
presentazione del libro: sala Aiace di Udine, 13 marzo 2011
Credo la presentazione dei cinque racconti di Carnia Kosakenland Kazackaja zemlja non possa prescindere dal quadro d’insieme di quello che è stato ed è l’impegno civile e letterario di Leonardo Zanier. Inizio perciò con alcuni riferimenti alle sue esperienze di vita e di lavoro e al rimanente della sua opera poetica, narrativa e pubblicistica.
Leo è nato a Maranzanis di Comeglians nel 1935; figlio di emigranti, è stato lui pure emigrante, prima in Marocco e poi in Svizzera, occupandosi di edilizia, poi di educazione professionale impegnandosi anche come sindacalista. Queste esperienze hanno trovato espressione in prosa e in poesia nei suoi libri, che sono molti ma che costituiscono un corpus assolutamente coerente per i temi e i toni che fanno di Zanier, soprattutto delle Zanier poeta, una delle voci più originali ed energiche della poesia in lingua friulana - o in una lingua friulana: quella carnica di Maranzanis.
A riprova di questo basti ricordare che la sua raccolta più celebre, Libers… di scugnî lâ, è stata tradotta in italiano, croato, svedese, inglese e non so se in altre lingue ancora, e credo che lo stesso non sia avvenuto per alcun altro nostro scrittore in marilenghe.
Libers… di scugnî lâ è stato il suo libro di esordio, nel 1964, allorché Zanier non era ancora trentenne, ed ha avuto numerose edizioni successive, tra le quali quella del 1977 presso Garzanti, con prefazione di Tullio De Mauro, e quella del 1998, presso la Ediesse, con prefazione di Sergio Cofferati e postfazione di Rienzo Pellegrini.
È stato al suo apparire, ed è ancora oggi, mi pare di poter dire, un unicum nella letteratura sull’emigrazione.
Nella sua Ideologia friulana, che sta per essere ripubblicato e che andrà letto di nuovo e meglio, Tito Maniacco elencava tra i miti propri dell’“ideologia friulana” - quella che in realtà è l’ideologia delle classi egemoni introiettata dalle classi subalterne - anche l’ideologia dell’emigrazione, caratterizzata da rassegnato fatalismo, supina autocommiserazione, vittimismo quasi compiaciuto, patetismo consolatorio.
Con Libers… di scugnî lâ Zanier venne a sbugiardare, a confondere, a travolgere questa impostura con una inaudita poesia di protesta, lucida, scabra, vibrata, che ha analogie ed equivalenze ideologiche con quella di Brecht, e di Eluard, e di Neruda, ma di cui Rienzo Pellegrini indica come luogo di nascita l’«accademia anticonformistica» delle osterie, delle latterie sociali, delle cooperative e dei comizi. Una poesia risentita che mai cade nell’altra opposta retorica, quella del populismo o della demagogia; una poesia dai risvolti corali che nasce da esperienze condivise, e che conserva le forme dell’oralità: l’iterazione, la paratassi ecc.
Una poesia che in passato ha suscitato le riserve di alcuni critici nostrani restii a concederle cittadinanza negli spazi “propriamente artistici” e che invece a una lettura attenta rivela una cura e una sapienza formale assai consapevoli degli strumenti linguistici, fonetici, semantici. E che Zanier riversi i suoi messaggi di poeta e narratore civile in testi tutt’altro che alieni dall’elaborazione stilistica è dimostrato dalle continue revisioni e riorganizzazioni delle sue raccolte: un continuo lavorìo che mi ricorda quello di Elio Bartolini.
Il tema dell’emigrazione costituisce una sorta di Leitmotiv di gran parte della produzione di Zanier, accanto a quelli, ad esso strettamente connessi, dei confini e dell’identità, ugualmente da lui demistificati.
Confini/Cjermins/Grenzsteine/Mejniki è il titolo sotto il quale nel 1992 Zanier ha raccolto e riorganizzato due opere precedenti: Che Diaz… us al meriti del 1976 e Sboradura e sanc del 1981.
Vi prego di notare la straordinaria efficacia del titolo quadrilingue: l’idea di confine che viene dissolta dalla stessa iterazione nelle lingue diverse di paesi contigui. Un titolo che ha la stessa efficacia dell’ossimoro della sua prima opera: Libers di scugnî (penso al doppio legame di Bateson…), un titolo e un intendimento implicito che ha eco anche in quello di Carnia Kosakenland Kazackaja zemlja.
Cjermins è un libro complesso, in cui Zanier rievoca la storia della sua famiglia, vicende della prima e della seconda guerra mondiale, di cui denuncia misfatti e violenze (ed ha modo di ironizzare sul modificarsi dei confini nazionali); del terremoto, di nuovo dell’emigrazione, di tradizioni popolari rivisitate con ironia ma non senza rimpianto e segnali di speranza. Il tema dei confini compare anche nella prefazione di Carnia Kosakenland.
Non possiamo soffermarci su tutte le altre opere di Zanier, ma ricordo almeno Il câli del 1989, laddove a fare da caglio, da fermento alla poesia è la memoria e una galleria di ritratti di paese diventa la cornice antropologica del fenomeno dell’emigrazione messo a contrasto ironico, o sarcastico, con i riti della villeggiatura.
E ancora ricordo Usmas, un’operetta che può essere una delle chiavi di lettura dell’opera tutta di Zanier. In Usmas il riferimento a una tribù australiana nomade, che ad ogni nuovo insediamento stagionale pianta un palo, l’axis mundi, centro simbolico in riferimento al quale si organizza la collettività, è stato interpretato da Gianfranco Scialino come immagine del legame culturale, linguistico ed affettivo di Zanier con la Carnia, suo axis mundi; la pietra di paragone, direi io, con la quale Zanier saggia e confuta la cultura dominante.
E infine ricordo Licôf grant, del 1997, libro diviso in tre sezioni: Il cine da memoria, Identitât e Arbui ratsiscj?; mi limito a questi tre titoli che enunciamo altrettante tematiche della poetica di Zanier: la memoria, l’identità e il razzismo. Questi due ultimi, identità e razzismo, sono contigui. Ancora una volta la satira di Zanier si abbatte sull’idea di confine, che si tratti di confini statali, o linguistici, o di proprietà, oppure di confini ideologici, o morali: tra violenza e resistenza, tra oppressione e rivolta, tra eresia e ortodossia, tra conflitto e convivenza.
tra bira e vin
tra sgnapa e gin
tra tè e cafè
tra mai e lafè
tra me e te
tra latins e todescs
tra todescs e sclâs
tra turcs e cinês
tra cjargnei e furlans
tra gjudeos e marans
tra alcol e kif
tra tabac e hashish
tra opio e eroina
tra criscj e ‘hameds
tra sincretiscj e bigots
tra il denti e il fôr
tra il sôra e il sot
tra il vert e il desert
tra il gajât e il maldert
tra fogolâr e spolert
tra purcits e cavrets
tra bistecas e trutas
tra spongia e vueli
tra ont e sain
tra Abele e Cain
tra asêt e limon
tra torba e cjarvon
tra lat e calostra
tra pasta e minestra
tra man cjampa e man gjestra
tra lami e salât
tra bulît e fumât
tra rustît e seciât
tra frait e frol
tra dûr e mol
tra planelas e cops
tra argilas e claps
tra fressuras e sclaps
tra teraças e tets
tra glacins e scarpets
tra il crût e il cuet
tra il mars e il côlt
tra subìt e dibot
tra sut e bagnât
tra bessôl e cubiât
tra plasê e torment
tra sorc e forment
tra pasta e rî
tra radic e râs
tra muarts e vîs
tra crauats e slovens
tra calviniscj e zwinglians
tra budiscji e pajans
tra flamands e walons
tra marcjants e larons
tra fossii e crista
tra cristians e nemai
tra il peç e il larç
tra il genâr e il març
tra fadia e sfuarç
tra sôra e sot
tra nord e sud
tra cemôt e parcè
tra te e me
tra me e me
È celebre, o dovrebbe esserlo, la poesia Identitât.
simpli di plui si zura
si barufa
si spostin cunfins
si si sbugjela
a si fan gueras
pa santissima identitât
ma l'identitât ce êse?
a dîli in curt e duta:
che s'ì fos su Marte
mi sintares cjericul
e co soi in Africa
mi sint European
co soi in Portugal talian
co soi a Roma furlan
co soi a udin cjargnel
co a Tomieç comeljanot
e a Comelijans maranzanot
e s'ì soi a Maranzanas:
no stin a confondi parplasê
la famea "Di Pasca"
la mê
cun chê di chei "Dal Ghet"
intausa pôc di sest
vegnûts cuissà da dontri
magari da Sighiet
insomas resons
da vendi indai e in vares
e chest lu si capis subìt
par vê in grant sospiet
par odeâju a muart
e salacor copâ
ducj chescj diviers
prin chei dal Ghet
e po' i comeljanors
e i tomiecins
e i udinês
e i furlans
par no dî i romans
i talians
i portoghês
i europeans
i africans
e ben s'intint i cjericui
domo ch'ì fos marzian
Ricordate almeno le opere più consistenti di Zanier, veniamo a questo Carnia Kosakenland Kazackaja zemlja.
Anche questo è un libro che appare in nuova edizione, dopo le due del 1996 e 1996. Raccoglie cinque racconti in carnico con versione italiana. Ha una limpida, cordiale postfazione di Mario Rigoni Stern e un bell’album fotografico che riguarda i luoghi e i personaggi di questi racconti: la madre di Leo, i gerarchi nazisti, i partigiani, i cosacchi, le lapidi dei cimiteri di Carnia, i discendenti dei cosacchi che oggi tornano in Carnia in traccia dei loro familiari.
Il libro si apre con un’introduzione di Zanier molto articolata, scritta quindici anni fa ed aggiornata per questa nuova edizione, che da sola costituisce una lettura estremamente gradevole. Inizia con una confutazione dell’idea di confine e di quella conseguente di nemico, mutevoli entrambe a seconda degli eventi bellici, e per questo assurde.
Poi Zanier ci confida che questi racconti, ambientati in Carnia tra il 1944 e il 1945, quanto lui aveva nove e dieci anni, nascono sì dal ricordo di fatti e incontri ed esperienze di quegli anni, ma sono stati suscitati, per affinità o per contrasto, da riferimenti attuali (al momento della loro concezione), e in almeno tre casi si tratta di riferimenti cinematografici: un episodio del film Zorba il greco che gli ricorda un fatto simile avvenuto nella Repubblica libera della Carnia; il film Un pilota ritorna la cui narrazione edulcorata ed eroica della guerra contrasta con quella che Zanier chiama «la pedagogia violenta indecente degradante della guerra vera» che lui ben conosce (la citazione è importante anche per quel concetto di pedagogia su cui torneremo), e il film I pugni in tasca a proposito del falò in cui la madre di Leo brucia quanto rimasto degli effetti personali del cosacco e del georgiano insediatisi nella sua casa, spargendone poi le ceneri nell’orto.
Questo a livello di innesco inventivo a livello di memoria. Ma c’è anche una naturale propensione alla narrazione che si nutre di racconti e che a sua volta diventa trasmissione:
[Queste storie] sono nate quasi casualmente, con almeno due stimoli forti. Mi sono da ‘sempre’ occupato di edilizia, di formazione e sindacato, di marginalità e di sviluppo locale, ma anche di storia orale, di tradizioni e magie, di migrazioni e ritorni, di mestieri e canzoni, soprattutto di parole: il loro senso e spessore, cosa c’è dentro e dietro e sotto le parole, prese da sole o a grappoli, combinate e scombinate nei modi più diversi. Perciò oltre a interrogare libri, rompevo le scatole ai ‘vecchi’ per chiedere informazioni e testimonianze, interpretazioni e spiegazioni, ricordi anche vaghi e chiavi per le serrature più semplici e per quelle più complicate.
Una propensione propriamente pedagogica: ho poco fa citato le parole di Zanier a proposito della pedagogia violenta della guerra»; è significativo che in due di questi cinque racconti ricorra l’aggettivo “pedagogico”: durante il festoso saccheggio del finanziere
Un al jescè vosant lêgri e cun fâ pedagogjic: «Cjalait achì, cjalait achì!». Al si puartava devour doi cjaldîrs di ram ducj un ricam a sbalç: «Lui ch’al veva di controlâ ch’a vignissin dâts a patria!»…
Mancul di ducj si scomponè la mari: a i fascè segno di lassâ pierdi e di tornâ tal cjôt, aì i mostrà, ben dôs voltas di fila, cemôt ch’a si lèin tas tresêfs las cjadenas das vacjas. Po a motus a i domandà di fâ compagn. Ivan lu fascè e chest viaça i vegnì ben. Daloras la mari si declarà sodisfata e a i fascè capî che duncja la facenda cussì si podeva dî scierada. A Ivan, encja lui incjantât da so fuarça pedagogjica, no i restâ che da scjassâ il cjâf ridint, cença plui jevâ aitis cantins.
La portata “pedagogica” di questi racconti sta nel ripensamento delle categorie storiche posticce (i confini, i nemici), nella riaffermazione dei veri ideali dell’antifascismo e della resistenza, nella condanna del razzismo e dell’odio etnico in ogni sua forma, compresa quella della cancellazione o rimozione delle tragedie che accomunano vincitori e vinti, ma sta anche nella forma del raccontare, per aneddoti e per exempla che ricevono efficacia di volta in volta dall’umorismo, dal pathos, dalla evidente sincerità dei sentimenti, ma soprattutto dal fatto che Zanier nel rivivere gli eventi riacquista gli occhi del bambino che ne fu testimone e partecipe.
Questo mi fa pensare al Calvino del Sentiero dei nidi di ragno che racconta la Resistenza vista con gli occhi di Pin.
Si organizzano, gli aneddoti, attorno a delle persone: i cinque racconti s’intitolano a Lisuta la mari, a Gori il partigiano, a Ivan il cosacco, a Chila l’amico, a Givi il georgiano, ma entro la cornice storica e critica di cui è l’adulto ad essere consapevole e giudice. Il racconto più ilare e divertente è quello dedicato a Chila, il ragazzetto che diverte gli amici facendo l’imitazione di Appelius, il giornalista di regime.
Scrive Zanier che «l’ironia a po’ encja cambiâ di segno a una sconfita», e l’ironia di Chila è il primo grado dell’indignazione (anzi del «disgusto per i ‘neo-Appelius’ che oggi imperversano») e della denuncia che in tutti questi racconti ristabiliscono una gerarchia di valori antitetica al bellicismo, al nazionalismo, alla retorica maligna dei regimi.
Messaggi che trovano perfetto veicolo nel bel carnico di Zanier, vigoroso, categorico, straodinariamente adatto ad espressioni incisive, che abbiano carattere di giudizio morale o di didascalico buon senso o di ironico gioco verbale. Di quest’ultimo vi sono esempi che mi hanno fatto pensare a Meneghello.
Tra
i passaggi più significativi, ne cito almeno qualcuno, a cominciare dalla chiusa del primo racconto, di cui la vera protagonista è la gatta di casa, che dà prova di straordinario amore per Lisute, la mari.
L’amôr nol è afâ di nemâi, an scrit pôs dîs fa certs gjesuits, e chel discori stramp mi à fat rimemorâ la nesta gjata. A è vera che in chei dîs chê gjata la ài encja un pôc odeada, par chel so amôr total, esclusîf, cença misura. Mi à fat cuâsit lâ il muset in stuart e a dî il vêr in chei dîs, a ricuardâ ben, como forsit gno pâri al à encja pensât, te vares pidadada.
L’amôr nol è afâ di nemâi? Intant chesta a è na storia. Vera. Storia di timps di guera, di fan e libertât. Contait ancja vuastis las vuestas storias. Metinlas inscieme dutas. No tant par provâ cui ch’a conta risias, ma par diur, encja grazias: no sês domo bistecas.
E poi questo, che si trova nel racconto di un funerale partigiano: durante la messa
il predi, cui paraments viola, che, cul turibul in man al stà inulant la cassa d’incens e cjantanti il Miserere, al alça i vôi interdet. Cual mai strada àno cjapât chescj fantats, tancj di lôr a erin stâts ancja siei zaguts, e dulà ju varessie puartâts? Di sigûr no podevin tornâ indevour. Ma s’a vincin lôr saresse deventada un’âta messa? Como cumò, cun chest rimbombâ spavalt, di disfida, di orgolio insciema a un dolôr dal dut cuscient e sut. A si sintiva ch’a no pensavin domo: «Cinîsa tu eras e cinîsa tu tornarâs a jessi», ma che dut un mont di odio, razisim, ditaturas, egoiso al veva, lui, di lâ prima in cinîsa e che chest si erin impegnâts a fâ. Scielta dura pa libertât, cuintra il «Viva la muerte!» dai falangiscj spagnûi, cuintra la cruda e arogant tristeria dal razzismo arian da svastica, dal crani cu las tibias incrosadas dai fasciscj.
L’umorismo e l’irenismo che si volgono in astio, temperato però dalla consapevolezza delle proprie colpe storiche, dal riconoscimento della reciprocità:
S’i mi ricuardi ben al è stât chel di Carlo l’ultin funerâl public di un partigian. Dopo a començarin chei dai nazi-cosacs, muarts encja lôr par guera o guerilia o par faidas, antîgas encja chês i inmò mancul claras das nestas. Nissun al lè a chei funerâi, se no lôr.
E sul tema dell’emigrazione:
Il nesti zôc al lè indevant a guera finida… Doramai dut il mont ‘l era nesti: i boscs, i forans dai crets e l’infinît labirint das galerias da linea fortificada… Ma dut chest al restà nesti par pôc timp: cualchidun, pôs, lerin indevant cu las scuelas tas citâts dongja, cui al lè cu la sô famea in Australia o in Canadà. Chest a deventà par tancj la pâs: emigrazion. Encja par tancj partigians. Par lôr un la vôr nol saltava fôr: a scuignirin lâ a ceriscel in Svizzera o in Francia o in Belgjo.
Il titolo generale della raccolta mette in primo piano i cosacchi, la Kosakenland. Nella letteratura friulana, la presenza cosacca in Carnia è tema di diverse opere narrative: cito soltanto Carlo Sgorlon con L’armata dei fiumi perduti; Claudio Calandra con Do svidanija. I fiori di Boria; Novella Cantarutti con il racconto Il cosacut; Bruna Sibille-Sizia con La terra impossibile.
Tutti questi scrittori danno prova non già di risentimento, ma di comprensione se non di pietà per gli invasori.
Così Zanier:
Ivan, cun ducj i siei, ch’a erin inmò vîfs, al cjapà la strada da lôr ultima e tremenda ritirada. Cuant ch’a nus saludà, cul ‘Parabel’ pa schena e il colbac in man, al steva cuâsit par vaî. Nissun disè nuja, parcè che cussì veva di jessi, ma s’al ves det: «Plataimi… i voi restâ a chì», i crôt ch’i varessin rispuindût: «Resta».
Dai funerâi cosacs a restarin lapidas scritas in cirilic e diviersas encja in arabo e cun su sculpida, in cuâsit dutas, la mieza luna dal Islam. Pecjât che, pôc timp dopo finida la guera, cuâsit ducj chei cuarps setino stâts disoterâts e po traslocâts, cu las lôr lapidas, tar un simiteri, sôl di cosacs e naziscj, sul Garda. Magari il puest al sarà biel e di atrat, ma da storia e da tragjedia nesta e lôr alc ‘l è lât pierdût. Dopo ogni purificazion etnica, sei di vîfs che di marts, si resta di sigûr plui povers.
Ecco, ci sono in Zanier questi motivi di fratellanza universale al di là delle diversità di lingua religione e costumi che danno ancor maggiore spessore etico alla sua letteratura: letteratura civile, impegnata, esempio di quella vera identità che convive o coincide con il cosmopolitismo. |