Il costrutto emerso dalla vicenda genetica, dalla caratterizzazione organizzativa, dal profilo dei quadri intermedi consente di spiegare formazione, linea politica e capacità di persistenza del PdCI nei termini seguenti. La nascita del PdCI (per scissione parlamentare e partitica dal PRC) si fonda sugli incentivi che condizioni ambientali favorevoli (la rottura fra Ulivo e Rifondazione) offrono a una componente partitica coesa e strutturata (la corrente cossuttiana) per semplificare a proprio vantaggio il contesto partitico di provenienza con sufficienti garanzie di accrescere, o per lo meno mantenere inalterata, la propria precedente strutturazione organizzativa e influenza esterna. Tale semplificazione si fonda sull’interazione fra due risorse strategiche la cui disponibilità ha consentito al gruppo dirigente del PdCI di ritagliarsi e occupare una posizione di nicchia. La prima di tali risorse consiste nel collegarsi alla tradizione partitica del PCI e di proclamarsene l’erede più autentico, trasferendo su di sé ciò che resta di quella identità. La seconda risorsa è l’appartenenza alla coalizione di centro-sinistra, geneticamente assunta dal PdCI come proprio orizzonte strategico d’azione. Il punto da fermare è che la posizione di nicchia presenta due facce, entrambe importanti per il funzionamento e la persistenza dell’organizzazione. La faccia identitaria, importante anzitutto come richiamo elettorale 50, è rilevante come fonte di incentivi collettivi a carattere simbolico e dunque come collante di relazioni verticali analoghe a quelle prevalenti nel PCI fino ai primi anni Ottanta (Lange 1977; Baccetti 1999): coalizione dominante coesa, prevalenza di processi politico-decisionali top-down, deferenza nei confronti del gruppo dirigente, controllo del centro su larga parte delle zone di incertezza organizzativa. La faccia sistemica è invece rilevante come fonte di incentivi selettivi, in particolare sotto forma di spoglie istituzionali in sedi rappresentative e di governo. Tali spoglie sono garantite dall’appartenenza coalizionale del partito, si traducono in un numero non trascurabile di carriere politiche “protette”, sono rilevanti nello strutturare le relazioni organizzative orizzontali, all’interno dell’élite partitica. Il «trasferimento di identità» dal PCI togliattiano al PdCI 51 avviene senza suscitare particolari conflitti. I partiti contigui di tradizione comunista avevano infatti lasciato senza presidio quel territorio di caccia. Il PDS-DS se ne era già allontanato e il suo gruppo dirigente lavorava da tempo per far dimenticare tale ascendenza. Il PRC aveva già iniziato a distanziarsene per perseguire l’ambizioso disegno della creazione di un partito aperto ai movimenti e competitivo sul mercato elettorale. In contrasto con Cossutta, Bertinotti (1998) aveva espresso il convincimento che il modello del PCI fosse «non più riproducibile», come lo stile mediatico-carismatico della sua leadership e la prospettiva di un PRC catalizzatore dell’antagonismo sociale stavano a dimostrare. La prima fase di questo processo di acquisizione di identità precede e prepara la scissione. Sono i mesi in cui gli esponenti della frazione cossuttiana presero le distanze dalla condizione, sempre più incomoda, di minoranza interna dentro un partito nel quale fanno ormai fatica a riconoscersi, e cominciarono a avanzare una linea politica autonoma nella quale potersi riconoscere pienamente 52. Nei loro interventi pubblici i cossuttiani iniziano a riferirsi a Rifondazione omettendo l’aggettivo comunista, e negando così al PRC la legittimità di definirsi tale, per giungere poi a etichettarla semplicemente come il partito di Bertinotti (Cossu 2004, 200 e 230). Una seconda fase del processo si sviluppa nei giorni della scissione, tra la prima manifestazione pubblica dei cossuttiani (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 7 ottobre 1998) e quella in cui Cossutta annunciò la nascita del nuovo partito (Roma, cinema Metropolitan, 11 ottobre). In quelle manifestazioni vennero rispolverate rappresentazioni del PCI progressivamente abbandonate da Rifondazione e riesumati riti, valori e miti legati a quella tradizione. Ne sono esempio gli stendardi delle vecchie sezioni del PCI, le copie dell’Unità in bella mostra («risemantizzate e in definitiva usate come rimando al passato»: Cossu 2004, 224); i cimeli dell’Urss; i richiami anche scenografici a Togliatti e a Berlinguer; il tam tam di parole come compagni, comunismo, rivoluzione. La manifestazione al Palazzo delle Esposizioni vide la discesa in campo in carne e ossa dei referenti sociali classici, con gli interventi di un lavoratore del Nuovo Pignone, di un minatore del Carbosulcis e di un ex comandante partigiano (ed ex senatore del PCI) a fare da battistrada al discorso di Cossutta. La volontà di far rivivere il partito comunista italiano fu perseguita in modo sistematico anche dopo il momento fondativo. Strutturazione organizzativa del partito e sistematizzazione del repertorio simbolico procedono anzi in parallelo, allo scopo di rendere quanto più possibile nitida e coerente la ricostruzione di una memoria collettiva che sancisca una sorta di continuità normativa fra il PCI e il nuovo Partito dei Comunisti Italiani (Cossu 2004). La ricerca di un legame simbolico-identitario con il vecchio PCI 53 si rintraccia non solo nella scelta del simbolo, ma anche in una tessera di adesione pressoché identica alla tessera PCI del 1982, nel rilancio della togliattiana “La Rinascita” (di cui il PdCI “rileva” anche l’ex direttore Adalberto Minucci), nell’attenzione riservata all’ANPI, nella ricostituzione della FGCI, nella creazione di una scuola di partito i cui programmi di formazione politica ricordano quelli delle Frattocchie. Per altro verso, la nostalgia del (e il richiamo al) partito togliattiano trovarono espressione nei richiami all’antifascismo, all’attualità della resistenza, alla difesa della Costituzione del 1948, temi ricorrenti e distintivi del discorso politico neo-comunista, La prospettiva identitaria così delineata non ebbe difficoltà a essere declinata, nel quadro partitico e competitivo di fine anni Novanta, in termini di appartenenza e lealtà coalizionale. Il punto è rilevante, in quanto illumina la capacità dei fondatori del partito di trasformare l’opportunità congiunturale prodottasi nell’autunno 1998 in una risorsa relativamente stabile e di combinare in modo efficiente logica dell’identità e logica della competizione. La leale adesione alla coalizione assicura infatti al PdCI alcune vantaggiose contropartite: stabilizzazione delle relazioni interpartitiche, risorse materiali (si torni al sorprendente rapporto assessori/eletti osservato sopra), possibilità di dar seguito all’offerta di rappresentanza rivolta al mondo sindacale e del lavoro. Il vantaggio maggiore è però senza dubbio la possibilità di coltivare, al riparo della leale adesione alla coalizione, la propria autonomia politica, culturale e organizzativa e, dunque, la propria identità di partito comunista. La relazione nei confronti della coalizione rimane peraltro strumentale 54. Se in termini organizzativi rappresenta il riconosciuto propellente in grado di assicurare il mantenimento e in certi casi la buona salute della struttura partitica, in termini politici la coalizione è vista come «alleanza, ma, al tempo stesso, luogo di conflitto» 55. Questa concezione della coalizione come arena trova conferma dalle opinioni dei quadri intermedi. I delegati congressuali si dichiarano infatti al 91,2% in totale disaccordo con la prospettiva dell’ingresso del proprio partito in un «partito unico dell’Ulivo» (mentre meno del 30% dei delegati congressuali DS si dice abbastanza o molto d’accordo con l’affermazione «i DS devono abbandonare l’idea del partito unico dell’Ulivo»). L’ipotesi del PdCI come partito a termine, d’altro canto, è respinta a larghissima maggioranza anche quando la domanda ipotizza una futura confluenza nei DS (confluenza che riscuote il 96,5% di “per niente d’accordo”) o la ricomposizione della frattura del 1998 (nei confronti della quale il 76,1% degli intervistati dichiara di esser per niente o poco d’accordo, percentuale che scende invece al 70,1% fra i delegati congressuali di Rifondazione). |