolognese - grazie alla "virtuosa politicizzazione" operata dalla sinistra - da tempo è diventata una moderna ed europea società socialdemocratica, diciamo così. Ostinarsi a riproporre quel modello, in una città che ha invece bisogno di sperimentare altre novità, più avanzati programmi amministrativi, è stato esiziale per la sinistra: poteva essere altrimenti? Un ceto politico può non accorgersi che ha trasformato politicamente in meglio la società che sta governando? Può continuare a riproporre alla società che governa, come nulla fosse - evidentemente, a corto di idee -, il suo "glorioso" passato? Si tratti pure di un passato amministrativo che le altre città italiane si sognano, un ceto politico del genere e arrivato al capolinea. L'organizzazione non può supplire la politica quando questa è assente.Politica, antipolitica e spoliticizzazione È vero oppure no che nei sistemi democratici ciascun soggetto sociale e legittimato ad organizzarsi politicamente? Ma se ciascun soggetto sociale diventa anche soggetto politico, cosa resta alla fine della politica assoluta, identificata con un chiuso e impenetrabile ceto di professionisti e un partito rigorosamente gerarchizzato? Nulla, perché quella politica che intendeva politicizzare, formare, modellare, educare, civilizzare, democratizzare l'intera società, ha paradossalmente esaurito il suo compito in quanto ha politicizzato, "civilizzandoli", tutti i soggetti sociali possibili e immaginabili. Altro che malinconica decadenza della politica. Si tratta, invece, di ben altro. O meglio: se di decadenza vogliamo parlare, ebbene, tale decadenza è in realtà la massima estensione e realizzazione della politica. Se tutti fanno politica e si organizzano politicamente - sintomatica è ad esempio la proliferazione di liste civiche "usa e getta" nel nostro paese - ciò vuol dire che la politica non ha più alcuna "aura".Ma dalla politica non ci è dato emanciparci. Essa non può finire in quanto la politica è costitutivamente già finita. Dalla politicizzazione della società che abbiamo conosciuto soprattutto a partire dagli anni sessanta siamo ora approdati in un'età dove trionfa quella che, ancora provvisoriamente e con una certa approssimazione, potremmo definire socializzazione della politica. Quando si parla di politicizzazione della società, non si possono poi chiudere gli occhi di fronte all'avvenuta socializzazione della politica. E ai suoi effetti conseguenti: l'antipolitica è uno di essi. Se la politica "appassionata" - la politica assoluta, quella che varca ideologicamente i suoi termini traducendosi nel linguaggio teologico - non ha fatto altro, in questo paese, che sognare Grandi Riforme e promettere di concludere la transizione infinita, lasciando più o meno le cose come prima; se la politica "appassionata" ha sempre mancato le Grandi Occasioni che di volta in volta si prefiggeva, non facendo mai neanche quel poco che avrebbe potuto fare - ad esempio, limitarsi a ben governare - come si poteva ragionevolmente pensare che un sentimento antipolitico, prima o poi, non schizzasse fuori da una società divenuta ormai scettica e disillusa per le troppe credenze verso cui e stata costretta inutilmente ad appassionarsi? La passione, nell'agire politico, provoca sempre un innalzamento della febbre del fare (ma sono i termini della polis a renderne possibile l'efficacia e a determinane i limiti). È come se la prassi politica per poter essere veramente tale dovesse pensarsi sempre in una patologica condizione di perenne mobilitazione totale. Questa sarebbe la sua normalità per coloro che a sinistra auspicano il ritorno delle passioni. Una malinconica sinistra che interpreta l'antipolitica come tramonto di una presunta politica autentica è sulla rotta sbagliata. Una sinistra che pensa di fronteggiare tale fenomeno ricorrendo all'esasperazione del politicismo tipico della politica assoluta, è proprio alle corde. Questa sinistra, sempre in fuga dal presente, risucchiata a volte dal suo passato che non passa e a volte dai Grandi Fini Ultimi, dalle Grandi Riforme annunciate, rischia di diventare, essa sì, superflua. Se le parole di questa politica risultano sempre più inespressive, è perché la sintassi della politica sta diventando un vortice di parole che non indicano più nulla. Ma non per questo la politica si dissolve. Altro che tramonto della politica. A tramontare è - ripetiamolo ancora - una delle sue modalità: quella assoluta, autoreferenziale, morbosamente rinchiusa dentro gli agonizzanti partiti di cartapesta, intenta a sognare improbabili riconquiste. A tramontare è quella politica che, di fronte all'avvenuta sua socializzazione, si accanisce a voler ancora politicizzare una società che rifiuta la politica, perché ne è stata completamente inghiottita. Di ben altro la società avrebbe bisogno, non certo di una dose supplementare di politicizzazione. Fatta di Grandi Occasioni (sempre mancate), Grandi Riforme (sempre annunciate e sempre da realizzare), Grandi Speranze (puntualmente tradite). Nonché di vertici, convention, stati generali, verifiche, nuovi inizi palingenetici. È la politica assoluta che finisce. E finisce, perché nel suo delirio politicizzante - una sorta di distruttiva coazione a ripetere - non riesce ad accorgersi che sta alimentando la spirale della spoliticizzazione antipolitica contemporanea: "Passo dopo passo le società private incorporeranno gli affari dello Stato; persino al residuo più tenace, che resterà del vecchio lavoro del governare [...] si finirà un giorno per provvedere da imprenditori privati" (Nietzsche). Pur consapevoli che una componente mitica è indistricabile dall'agire politico, l'unica forma di legittimazione della prassi, dell'agire politico, deve essere ricercata di volta in volta nella prassi stessa, nel suo stesso operare, liberandosi dall'idolatria e dalla dimensione teologica della politica. Lo scandalo della politica in Kierkegaard è che non si dà nessuna teoria di salvezza. Ma solo immanente prassi, infaticabilmente trasformatrice della storia. E mai in modo irrevocabilmente irreversibile, come ci ha insegnato Vico. Quello che serve è quindi una critica, o meglio, un'opposizione ideale alla teologia politica. Così come serve che la politica torni ad essere una critica dell'economia politica. Fra spoliticizzazione ed antipolitica, la politica può sfuggire dalla propria autodissoluzione solo se è in grado di ripensare la produttività civile del conflitto politico. Poiché solo la produttività civile del conflitto politico può dare finalmente visibilità ad uno schieramento bipolare ed alternativo. Che è l'unico modo per salvare lo stato, e la politica, dalla rovina. Inoltre, se la politica moderna è nata per neutralizzare il conflitto, è la stessa politica moderna ad essere paradossalmente antipolitica, in quanto tende a neutralizzare il conflitto mediante la conversio ad unum, la ricerca del compromesso stabilizzante del centro. Tende a neutralizzare quel conflitto che è piuttosto l'unica realtà della politica, oltre la quale non c'è luogo salvifico cui ritirarsi asceticamente. Perché la politica, sin dalle sue origini, è crisi: è decidere cosa fare per la polis, per il suo bene comune, per la sua pace, per il suo ozio. È decidere di dividersi dalla possibilità di rappresentare il tutto. Il tempo è il delirio ossessivo della politica. Ecco perché essa non vuole e non può tramontare, ma stare saldamente al centro, stabilizzare ordinando geometricamente il conflitto e medicando i mali delle persone. E per farlo, la politica ha bisogno di ridurre gli individui a soggetti, abrogando in loro ogni dimensione contingente. Ma la sinistra dimentica troppo facilmente che il fine degli uomini "è la previdente preoccupazione della propria conservazione" (Hobbes 1989). Se la politica si risolve e si annulla nella funzione dello stato-governo, ciò vuol dire che al di fuori dello stato la politica è soltanto guerra, conflitto incivile e non politica. Poiché le parti - i partiti - non possono che dissolvere la loro originaria funzione rappresentativa nell'irrinunciabile necessità "tecnica" del governo. È quello che sta avvenendo in Italia, perlomeno negli ultimi trent'anni. Nel corso dei quali, dal governo parlamentare - dalla democrazia dei partiti di massa - si è via via passati al governo di partito (party government) (Vassallo 1994). Si è passati, cioè, da un'iniziale e fondamentale funzione rappresentativa dei partiti - l'inclusione delle masse nello Stato - a una loro successiva funzione - altrettanto fondamentale - di governo: "il governo di partito designa una forma di governo in cui i partiti detengono un saldo controllo sulle istituzioni statali" (Calise 1989, p. 22). Ma il "centrale" e neutrale governo dei partiti è destinato - si vedano gli USA - a trasformarsi rapidamente in governo presidenziale, strettamente legato al destino del carisma personale del leader. Mentre, già da ora, lo stesso governo presidenziale - si vedano sempre gli USA - tende a sua volta a trasformarsi nel corporate government (Lowi, 1991). Cioè, in una burocrazia federale svincolata dalla rappresentanza democratica che si realizza per via elettorale. L'antipolitica, evidentemente, non può che seguire la parabola degli odierni fenomeni di spoliticizzazione, qui in Europa e al di la dell' Atlantico. Progressiva delegittimazione dei partiti, crollo verticale del loro consenso, esaurimento della classica funzione di rappresentanza: dopo il secolo dei partiti si vanno lentamente ma progressivamente sempre più delineando democrazie senza partiti. La sempre più marcata autonomia dei partiti richiama quello che per Machiavelli è esattamente il contrario del conflitto politicamente produttivo: un conflitto sempre più privato fra ceti rappresentativi solo dei propri interessi. Si tratta di pensare simultaneamente, da un lato, la razionalità politica del disincanto veramente liberato da ogni tentativo di farsi idolo; dall'altro, la spiritualità che ci vincola a una dimensione che non può essere romanticamente confusa con quella della prassi politica. Se ci è dato ascoltarle simultaneamente, prestando ascolto anche alla pausa, all'intervallo, al silenzio che c'e tra queste due inconciliabili dimensioni; se riusciamo a poggiare i nostri piedi su questa sottilissima e mobilissima striscia di terra che è quasi un nulla, allora forse potremmo ascoltare la loro risonanza proprio dalla loro estrema e intransitabile lontananza. Solo in questo modo la politica eviterebbe di degradarsi nel gelido disincanto tecnocratico vuoto di ideali, oppure nell'incanto idolatrico ribollente di inutili passioni. Eviterebbe, cioè, di riprodurre all'infinito nel suo interno l'antipolitica e la politicizzazione spoliticizzante. È questo il dramma della politica occidentale. "È perfettamente esatto e confermato da tutta l'esperienza storica che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile." (Weber, 1919) |