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Torquato Accetto (1590 ca. - 1640)
Della dissimulazione onesta |
L'autor a chi legge
A questo mio trattato io pensava di aggiunger alcune altre mie prose, perché 'l volume, che ha difetto nella qualità, fosse in qualche considerazione per merito della quantità; ma per molt'impedimenti non è stato possibile, e spero di farlo tra poco tempo,
Edita ne brevibus pereat mihi charta libellis,
come disse Marziale. Né solo m'occorre di significar questo alla benignità di chi legge, ma piú espressa la mia intenzione intorno alla presente fatica, ancorché nel primo capitolo della medesima opera io l'abbia detto: affermo dunque che 'l mio fine è stato di trattar che 'l viver cauto ben s'accompagna con la purità dell'animo, ed è piú che cieco chi pensa che per prender diletto della Terra s'abbia d'abbandonar il Cielo. Non è vera prudenzia quella che non è innocente, e la pompa degli uomini alieni dalla giustizia e dalla verità non può durare, come spiegò il re David dell'empio ch'egli vide innalzato simile a' cedri di assai famoso monte; da che conchiude:
Custodi innocentiam et vide aequitatem,
quoniam sunt reliquiae homini pacifico.
Cosí è amator di pace chi dissimula con l'onesto fine che dico, tollerando, tacendo, aspettando, e mentre si va rendendo conforme a quanto gli succede, gode in un certo modo anche delle cose che non ha, quando i violenti non sanno goder di quelle che hanno, perché, nell'uscir da se medesimi, non si accorgono della strada ch'è verso il precipizio. Quelli che hanno vera cognizione dell'istorie potranno ricordarsi del termine a che si son condotti gli uomini alli quali piacque di misurar i loro consigli con sí fatta vanità, e da quanto va succedendo si può veder ogni giorno il vantaggio del proceder a passi tardi e lenti, quando la via è piena d'intoppi. Da questa considerazione mi mossi a trattar di tal suggetto, e mi son guardato da ogni senso di mal costume, procurando pur di dir in poche parole molte cose; e se in questa materia avessi potuto metter nelle carte i semplici cenni, volentieri per mezzo di quelli mi averei fatto intendere, per far di meno anche di poche parole. Ha un anno ch'era questo trattato tre volte piú di quanto ora si vede, e ciò è noto a molti; e s'io avessi voluto piú differire il darlo alla stampa, sarebbe stata via di ridurlo in nulla, per le continue ferite da distruggerlo piú ch'emendarlo. Si conosceranno le cicatrici da ogni buon giudizio, e sarò scusato nel far uscir il mio libro in questo modo, quasi esangue, perché lo scriver della dissimulazione ha ricercato ch'io dissimulassi, e però si scemasse molto di quanto da principio ne scrissi. Dopo ogni sforzo di ben servir al gusto publico, io conosco di non aver questo, né altro valore, e solo ho speranza che sarà gradita la volontà. In questa è l'uomo, e già disse Epicteto stoico: "Quandoquidem, nec caro sis, nec pili, sed voluntas".
Viva felice
I. Concetto di questo trattato
Da che 'l primo uomo aperse gli occhi, e conobbe ch'era ignudo, procurò di celarsi anche alla vista del suo Fattore; cosí la diligenza del nascondere quasi nacque col mondo stesso, ed alla prima uscita del difetto, ed in molti, è passata in uso per mezzo della dissimulazione; ma considerando l'odio che si tira appresso chi mal porta questo velo, e che nel bel sereno della vita non si dee dar luogo all'importuna nebbia della menzogna, la qual in ogni modo convien che resti esclusa, ho deliberato di rappresentar il serpente e la colomba insieme, con intenzion di raddolcir il veleno dell'uno e custodir il candor dell'altra (come sta espresso in quelle divine parole: "Estote prudentes sicut serpentes, et simplices sicut columbae"), importando a ciascuno che comandi o che ubbidisca il valersi d'industria tanto potente tra le contradizzioni che spesse volte s'incontrano; e benché molti intendano meglio di me questa materia, penso non di meno di poterne significar il mio parere, e tanto piú quanto mi ricordo il danno che averebbe potuto farmi lo sfrenato amor di dir il vero, di che non mi son pentito; ma amando come sempre la verità, procurerò nel rimanente de' miei giorni di vagheggiarla con minor pericolo.
II. Quanto sia bella la verità
Prima che la vista si disvii nel cercar l'ombre che appartengono all'arte del fingere, come quella che nelle tenebre fa i piú belli lavori, si consideri il lume della verità, per prender licenza di andar poi un poco da parte, senza lasciar l'onestà del mezzo. Il vero non si scompagna dal bene, ed avendo il suo proprio luogo nell'intelletto, corrisponde al bene ch'è riposto nelle cose; né può la mente dirizzarsi altrove per trovar il suo fine, e se 'l vulgo si reputa felice in quello che appartiene al senso, ed i politici nella virtú o nell'onore, i contemplativi mettono il loro sommo bene in considerar l'Idee che son nel primo grado della verità, la qual in tutte le cose è la proprietà dell'essere a quelle stabilito, perché in tanto son vere in quanto son conformi al divino intelletto; ma Dio se stesso ed ogni cosa intende, e l'esser divino non solo è conforme al divino intelletto, ma in sostanza è lo stesso: onde Dio è la verità medesima, ch'è misura di ogni verità, essendo prima causa di tutte le cose, e quelle son nella mente divina, loro principio esemplare; e dalla verità divina, ch'è una, risulta la verità multiplicata nel creato intelletto, dove la verità non è eterna se non quanto si riduce in Dio per ragion di esempio e di causa, nella qual ritornan tutte le sostanzie e gli accidenti e le lor operazioni: e come in Dio è immutabile, perché il suo intelletto non è variabile e non cava altronde la verità, ma il tutto conosce in se stesso, cosí nella mente creata è mutabile, potendo questa passar dal vero nel falso, secondo il corso dell'opinioni; o, restando la medesima opinione, mutarsi la cosa. Sol dunque nell'eterna luce il vero è sempre vero: in quella prima luce che tanto si leva da' concetti mortali, internandosi nel suo profondo, con nodo d'amore, tutto quello che si spande per l'universo; e la vera bellezza è nella verità stessa, e fuor di quella sol quanto di là dipende. Ma questo è piú luogo da considerar la verità morale, con che l'uomo tal si dimostra qual è; ond'or, lasciando il discorrer per que' chiari abissi del primo vero, toccherò quest'altra parte che tanto appartiene alla nostra umanità, per renderla forte, e sincera, mentre l'adorna di ogni abito gentile, o (per dir piú espresso) la va spogliando di que' veli, che son fatti di mano propria della fraude, che ingombra l'anima di cosí duri impacci, e ne fa sospirar quel secolo, che tra gli altri beni fu chiamato d'oro per la verità, la qual con dolcissima armonia metta tutte le parole sotto le note de' cuori, poiché noti, e quasi fuor de' petti, in ogni discorso si sentivano impressi. È chiaro che anche per altri rispetti furo onorati quegli anni con sí glorioso nome, ed in particolar fu secolo d'oro perché non ebbe bisogno d'oro, e, prendendo dalle semplici mani della natura il cibo e la veste, seppe trovar ne' boschi stanza civile, non bramando piú caro tetto che 'l cielo, né piú sicuro letto che la terra, sí che gli uffici del tempo ed i servigi degli elementi si riscontravano negli animi ben disposti all'intelligenza del piacer fermo; ma tutte queste sodisfazzioni sarebbono state invano, se la verità non fosse andata per le bocche di quella pur troppo bene avventurata gente, se non fosse stata scritta nel candore di que' magnanimi petti con caratteri (benché invisibili) di buona corrispondenza; però non bisognava che 'l sí, e 'l no, si menasse i testimoni appresso. L'amico parlava all'amico, l'amante all'amante, non con altra mente che di amicizia e di amore. Alla verità si ubbidiva perché ella invitava ciascuno a dimostrarsi senza nube, e cosí si rappresentava l'αυ̉θέκαστος, ch'è il verace ne' detti, e ne' fatti, in considerar in vero ch'è di sua natura onesto; ed essendo egli φιλαλήθης, ama il vero
non per ragion di utile o per
solo interesse d'onore, ma
per se stesso, ed ha piú
occasione di amarlo
quando vi s'aggiunge la salute della re
publica o
dell'amico.
III. Non è mai lecito di abbandonar la verità
Non tanto la natura fugge il vacuo, quanto il costume dee fuggir il falso, ch'è il vacuo della favella e del pensiero: "dicere enim et opinari non entia, hoc ipsum falsum est, et orationi et cogitationi contingens", dice Platone. Non si può permetter che della menzogna (considerata secondo se stessa) appena un neo si lasci veder nella faccia dell'umana corrispondenza; e di piú, quando il vero non par di esser vero, convien di tacere, come afferma Dante:
<...> a quel ver(o) c'ha faccia di menzogna
dee l'uom chiuder le labbra quant'ei puote,
però che senza colpa fa vergogna.
Bisogna dunque di volger gli occhi alla luce alla luce del vero prima di muovere la lingua alle parole; ma come fuor del mondo si concede quello che da' filosofi è nominato vacuum improprium, dove si riceverebbe lo strale che si vibrasse da chi fusse nell'estrema parte del cielo, cosí l'uomo, ch'è un picciol mondo, ha talora fuor di sé un certo spazio da chiamarsi equivoco, non già inteso come semplice falso, a fine di ricever in quello, per cosí dire, le saette della fortuna, ed accommodarsi al riscontro di chi piú vale ed anche piú vuole, in questo corso degli umani interessi; e dico che ciò avviene fuor di sé, perché niuno, il qual non abbia perduto il bene dell'intelletto, ha persuaso se stesso al contrario del suo concetto che sia da lui appreso con la ragion in atto; onde a questo modo non si può far inganno a se medesimo, presupposto che la mente non possa mentire con intelligenza di mentire a se stessa, perché sarebbe veder e non vedere; si può nondimeno tralasciar la memoria del proprio male, per qualche spazio, come dirò; ma dal centro del petto son tirate le linee della dissimulazione alla circonferenza
di quelli che ci stanno intorno. E qui bisogna il termine della prudenza che,
tutta appoggiata al vero, nondimeno a luogo e tempo va ritenendo o dimostrando il
suo splendore.
IV. La simulazione non facilmente riceve quel senso onesto che si accompagna con la dissimulazione
Io tratterei pur della simulazione, e spiegherei appieno l'arte del fingere in cose che per necessità par che la ricerchino; ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità il farne di meno; e benché molti dicano: "Qui nescit fingere nescit vivere", anche da molti altri si afferma che sia meglio morire, che viver con questa condizione. In breve corso di giorni o d'ore o di momenti, com'è la vita mortale, non so perché la medesima vita si abbia da occupar a piú distrugger se stessa, aggiungendo il falso delle operationi dove l'esser quasi non è; poiché la vera essenzia, come disse Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando imaginaria l'essenzia di ciò ch'è corporeo. Basterà dunque il discorrer della dissimulazione, in modo che sia appresa nel suo sincero significato, non essendo altro il dissimulare, che un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nell'ordine dell'universo sia il giorno e la notte, cosí convien che nel giro delle opere umane sia la luce
e l'ombra, dico il proceder
manifesto e nascosto, conforme al corso della ragione, ch'è regola
della vita e degli
accidenti che
in quella occorrono.
V. Alcuna volta è necessaria la dissimulazione, e fin a che termine
La frode è proprio mal dell'uomo, essendo la ragione il suo bene, di che quella è abuso; onde nasce ch'è impossibile di trovar arte alcuna, che la riduca a segno di poter meritar lode: pur si concede talor il mutar manto, per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con intenzion di fare, ma di non patir danno, ch'è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si suol valere della dissimulazione, che però non è frode; ed anche in senso tanto moderato, non vi si dee poner mano se non per grave rispetto, in modo che si elegga per minor male, anzi con oggetto di bene. Sono alcuni che si trasformano, con mala piega di non lasciarsi mai intendere; e spendendo questa moneta con prodiga mano in ogni picciola occorrenza, se ne trovano scarsi dove piú bisogna, perché scoperti ed additati per fallaci, non è chi loro creda. Questo è per avventura il piú difficile in tal industria; perché, se in ogni altra cosa giova l'uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il contrario, poiché il dissimular sempre mi par che non si possa metter in pratica di buona riuscita. � dunque dura impresa il far con arte perfetta quello che non si può essercitar in ogni occasione, e però non è da dir che Tiberio fosse molto accorto in questo mestiero, ancorché da molti si affermi; e ciò considero perché, dicendo Cornelio Tacito: "Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura seu adsuetudine, suspensa semper et obscura verba"; non solo disse prima: "plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat", ma conchiude: "At patres, quibus unus metus, si intelligere viderentur", ecc.; ecco che si accorgeano chiaramente della sua intenzion in quelli continui artifici. In sostanza il dissimular è una professione della qual non si può far professione, se non nella scola del proprio pensiero. Se alcuno portasse la ma-
chera ogni giorno, sarebbe
piú noto di ogni altro,
per la curiosità di tutti;
ma degli eccellenti
dissimulatori, che
sono stati e sono, non si ha
notizia alcuna.
VI. Della disposizione naturale a poter dissimulare
Quelli in chi prevale il sangue o la malinconia o la flemma o l'umor collerico, è molto indisposto a dissimulare. Dove abbonda il sangue, concorre l'allegrezza, la qual non sa facilmente celare, essendo troppo aperta per sua propria qualità. L'umor malinconico, quando è fuor di modo, si fa tante impressioni, che difficilmente le nasconde. Il soverchio flemmatico, perché non fa gran conto de' dispiaceri, è pronto ad una manifesta tolleranzia; e la collera, che è fuor di misura, è troppo chiara fiamma, da dimostrar i proprii sensi. Il temperato dunque è molto abile a questo effetto di prudenza, perché ha da esser, nelle tempeste del cuore, tutta serena la faccia; o, quando è tranquillo l'animo, parer turbato il viso, come anderà richiedendo l'occasione; e ciò non è facile, se non al temperamento che dico. Non voglio contradir all'opinione di que' che sogliono attribuir a certi popoli la disposizione del dissimulare e, ad altri, stimarla quasi impossibile; ma ben posso dire che, in ogni paese, son di quelli che l'hanno e di que' che non vi si sanno accommodare; ma piú è certo che gli uomini non nascono con gli animi legati a necessità alcuna, onde libera la volontà si gira all'elezzione; e ciò leggiadramente fu espresso da Dante in que' versi:
Voi che vivete ogni cagion recate
pur suso al cielo, sí come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se cosí fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per mal aver lutto.
Il cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto che 'l dica,
lume v'è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie del ciel dura,
poi vince tutto, se ben si nutrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; <e> quella cria
la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura.
VII. Dell'esercizio che rende pronto il dissimulare
Da chi ha per non plus ultra le porte delle natie contrade, o che da' libri non apprende il lungo e 'l lato del mondo, e' suoi vari costumi, con difficultà si viene al consiglio della dissimulazione; perché in persona cosí molle e poco intendente, riesce molto dura questa pratica, la qual contiene l'esser d'assai e talora parer da poco: è dunque conforme a questo abito chi non s'è tanto ristretto, poiché dal conoscer gli altri nasce quella piena autorità che l'uomo ha sopra se stesso quando tace a tempo, e riserba pur a tempo, quelle deliberazioni che domane per avventura saranno buone, ed oggi sono perniziose. Chiaro è che 'l viaggio per diversi paesi, come Omero cantò di Ulisse, "qui mores hominum multorum vidit et urbes", o l'aver letto ed osservati molti accidenti, è cagion potente a produrre una gentil disposizione di metter freno agli affetti, acciò che non come tiranni, ma come soggetti alla ragione, ed a guisa di ubbidienti cittadini, si contentino ad accommodarsi alla necessità, della quale disse Orazio:
Durum, sed levius fit patientia
quicquid corrigere est nefas.
Sí che tant'altezza di spirito si accresce per mezzo della vita occupata negli affari del mondo, e nella considerazione del tempo passato, per non contradir al presente e poter far giudicio dell'avvenire. Stando la mente cosí sodisfatta, non le parrà nuova qual si sia mutazio-
ne che le si vada rappresentando, ed in conseguenza
dipenderà da lei, e non
dal precipizio del
senso, l'espression di quanto le succede.
VIII. Che cosa è la dissimulazione
Da poi che ho conchiuso quanto conviene il dissimulare, dirò piú distinto il suo significato. La dissimulazione è una industria di non far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è. Disse Virgilio di Enea:
Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem.
Questo verso contiene la simulazion de la speranza e la dissimulazione del dolore. Quella non era in Enea, e di questo avea pieno il petto; ma non volea palesar il senso de' suoi affanni: ricordava però a' compagni l'aver sofferti piú gravi mali, e nominando la rabbia di Scilla e lo strepito degli scogli ed i sassi de' Ciclopi, se ne valse come per sepellir tra que' mostri, e tra quelle passate ruine, tutte le rie venture che lor già davan noia; e col dolcissimo "meminisse iuvabit", conchiude:
Per varios casus, per tot discrimina rerum
tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas
ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae.
Durate, et vosmet rebus servate secundis.
Ma in ogni modo l'animo era ferito, e troppo dolente, perché "Talia voce refert curisque ingentibus aeger." Si vede in questi versi l'arte di nasconder l'acerbità della fortuna, e prima fu espresso da Omero come da Ulisse si dissimulava il dolore, quando in altra figura dava di se stesso nuova alla sua Penelope; della qual disse:
Hac autem <iam> audiente fluebant lacrymae, liquefiebat autem corpus
sicut autem nix liquefit in altis montibus,
quam Eurus liquefecit, postquam Zephyrus defusus est
liquefacta autem igitur hac, fluvii implentur fluentes:
sic huius liquefiebant pulchrae genae lachrymantis
flentis suum virum assidentem. At Ulysses
animo quidem lugentem suam miserabatur uxorem.
Oculi autem tanquam cornua stabant vel ferrum.
Tacite in palpebris dolo autem hic lachrymas occultabat.
Ecco la prudenza con che Ulisse mettea freno alle lagrime, quando era tempo di nasconderle; e la comparazion di liquefarsi Penelope, come la neve, mi dà occasione di soggiunger quello che sia l'umido e 'l secco, dicendo Aristotile: "humidum est quod suo ipsius termino contineri non potest; facile autem termino continetur alieno. Siccum est quod facile suo, difficulter autem termino terminatur alieno". Da che si può apprender che il dissimular ha del secco, perché si ritien nel proprio termine; e questi son gli occhi di Ulisse rassomiliati, in tempo di dolore, alla fermezza del corno e del ferro, quando que' di Penelope eran molli e non avean termine prescritto, conforme a quelle ch'eran versate nell'animo di Ulisse, tenendo il
ciglio asciutto, ed a questo
par che corrisponda
quella sentenza di
Eraclito: "Lux
sicca, anima
sapientissima".
IX. Del bene che si produce dalla dissimulazione
Presupposto che nella condizion della vita mortale possano succeder molti difetti, segue che gravi disordini siano al mondo quando, non riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portan pericolo di produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene agli uomini, se pur si considera la natura per tante altre opere di qua giú, si conosce che tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il bello de' corpi che stanno soggetti alla mutazione, e veggansi tra questi i fiori, e tra' fiori la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a prima vista dissimula di esser cosa tanto caduca, e quasi con una semplice superficie di vermiglio, fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch'ella sia porpora immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso:
quella non par che disiata avanti
fu da mille donzelle e mille amanti;
perché la dissimulazione in lei non può durare. E tanto si può dir di un volto di rose, anzi di quanto per la terra riluce tra le piú belle schiere d'Amore; e benché della bellezza mortale sia solito dirsi di non parer cosa terrena, quando poi si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato dal favor dell'età, che ancor si sostiene nel riscontro di quelle parti e di que' colori che han da dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte. Giova dunque una certa dissimulazion della natura, per quanto si contiene tra lo spazio degli elementi, dov'è molto vera quella proposizione che afferma di non esser tutt'oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre, perché ivi tutte le cose son belle dentro e fuori. Or, passando all'utile che nasce dalla dissimulazione ne' termini morali, comincio dalle cose che piú bisognano, dico dall'arte della buona creanza, la qual si riduce nella destrezza di questa medesima diligenza. E leggendosi quanto ne scrisse monsignor della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina insegna cosí
di ristringer i soverchi disiderii, che son cagion di
atti noiosi, come il mostrar di non veder gli
errori altrui, acciò che la conversazione
riesca di
buon
gusto.
X. Il diletto ch'è nel dissimulare
Onesta ed util è la dissimulazione, e di piú, ripiena di piacere; perché se la vittoria è sempre soave, e come disse Ludovico Ariosto,
Fu il vincer sempre mai lodabil cosa,
vincasi per fortuna o per ingegno,
è chiaro che 'l vincer per sola forza d'ingegno succede con maggior allegrezza, e molto piú nel vincer se stesso, ch'è la piú gloriosa vittoria che possa riportarsi. Quest'avviene nel dissimulare, con che, dalla ragione superato il senso, si riceve intiera quiete; ed ancorché si senta non poco dolor quando si tace quello che si vorrebbe dire, o si lascia di far quanto vien rappresentato dall'affetto, nondimeno piace poi grandemente d'aver usata sobrietà di parole e di fatti. A questa conseguenza di sodisfazzione, ha da rivolger il pensiero chi disidera di viver con riposo; e ciascun, che vuol ben accorgersene per gl'interessi suoi, vegga sopra di ciò gli altrui falli, e cosí ben conosca che tanto è nostro quanto è in noi medesimi. Non dico che non si han da fidar nel seno dell'amico i segreti, ma che sia veramente amico; ed è degno di gran considerazione, in quell'epigramma di Marziale, dove parla a se stesso della vita beata, che nominando a questo fine dicisette cose, fa che stia nel mezzo "prudens simplicitas", dicendo:
Vitam quae faciunt beatiorem,
iucundissime Martialis, haec sunt:
res non parta labore, sed relicta;
non ingratus ager, focus perennis;
lis nunquam, toga rara, mens quieta;
vires ingenuae, salubre corpus,
prudens simplicitas, pares amici,
convictus facilis, sine arte mensa;
nox non ebria, sed soluta curis;
non tristis torus, attamen pudicus;
somnus qui faciat breves tenebras;
quod sis esse velis nihilque malis,
summum nec metuas diem nec optes.
Il prudente candor dell'animo è dunque il centro della tranquillità. "Hoc opus, hic labor".
XI. Del dissimulare con li simulatori
Quelli che si applicano al piacer della parte ch'è in noi soggett'alla morte, sprezzando l'uso della ragione, si mutano in abito di fiere; perché tali son da riputarsi, come fu espresso da Epicteto stoico, dicendo: "Certe misellus homuncio, et caro infoelix, et revera misera. At melius <etiam> quiddam habes carne; quare, misso illo et neglecto, carni duntaxat es deditus? Ob huius societatem declinantes a meliore natura quidam, lupis similes efficimur, dum sumus perfidi et insidiosi et ad nocendum parati: alii leonibus, quia feri, immanes ac truculenti: maxima vero pars vulpeculae sumus".
Da che si può considerar un de' duri impedimenti nel dissimulare; poiché il guardarsi da lupi e da leoni è cosa piú pronta per la notizia che si ha della lor violenza, e perché poche volte si riscontrano; ma le volpi son tra noi molte e non sempre conosciute, e quando si conoscono, è pur malagevole usar l'arte contra l'arte, ed in tal caso riuscirà piú accorto chi piú saprà tener apparenza di sciocco, perché, mostrando di creder a chi vuol ingannarci, può esser cagion ch'egli creda a nostro modo; ed è parte di grand'intelligenza che si dia
a veder di non vedere,
quando piú si vede, già
che cosí 'l giuoco è
con occhi che paion chiusi e stanno in se stessi
aperti.
XII. Del dissimulare con se stesso
Mi par che l'ordine di questo artificio metta prima la mano nella persona propria; ma si richiede prudenzia in estremo, quando l'uomo ha da celarsi a se medesimo, e questo non piú che per qualche picciolo intervallo e con licenza del "nosce te ipsum", per pigliar una certa ricreazione passeggiando quasi fuor di se stesso. Prima dunque ciascun dee procurar non solo di aver nuova di sé e delle cose sue, ma piena notizia, ed abitar non nella superficie dell'opinione, che spesse volte è fallace, ma nel profondo de' suoi pensieri, ed aver la misura del suo talento e la vera diffinizione di ciò ch'egli vale, essendo di maraviglia che ogni uno attend'a saper il prezzo della roba sua e che pochi abbian cura o curiosità d'intender il vero valor dell'esser loro. Or, presupposto che si sia fatto il possibile di saperne il vero, conviene che in qualche giorno colui ch'è misero si scordi della sua disavventura, e cerchi di viver con qualche imagine almeno di sodisfazzione, sí che sempre non abbia presente l'oggetto delle sue miserie. Quando ciò sia ben usato, è un inganno c'ha dell'onesto; poiché è una moderata oblivione, che serve di riposo agl'infelici: e benché sia scarsa e pericolosa consolazione, pur non se ne può far di meno, per respirar in questo modo; e sarà come un sonno de' pensieri stanchi, tenendo un poco chiusi gli occhi della cognizion della propria fortuna, per meglio a-
prirli dopo cosí breve ristoro: dico breve, perché facilmente si muterebbe
in letargo, se troppo
si praticasse questa negligenza.
XIII. Della dissimulazione che appartiene alla pietà
Quando considero che il vino fu trovato dopo il diluvio, conosco che non bisognava minor quantità d'acqua per temperarlo; e qui son da veder due cose: una di Noè, che ne restò ignudo, e ciò ne dimostra che 'l vino è molto contrario alla dissimulazione, e quanto questa s'impiega a coprire, tanto quello attende a scoprire; l'altra della pietà delli due figli, che con la faccia indietro ricoprirono il padre, dissimulando di vederlo a tal termine, quando dal lor fratello, già alienato da ogni legge di umanità, era schernito ignudo colui che l'avea vestito delle proprie carni. Oh quanti son al mondo che imitano questa mostruosa ingratitudine, facendo materia da ridere chi loro doverebber'esser oggetto d'amore e di reverenza! Pochi son gl'imitatori di que' due che seppero trovar il modo di volger le spalle, per pietà, al padre, non come molti fanno, che si lascian la paterna necessità dietro le spalle. Non solo que' pietosi figli si occuparono a ricoprir il padre, ma vollero mostrar di non averlo veduto in tal condizione. Cosí ciascuno dee corrisponder a scusar i disordini, ed in particolare que' de' superiori, ogni volta che alcuno di loro v'incorre. Altri pietosi uffici mi si rappresentano nell'istoria di Giuseppe che, venduto da' fratelli, mostrò poi di non conoscerli, a fine di piú riconoscerli per mezzo de' benefici; e, con esempio di rada mansuetudine, dissimulava il dono di quegli elementi che lor in apparenza vendeva, perché i medesimi sacchi ne riportavano i danari a casa; finché, fatto venir anche l'ultimo de' fratelli, e usati tutt'i modi di manifestar a tempo la sua benignità, "non se poterat ultra cohibere Joseph multis coram adstantibus". In questo ebbe fine quella sincera ed innocente dissimulazione; e segue nel Genesia narrarsi la sua pietà: "unde praecepit ut egrederentur cuncti foras, et nullus interesset alienus agnitioni mutuae. Elevavitque vocem cum fletu, quam audierunt Aegyptii, omnisque domus Pharaonis, et dixit fratribus suis: - Ego sum Joseph -". Era egli nell'Egitto con suprema gloria, e già chiamato salvator del mondo; con tutto ciò, non tenendo conto dell'offese, dissimulò d'esser fratello, per dimostrarsi piú che fratello. Io non so chi possa ritener le lagrime, leggendo quella pietosa istoria, dalla qual si può apprender la dolcezza del perdono e del dissimular l'ingiurie, e massimamente quando vengon da persone tanto care quanto son i fratelli.
XIV. Come quest'arte può star tra gli amanti
Amor, che non vede, si fa troppo vedere. Egli è picciolo, e come disse Torquato Tasso:
Picciola è l'ape, e fa col picciol morso
pur gravi e pur moleste le ferite;
ma qual cosa è piú picciola d'Amore,
se in ogni breve spazio entra, e s'asconde?.
Nondimeno è pur tanto grande, che non ha luogo da potersi in tutto nasconder, è quando è giunto al suo centro, ch'è il cuore, se non si mostra per altra via, accende quella febre amorosa della qual era infermo Antioco e di che il Petrarca fe' che dicesse Seleuco:
E se non fosse la discreta aita
del fisico gentil, che ben s'accorse,
l'età sua in sul fiorir era fornita.
Tacendo, amando, quasi a morte corse;
e l'amar forza, e 'l tacer fu virtute;
la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse.
Quindi si può considerar come, mettendosi fuoco a tutta la casa, le faville, anzi le fiamme, ne fan publica pompa per le finestre e dal tetto. Tanto avviene, e peggio, quando amor prende stanza ne' petti umani, accendendogli da dovero, perché i sospiri, le lagrime, la pallidezza, gli sguardi, le parole, e quanto si pensa e si fa, tutto va vestito con abito d'amore. Cosí dunque di Antioco, nell'amor verso Stratonica sua matrigna, ancorch'egli tacesse, si palesò l'incendio nelle vene e ne' polsi. Non avea consentito di chiamarsi amante Didone, mentre Amor in figura di Ascanio trattava con lei; ma niuna cosa mancava, perché già si vedesse accesa, come Virgilio va significando:
Praecipue infelix pesti devota futurae
expleri mentem nequit, ardescitque tuendo
Phenissa et puero pariter donisque movetur.
Ed ancorché andasse velando gli stimoli della piaga interna, nel progresso del suo affetto,
At regina gravi iamdudum saucia cura
vulnus alit venis at caeco carpitur igni,
pur, quello che la lingua non avea publicato, fu espresso nelle strida della piaga ch'ella stessa disperata si fe', conchiudendo Virgilio:
Illa, graves oculos conata attollere, rursus
deficit: infixum stridet sub pectore vulnus.
Di Erminia si ha, da Torquato Tasso, che avea dissimulato il suo pensiero, e ch'ella poi disse a Vafrino:
Male amor si nasconde. A te sovente
desiosa i' chiedea del mio signore.
Vedendo i segni tu d'inferma mente:
- Erminia - mi dicesti - ardi d'amore. -
Io te 'l negai, ma un mio sospiro ardente
fu piú verace testimon del core;
e 'n vece forse della lingua, il guardo
manifestava il foco onde tutt'ardo.
Il medesimo dolor che tormenta gli amanti, se non bast'a far che dicano i loro affetti, si muta in ambizione amorosa di dimostrarli; e se gli animi onesti si contentano di non manifestarsi, con gran fatica si riducono a portar intiero il manto che ha da coprir tanti affanni.
XV. L'ira è nimica della dissimulazione
Il maggior naufragio della dissimulazione è nell'ira, che tra gli affetti è 'l piú manifesto, essendo un baleno che, acceso nel cuore, porta le fiamme nel viso, e con orribil luce fulmina dagli occhi; e di piú fa precipitar le parole, quasi con aborto de' concetti che, di forma non intieri e di materia troppo grossa, manifestano quanto è nell'animo. Molta prudenza si richiede, per rinchiuder cosí gagliarda alterazione; e di chi è trascorso a tanto impeto, disse Platone: "tanquam canis a pastore, ita denique revocatus ab ea quae in ipso est ratione mitescat." Era Achille in questa passione contra Agamennone, quando "truculento intuens aspectu: - O vir - inquit - ex dolo totus atque imprudentia factus ac genitus, et quis tibi Graecorum posthac libens pareat? -". Ma l'ufficio della ragione, significata per Minerva scesa dal cielo, va temperando: " - Non venit - inquit - a caelo, Achilles, ut te iratum in ultionem iniuriae acceptae erumpere videam, sed ut ira<cundia>m tuam compescam -". Sí che Omero, in questa occasione di Achille, spiega insieme quanto importi la dissimulazione. Da due potenti stimoli procede tanta licenza di parole nell'ira, cioè dal dispiacere e dal piacere, perché ella è appetito, con dolore, di far vendetta che si dimostri vendetta, per dispregio che crediamo fatto di noi, o d'alcuno de' nostri, indegnamente, come disse Aristotile; ed a questo dolor segue il diletto, che nasce dalla speranza di vendicarsi, e perché l'animo è in atto di vendetta: e però Aristotele soggiunse: "recte illud de ira dictum est quod, defluente melle dulcior, in virorum pectoribus gliscit". Dunque, da cosí fatto misto di amaro e di dolce, dee guardarsi chi non si vuol mostrar facilmente turbato, come sogliono parer gl'infermi, i poveri e gli amanti, e tutti quelli che si fan vincer dal disiderio. Importa il prevenir con la considerazione di quanto è maggior diletto vincer se stesso, in aspettar che passi la procella degli affetti, e per non deliberare nella confusione della propria tempesta; ma nel sere-
no dell'animo che, ritirato
ogni pensiero nell'altissima parte della mente,
potrà sprezzar molte
cose, o non curar
di vederle.
XVI. Chi ha soverchio concetto di se stesso ha gran difficultà di dissimulare
L'error che si può far nel compasso, il qual si gira nell'opinion di noi stessi, suol esser cagion che trabocchi ciò che si dee ritener ne' termini del petto; perché, chi si stima piú di quello che in effetto è, si riduce a parlar come maestro, e parendogli che ogni altri sia da men di lui, fa pompa del sapere, e dice molte cose che sarebbe sua buona sorte aver taciuto. Pitagora, sapendo parlare, insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fatica, ancorché paia d'esser ozio. I concetti che risuonano nelle parole, non solo portano l'imagine di quelli che stanno nell'animo, ma son fratelli mentali (già che non posso dir carnali) del concetto che l'uomo ha del suo sapere. Questo è il concetto primogenito (per dir cosí), al qual succedono gli altri; e se non è con misura, ne procedono molti e vari ragionamenti, e di necessità però si scopre quanto è nel pensiero; ma chi di sé fa quella stima che di ragion conviene, non commette alla lingua maggior giuridizzione di quanto è il lume dell'intelligenzia che la dee muovere.
XVII. Nella considerazione della divina giustizia si facilita il tollerar, e però il dissimular le cose che in altri ci dispiacciono
Convien di trattar di alcune cose piú in particolare, che ricercano d'esser tollerate, ch'è lo stesso a dir dissimulate, poiché sono molt'i dispiaceri dell'uomo ch'è spettator in questo gran teatro del mondo, nel qual si rappresentano ogni dí comedie e tragedie; ed or non dico di quelle che son invenzioni de' poeti antichi o moderni, ma delle vere mutazioni del mondo stesso, che da tempo in tempo, in quanto agli accidenti umani, prende altra faccia ed altro costume. L'ordine è forma che fa il tutto simigliante a Dio, che lo creò e lo serba col dono della sua providenza, la qual per lo gran mar dell'essere ogni cosa conduce con prospero viaggio; e disponendo la medesima regola sopra il merito o demerito delle opere umane, si vieta nondimeno alla debolezza de' nostri pensieri il passar negli abissi de' consigli divini, alli quali si dee infinita riverenza, avendosi da ricever per giusto quanto consòna alla volontà di Dio. E se pur sempre non vediamo nelle cose mortali quell'ordine infallibile che si manifesta nel moto del sole, della luna e dell'altre stelle, anz'in molta confusione spesse volte si truovano i negozii di qua giú, non manca però la certezza dell'eterna legge, che tutto sa applicar ad ottimo fine; e 'l premio e la pena, che non sempre vien pronta, si aspetti come decreto inseparabile dal giudizio divino, che per tutto va penetrando con la sua non mai limitata potenzia. A questa verità, ch'è via di quiete, per dissimular le sinistre apparenze, soggiungerò piú distinto il modo di accommodarsi a quelle.
XVIII. Del dissimular l'altrui fortunata ignoranzia
Gran tormento è di chi ha valore, il veder il favor della fortuna, in alcuni del tutto ignoranti; che senz'altra occupazione, che di attender a star disoccupati, e senza saper che cosa è la terra che han sotto i piedi, son talora padroni di non picciola parte di quella. Veramente chi si mette a considerar questa miseria, è in pericolo di perder la quiete, se insieme non s'accorge che la medesima fortuna, che talora fa qualche piacere alla turba degli sciocchi, suol abbandonar l'impresa, e quando piú luce, si rompe, lasciando scherniti que' che non son degni della sua grazia; e di piú la gente di questa qualità, non ha che pretender per l'acquisto di quella gloria, che solamente appartiene a chi sa da dovero; e se qualche uomo di eccellente virtú, alcuna volta sta quasi sepellito vivo, in ogni modo si ha da udir il grido del suo merito; e non solo la voce ne dee risonar tra quelli che vivono nel medesimo tempo, ma se ne va passando da un secolo all'altro; perché il vero valor è
che fa per fama gli uomini immortali,
come disse il Petrarca; e prima di lui Dante:
vedi se far si dee l'uomo eccellente
sí ch'altra vita la prima relinqua.
Di questa maniera si libera il nome dalle mani della morte,
ed un'anima piena di cosí alta
speranza, non sente noia che
a qualche indegno e da
poco, per poco tempo, si
faccia applauso, essendo un salto di
fortuna che se
ne passa senza
lasciar vestigio,
come il fumo
nell'aria.
XIX. Del dissimular all'incontro dell'ingiusta potenzia
Orrendi mostri son que' potenti, che divorano la sostanza di chi lor soggiace; onde ciascuno, che sia in pericolo di tanta disaventura, non ha miglior mezzo di rimediar, che l'astenersi dalla pompa nella prosperità, e dalle lagrime e da' sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que' dell'animo; onde la virtú, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicurando le sue ricchezze, poiché il tesoro della mente non ha men bisogno talora di star sepolto, che il tesoro delle cose mortali. Il capo che porta non meritate corone, ha sospetto d'ogni capo dove abita la sapienzia; e però spesso è virtú sopra virtú, il dissimular la virtú, non col velo del vizio, ma in non dimostrarne tutt'i raggi, per non offender la vista inferma dell'invidia e dell'altrui timore. Anche lo splendor della fortuna ha da esser cauto nel palesarsi, già che, passando a dimostrazioni di soverchi arnesi e di oziosi ornamenti, oltre al distrugger il capital nelle spese, suol accender gran fuoco nella propria casa, destando gli occhi degl'ingordi a pretenderne parte, e forse il tutto. Ma piú dura è la fatica di dover pigliare abito allegro nella presenza de' tiranni, che soglion metter in nota gli altrui sospiri, come di Domiziano disse Tacito: "Praecipua sub Domitiano miseriarum pars erat videre et aspici, cum suspiria nostra subscriberentur, cum denotandis tot hominum palloribus sufficeret saevus ille vultus et rubor, a quo se contra pudore muniebat". Sí che non è permesso di sospirare, quando il tiranno non lascia respirare, e non è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va facendo vermiglia la terra con sangue innocente, e si niegano le lagrime che dalla benignità della natu-
ra son date a' miseri come
propria dote, per formar
l'onda che in cosí picciole stille suol portar via ogni
grave noia e lasciar il cuor, se
non sano, almen non
tanto
oppresso.
XX. Del dissimular l'ingiurie
L'ingiuria, che si può dissimulare, e nondimeno si manifesta nel disiderio della vendetta, è fatta piú da colui che la riceve che dal suo nimico. Non tutti sanno ben conoscer il decoro dell'onesta tolleranzia, in che si accordano tutt'i filosofi, che per altre opinioni, in varie sette, non son di conforme parere, dicendo Tertulliano: "tantum illi subsignant, ut cum inter se<se> variis sectarum libidinibus et sententiarum aemulationibus discordent, solius tamen patientiae in com<m>une memores, huic uni studiorum suorum commiserint pacem: in eam conspirant, in eam foederantur, illi in adfect<at>ione virtutis unanimiter student, omnem sapientiae ostentationem de patientia praeferunt". Alcuni, non distinguendo la forteza dal temerario ardire, son pronti ad ogni qualità di vendetta, e per un cenno che non sia fatto a lor modo, vogliono penetrar negli altrui pensieri e dolersene come di offese publiche. I sensi cosí fieri son vicini ad estremi mali, e l'esperienza dimostra che le picciole ingiurie, se non si lascian passar sotto qualche destrezza, sogliono diventar grandi; ed a tutti color che son potenti, molto piú convien di ritirar la vista da simili occasioni: perché ogni un che possa poco, è buon maestro a' suoi pensieri, per accommodarsi a tollerare; ma chi ha forza di risentirsi, sente stimolo di correr a precipizio, e molti di questi che stanno in alta fortuna, scordati non solamente di usar perdono, ma della proporzion della pena, prendono mezzi violenti per l'altrui ruina; da che avviene ch'essi pur rimangono in tanta turbazione de' fatti loro che, oltre all'odio publico, son anche in odio a se medesimi, per la perdita della quiete interna, ch'è bene inestimabile ed appartiene all'innocenzia.
XXI. Del cuor che sta nascosto
Gran diligenza ha posta la natura per nasconder il cuore, in poter del quale è collocata, non solo la vita, ma la tranquillità del vivere: perché nello star chiuso, per l'ordine naturale si mantiene; e quando gli occorre di star nascosto, conforme alla condizion morale, serba la salute delle operazioni esterne. E pur in questo modo, non a tutti si dee nasconder; onde, nell'elezzione, si consideri quello che fu detto da Euripide:
<...> Sapienti diffidentia
non alia res utilior est mortalibus.
L'esperienza, che si suol doler degl'inganni, potrà far luce in questa materia, ch'è una selva oscura per l'incertezza del ben eleggere; e però ogni ingegno accorto vagliasi degli abissi del cuore, ch'essendo breve giro, è capace d'ogni cosa; anz'il mondo intiero non lo riempie, poiché solo il Creator del mondo può saziarlo. Si ammira, come grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne' termini de' palagi, ed ivi nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a guardia delle loro persone e de' loro interessi; e nondimeno è chiaro che, senza tanta spesa, può ogni uomo, ancorch'esposto alla vista di tutti, nasconder i suoi affari nella vasta ed insieme segreta casa del suo cuore, perché ivi soglion esser quei templi sereni, de' quali cantò Lucrezio:
sed nihil dulcius est, bene quam <munita> tenere
edita doctrina sapientium templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantes quaerere vitae.
Applicando io però questi versi al senso che conviene a significar un'altezza d'animo, ed una quiete, che conduce al piacer ed alla gloria immortale, e non al diletto fallace.
XXII. La dissimulazione è rimedio che previene a rimuover ogni male
Era tanto stimata da Giob la dissimulazione onesta che, non avendo lasciato di valersene nel suo regno, poi che si vide privo di prosperità, parendogli di aver fatto assai dalla parte sua perché non gli fosse caduta dalle mani, disse:
Nonne dissimulavi? nonne silui? nonne quievi?
et venit super me indignatio.
Egli con tranquillità governò il suo stato, e sempre che potette dissimular, lo fe' volentieri; e però s'era persuaso che non avesse da seguir mutazione nelle cose sue, ben assicurate dalla prudenzia, che in sé raccoglieva dissimulazione, silenzio e quiete. Ma se con tutto ciò cadde in miseria, fu voler di Dio, che si compiacque di far vedere nella persona di quel santo una invitta costanza e 'l trionfo della pazienzia, che nel carro della vera gloria si menò appresso come catenati tutt'i mali, fin ch'egli ebbe la prístina felicità con duplicate sodisfazzioni; e quella sua giustizia, che nel termine della semplice natura si dimostrò al mondo, sarà esempio in tutt'i secoli per affermare che i servi di Dio, in ogni condizione, son sempre beati. Dunque Giob era tale, anche nel tempo de' suoi tormenti; ma per non uscir dalla materia di che vo trattando, dico ch'egli, facendo il conto con la sua conscienzia, dicea: "Nonne dissimulavi? nonne silui? nonne quievi?", volendo significar che a questa diligenza non suol mancar piacer alcuno; e quando succede qualche accidente che perturbi tanto sereno, vuol il cielo che, dopo l'avversità, si accresca splendor agli animi che son alieni dagli affetti della terra.
XXIII. In un giorno solo non bisognerà la dissimulazione
� tanta la necessità di usar questo velo, che solamente nell'ultimo giorno ha da mancare. Allora saran finiti gl'interessi umani, i cuori piú manifesti che le fronti, gli animi esposti alla publica notizia, ed i pensieri esaminati di numero e di peso. Non averà che far la dissimulazione tra gli uomini, in qualunque modo si sia, quando Iddio, che oggi "est dissimulans peccata hominum", non dissimulerà piú; ma poste le mani al premio ed alla pena, metterà termine all'industria de' mortali, e que' sagaci intelletti, che hanno abusato il proprio lume, si accorgeranno come allora non gioverà l'arte del cucir la pelle della volpe dove non arriva quella del leone, che fu consiglio di un re spartano: perché l'onnipotente Leone, facendo ruggir il mondo dagli abissi fin alle stelle, chiamerà tutti; e ciascuno dee saper e dire "circumdabor pelle mea", come disse Giob. Quell'aurora porterà un giorno tutt'occupato dalla giustizia, e nel mostrar i conti, non vi sarà arte da far vedere il bianco per lo nero. S'udirà il decreto, che sarà l'ultimo delle leggi, e darà legge eterna alle stelle ed alle tenebre, al piacer ed alla pena, alla pace ed alla guerra. Sarà forz'alla dissimulazione di fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le finestre del cielo e, con la spada accesa, troncherà il filo d'ogni vano pensiero.
XXIV. Come nel cielo ogni cosa è chiara
Se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la dissimulazione, nell'altra non occorre mai; e lasciando di trattar delle anime infelici che, con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli orribili mostri de' peccati, dirò dello stato delle anime eternamente felici. Ivi hanno lo specchio, ch'è Iddio, il qual vede tutto, e ben nella lingua greca il suo nome, come osservò Gregorio Nisseno, dimostra efficacia di vedere, perché theósviene a theáome, ch'è mirare e contemplare. Veggono i beati colui che vede, sí che nel cielo non occorre che alcuno si celi. Ivi tutto è manifesto, perché tutto è buono, tutto è chiaro, tutto è caro. Quanti piú sono a possedere il sommo bene, tanto piú son ricchi. Dov'è tanto amor, non può succedere occasion di custodire interesse alcuno. Ma qui, dove siamo vestiti di corruzzione, si procura con ogni sforzo il manto, con che si dissimula per rimedio di molti mali; ed ancorché ciò sia onesto, pur è travaglio; onde si dee aspirar al termine di questa necessità, e spesso, rimovendo lo sguardo dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come segni del vero lume che, anche per mezzo d'esse, c'invita alla propria stanza della verità. Ivi, nella divina essenza, i beati godono della chiara vista, ch'è l'ultima beatitudine dell'uomo, essendo la piú alta operazione dell'intelletto, per mezzo del lume della gloria che lo conforta; perch'essendo la divina essenza sopra la condizione dell'intelletto creato, può questi vederla, non per forze naturali, ma per grazia; e come uno ha maggior lume di gloria dell'altro, cosí può meglio conoscerla, ancorché sia impossibile vederla quanto è visibile, perché il medesimo lume della gloria, in quanto è dato a tal intelletto, non è infinito. Or, considerando cosí sodisfatti,
cosí felici, ed in eterno sicuri,
gli abitatori del Paradiso, si vede come non
han da nasconder difetto alcuno; e per
conseguenza la
dissimulazione rimane
in terra,
dove ha tutti
i suoi negozii.
XXV. Conclusione del trattato
Avendo affermato che in questa vita non sempre si ha da esser di cuor trasparente, mi par bene di conchiuder con affettuoso rivolgimento alla dissimulazione stessa.
Oh virtú, che sei il decoro di tutte l'altre virtú, le quali allora son piú belle quando in qualche modo son dissimulate, prendendo l'onestà del tuo velo, per non far vana pompa di se medesime. Oh rifugio de' difetti, che nel tuo seno si sogliono nascondere. Tu alle fortune grandi sei di gran servigio, per sostenerle, ed alle picciole porgi la mano, perché in tutto non si veggano andar per terra. Nel buono e nel mal tempo bisognano le tue vesti, e nella notte non meno che nel giorno, e non piú fuori che in casa. Io non ti conobbi per tempo, ed a poco a poco ho appreso che in effetto non sei altro che arte di pazienzia, che insegna cosí di non ingannare come di non essere ingannato. Il non creder a tutte le promesse, il non nudrire tutte le speranze, son le cose che ti producono. Le porpore, nel meglio del lor vermiglio, sogliono ricorrere al nero del tuo manto; le corone d'oro non han luce che talora non abbia bisogno delle tue tenebre. Gli scettri, che spesse volte non si portano dalla tua mano, facilmente vacillano; e 'l folgore delle spade, se non si serve di alcuna tua nube, riluce invano. La prudenza, tra ogni suo sforzo, non ha miglior cosa di te; e benché di molte altre si mostri ornata, a tempo sa goder del tuo silenzio, piú che di ogni altro effetto delle sue industrie. Misero il mondo, se tu non soccorressi i miseri. A te appartiene di usar molti ufici nell'ordinar le republiche, nell'amministrar la guerra, e nel conservar la pace; e dall'altra parte si veggono quanti disordini, quante perdite e quante ruvine son succedute, quando sei stata posta in abbandono e s'è dato luogo a manifesti furori, da che son seguíti quegl'infortunii che tante volte han diturpate le provincie intiere. Quando un, che doverebbe perire di fame, ha fortuna di poter dar il cibo a molti, quando un ignorante è riputato dotto da chi sa meno di lui, quando un indegno ha qualche degnità, e quando un vile si tiene per nobile, come si potrebbe vivere se tu non accommodass'i sensi a cosí duri oggetti? Vorrei che mi fosse permesso di manifestare tutto l'obligo che ho a' benefici che mi hai fatti; ma invece
di renderti grazie, offenderei le tue leggi non
dissimulando quanto per ragione ho
dissimulato.
grazie a liberliber
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