Paola Bordandini e Aldo Di Virgilio

PdCI: ritratto di un partito che non avrebbe dovuto esserci

4. Chi sono i comunisti italiani


L’analisi della cultura politica, dell’identità e del capitale simbolico dei Comunisti italiani costituisce un banco di prova importante per avvalorare l’ipotesi del PdCI come PCI in sedicesimo e dell’esistenza di sostanziali continuità fra i due partiti. Si tratta d’altro canto di un terreno d‘analisi obbligato per un partito che, come il PdCI, trae origine da “strappi” e rotture nei quali gli aspetti di carattere identitario e simbolico-ideologico hanno giocato un ruolo di primo piano. Da questo punto di vista il corpo del partito presenta un’interessante stratificazione in cui cospicue tracce del vecchio PCI si intrecciano con l’influsso di Rifondazione e di alcune tematiche no-global.
Il legame alla tradizione comunista classica (e quindi il rifiuto della svolta della Bolognina) emerge anzitutto dalla definizione dell’identità partitica fornita dai delegati attraverso le loro reazioni a una serie di aggettivi che potrebbero definire l’ancoraggio ideologico di un partito 30.
Il PdCI è un partito (molto o abbastanza) antifascista, comunista, laico e progressista per quasi tutti i delegati intervistati, mentre solo la metà di essi è disposto a definirlo (molto o abbastanza) riformista o socialista e appena il 16,3% lo considera anche (molto o abbastanza) socialdemocratico. Il 93,2% degli intervistati ritiene del resto che i valori storici del comunismo influenzino tuttora (molto o abbastanza) la loro visione della politica, mentre secondo il 99,3% di essi il concetto di “lotta di classe” mantiene ancora oggi una sua utilità. In particolare il 30,5% dei delegati intervistati scommette sul fatto che il concetto di classe sia “ancora valido nei termini formulati da Marx”, il 68,8% pensa che debba “essere recuperato e adattato alla nuova realtà sociale” e appena lo 0,7% dichiara che “del concetto di classe non abbia più senso parlare”.
Il peso della tradizione marxista nell’identità dei delegati è stato approfondito anche attraverso la costruzione di un indice tipologico 31. Questo indice ha consentito di individuare tre tipi di delegati (Tab. 4) e di differenziare le loro posizioni in relazione ad alcune caratteristiche socio-demografiche.

TAB. 4 - I tre tipi dell’indice “Peso della tradizione marxista”
tipo
descrizione
comunisti poco tradizionalisti
Si tratta di 100 delegati (il 35,9% del campione); sono coloro che non sono “molto” influenzati dai valori storici del comunismo e che ritengono che il concetto di classe non sia più utile o che debba essere adattato alla nuova realtà sociale
comunisti tradizionalisti
Si tratta di 117 delegati (il 42,1% del campione); sono coloro che si sentono “molto” influenzati dai valori storici del comunismo, ma che ritengono che il concetto di classe non abbia più senso o si debba adattarlo alla nuova realtà sociale; oppure sono coloro che ritengono il concetto di classe sia ancora valido nei termini formulati da Marx ma non si sentono “molto” influenzati dai valori storici del comunismo
comunisti fortemente tradizionalisti
Si tratta di 61 delegati (il 22% del campione); sono coloro che si sentono “molto” influenzati daivalori storici del comunismo e che ritengono che il concetto di classe sia ancora valido nei termini formulati da Marx.

Tra i delegati che manifestano un maggiore attaccamento ai valori tradizionali del comunismo si distinguono soprattutto gli intervistati più anziani, in particolare gli ultra 55enni (il 31,7%, contro il 17,4% di chi ha non più di 35 anni e il 10,3% di chi appartiene alla classe di età dei 36-45enni). Tra i giovani notiamo invece una maggiore freddezza nei confronti dei valori marxisti, soprattutto da parte di chi ha un’età compresa tra i 36 e i 45 anni (il 48,3% di questi delegati si colloca nella categoria “comunisti poco tradizionalisti” contro il 30% degli ultra 45enni). Si registra invece una posizione intermedia soprattutto tra i delegati con un’età compresa tra i 46 e i 55 anni.
L’analisi della dimensione geografica mostra una maggiore concentrazione di “comunisti fortemente tradizionalisti” nelle zone di debolezza elettorale del vecchio PCI (si colloca tra i “comunisti tradizionalisti” più del 30% degli intervistati del Triveneto rispetto al 15% degli intervistati residenti in Toscana, Umbria, Marche ed Emilia Romagna). Essere comunisti nella ex zona bianca comportava un maggiore impegno personale spesso associato a un maggiore attaccamento al partito, ai suoi riti e ai valori tradizionali (Riccamboni 1992). Rispetto al titolo di studio si nota che un livello di scolarizzazione più elevato tende a associarsi con l’appartenenza alla categoria “comunisti poco tradizionalisti” (ne fanno parte il 41,8% dei laureati rispetto al 34% dei diplomati e al 29,7% di chi ha un titolo di studio non superiore alla licenza media).
Anche le modalità di socializzazione politica dei delegati del PdCI ricordano molto quelle che caratterizzavano i quadri del vecchio Partito Comunista (Ignazi 1992). I canali di socializzazione privilegiati risultano la famiglia (67,7%), le organizzazioni di partito (65,4%), la scuola (61,8%) e il sindacato (per il 53,5% degli intervistati).
Il 67,7% dei delegati dichiara infatti che le discussioni politiche in famiglia hanno avuto un contribuito determinante nella formazione del loro orientamento politico. Si tratta per lo più di famiglie caratterizzate da un orientamento politico di sinistra: il 61,5% dei padri (e il 58,2% delle madri) degli intervistati negli anni della loro socializzazione politica era percepito di “estrema sinistra” o di “sinistra”, mentre un altro 14,2% (16,5% per le madri) di “centro sinistra”. La percentuale di quadri con genitori di centro destra o di destra non supera invece il 10%.
I delegati che sentono più forte il ruolo della famiglia nella formazione del loro orientamento politico sono quelli residenti nelle regioni “rosse”. L’influenza delle organizzazioni di base o delle federazione giovanili di partito è invece sentita maggiormente tra i delegati del Sud e del Centro (il 72-74% contro il 65,4% della media generale). La scuola è considerata un’importante agenzia di socializzazione politica soprattutto tra i delegati provenienti dal Centro (il 78,7% contro il 62,1% della media generale), tra i 36-45enni (con il 72,4% contro il 47,2% degli ultra 55enni e il 63% degli altri intervistati) e tra i più istruiti (considerano “molto” o “abbastanza” importante la scuola il 66,7% dei laureati rispetto al 61,6% dei diplomanti e il 45,5% di ha la licenza media). Il sindacato invece ha influenzato soprattutto l’orientamento politico dei più anziani (con il 77% degli ultra 55enni contro il 29% dei più giovani) e dei residenti nel Nord-Est e nel Nord-ovest (rispettivamente il 61,5% e il 58,5% contro, ad esempio, al 42,9% del Centro e al 57,5% del Sud).
La filiazione dal PCI dei delegati risulta chiara anche analizzando le appartenenze partitiche precedenti. Se, come è ovvio, il 78,2% degli intervistati è stato membro in passato a qualche altro partito, quasi il 54,1% afferma di essere stato iscritto al Pci 32, l’11,4% al Pds e il 6,2% ai DS. L’esperienza di aver militato all’interno di Rifondazione comunista è stata invece dichiarata da appena il 46,6% dei delegati.
Se si indaga sui motivi che hanno portato gli intervistati ad aderire al PdCI emerge che il 36,3% dichiara di essere stato spinto dal desiderio di ricollegarsi all’esperienza del PCI 33, il 51,3% fa riferimento alla volontà di costruire una sinistra di governo, il 9,2% dichiara di aver aderito al partito per il suo programma e solo il 3,3% per la fiducia nutrita nei confronti dei suoi leaders. In relazione all’età degli intervistati si osserva una tendenza dei più giovani ad essersi iscritti al partito per sostenere una sinistra di governo (lo dichiarano il 58,3% di chi ha meno di 36 anni rispetto al 45% dei più anziani) ed una propensione dei più anziani ad averlo fatto per ricollegarsi alla tradizione comunista (il 45% degli ultra 55enni scelgono questa categoria di risposta rispetto al 29,9% dei più giovani).
Il PdCI è considerato dalla grande maggioranza dei suoi quadri un partito di sinistra non estrema, pragmatico e di governo. Lungo il continuum destra/sinistra, il 91,9% degli intervistati lo colloca infatti a “sinistra”, contro un 2,8% che lo posiziona all’”estrema sinistra” e un 4,6% al “centro-sinistra” (tab.5). La collocazione politica che i delegati del Pdci danno al loro partito è a metà strada tra quella scelta dai delegati di Rifondazione comunista e quella individuata dai delegati DS 34. Per il 18,9% dei quadri di Rifondazione comunista, il PRC è un partito di “estrema sinistra”, per il 72,1% di “sinistra” e per il 3% di “centro-sinistra”. Nessun delegato dei DS intervistato descrive invece il proprio partito di “estrema sinistra”; il 49,2% lo vede di “sinistra” e il 49,9% di “centro-sinistra".
In generale la posizione in cui gli intervistati collocano i loro partito è un po’ meno estrema di quella in cui collocano loro stessi. Nel PdCI il 7,1% dei delegati si considera infatti di “estrema sinistra” (per questa categoria di risposta lo scarto registrato tra autocollocazione e collocazione partitica è pari al 4,3%), l’89,4% di “sinistra” (in questo caso lo scarto è negativo: -2,5 punti percentuali) e l’1,4% di “centro sinistra” (scarto pari a -3,2%). Le differenze tra autocollocazione e collocazione partitica risultano invece molto più elevate tra i quadri di Rifondazione comunista (oltre il 20% dei delegati intervistati si considera più estremista del proprio partito), e ciò è probabilmente l’effetto del massimalismo che caratterizza alcune sue correnti. Anche tra i Ds si rileva una certa distanza tra l’autocollocazione degli intervistati e la collocazione del partito, ma riguarda la tendenza dei delegati a considerarsi di “sinistra” e a considerare il partito di “centro-sinistra” (lo scarto è di quasi 16 punti).

TAB. 5 - Autocollocazione e collocazione del proprio partito sul continuum destra-sinistra da parte dei delegati del PdCI, di Rifondazione e dei DS
Mi colloco
PdCI
PRC
DS
n.
%
n.
%
n.
%
Estrema sinistra
20
7,1
80
39,8
3
0,7
Sinistra
253
89,4
105
52,2
282
65,3
Centro sinistra
4
1,4
1
0,5
145
33,6
Colloco il mio partito
Estrema sinistra
8
2,8
38
18,9
-
-
Sinistra
260
91,9
145
72,1
212
49,2
Centro sinistra
13
4,6
6
3
215
49,9


Com’è plausibile per un “partito di lotta e di governo”, secondo i due terzi dei delegati il PdCI deve essere disposto a sacrificare nella sua azione politica parte dei suoi ideali per raggiungere gli obiettivi che si è proposto (mentre un 33,1% dichiara che in politica si deve in ogni caso rimanere fedeli ai propria valori e alla propria identità) 35. L’idealismo è inversamente proporzionale all’età degli intervistati: affermano infatti che “in politica si deve rimanere sempre fedeli ai propri valori o alla propria ideologia anche quando ciò impedisce di conseguire gli obiettivi prefissati” il 43,5% dei delegati più giovani, il 37,3% dei 36-45enni, il 29,7% di chi ha un’età compresa tra i 46 e i 55 anni e il 26,3% degli ultra 55enni.
Un mix di realismo politico e tensione ideologica si rileva anche analizzando quali sono per i delegati le due funzioni 36 più importanti che il PdCI dovrebbe assolvere. Il 93,4% indica come prima scelta il miglioramento delle condizioni di vita delle classe più povere (percentuale che cresce del 5,8% se si tiene conto della seconda scelta). Sommando prima e seconda scelta, la seconda funzione più importante è “fare il possibile per vincere le elezioni politiche” (3,5% + 27,8%). I delegati che, almeno in seconda battuta, si focalizzano sul successo elettorale sono ancora una volta i più anziani (il 31,1% degli ultra 45enni contro il 19,1% dei 35-45enni e il 28,1% dei più giovani), i residenti nelle regioni rosse (il 38% contro, ad esempio, il 19,6% dei residenti nel Nord-ovest e il 26,1% dei delegati del Sud) e chi ha un titolo di studio basso (il 41,7% di chi non ha oltre la licenza media, contro il 25% dei laureati).
L’attenzione nei confronti delle classi più deboli si rileva anche analizzando i temi politici che i Comunisti italiani ritengono più urgenti. Come mostra la tab. 6, l’attenzione dei delegati è rivolta soprattutto al mondo del lavoro, alla tutela dello stato sociale, al pluralismo dell’informazione e alle problematiche del Mezzogiorno. Le percentuali più basse riguardano invece la riforma federale, la riforma della pubblica amministrazione e l’immigrazione. L’ordine delle priorità individuato dai delegati del PdCI definisce un’agenda intermedia tra quella fissata dai delegati di Rifondazione e quella costruita dai delegati DS. Per i due partiti neo-comunisti inflazione e sanità sono questioni assai più urgenti di quanto non lo siano per i delegati DS.
L’inserimento dell’Italia nell’Unione europea e la criminalità sono invece le questioni - di natura più prettamente governativa - che avvicinano il PdCI ai DS e lo distinguono da Rifondazione.

TAB. 6 - Temi politici rilevanti: ordine di importanza individuato dai delegati del PdCI, PRC e dei DS ( %)
 
% problema molto importante
PdCI
PRC
DS
disoccupazione
94,1
92,8
78,7
sanità
90,4
82,4
65,7
scuola
90,4
85,6
76,5
pluralismo informazione
87,2
74,4
74,4
arretratezza Mezzogiorno
73,9
65,2
68,2
evasione fiscale
73,5
74,3
59,9
inflazione
71,8
36,3
29,5
giustizia
64,6
36,4
52,6
corruzione politica
55,2
26,3
31,8
inserimento nell'UE
43,2
24,5
52,4
criminalità
39,1
27,1
21,1
immigrazione
30,1
31,1
22,2
riforma P.A.
19,6
15,8
29,2
riforma federale dell'Italia
11,6
17,3
9,4
(N)
(290)
(208)
(434)

Un altro aspetto da esaminare perché caratteristico della cultura politica del vecchio PCI è l’anticlericalismo. Per la costruzione del relativo indice sono state prese in considerazione due variabili: l’opinione sulla legittimità della Chiesa a prendere posizione nel dibattito politico e la fiducia manifestata dagli intervistati nei confronti della Chiesa 37. Ne abbiamo ricavato tre tipi di delegati:



Tab. 7 -“fortemente anticlericali”, “anticlericali” , “non anticlericali”
   
PdCI
PRC
DS
Fortemente anticlericali
Hanno poca o più spesso nessuna fiducia nella Chiesa e credono che la Chiesa non dovrebbe mai entrare nelle questioni politiche 127 47,0 99 49,7 136 33,6
127
47,0
99
49,7
136
33,6
Anticlericali
Hanno poca o nessuna fiducia nella Chiesa e credono che la Chiesa dovrebbe entrare il meno possibile nelle questioni politiche
73
27,0
62
31,2
101
24,9
Non anticlericali
Sono abbastanza o molto fiduciosi nella Chiesa e/o pensano che la Chieda abbia il diritto di esprimere la propria opinione politica su determinate questioni
70
25,9
38
19,1
168
41,5

Il 74,1% dei delegati del PdCI può essere considerato anticlericale, con un 47% di “fortemente anticlericali”. Sono maggiormente anticlericali i delegati più giovani e quelli più anziani, i non laureati, i residenti al Nord o al Centro (soltanto il 23,7% di residenti nel Sud possono essere definiti tali). Anche su questa dimensione i delegati PdCI si collocano a metà strada tra quello di Rifondazione e quelli dei DS (se più del 40% dei delegati DS non possono considerarsi anticlericali, tra i delegati di Rifondazione questa percentuale risulta più che dimezzata).
Nonostante l’anticlericalismo e la predisposizione all’ateismo (il 58,9% degli intervistati si dichiara anche non credente tra i delegati del PdCI la percezione dei principali partiti cattolici presenti nelle due coalizioni non è del tutto negativa. I Comunisti italiani, ad esempio, considerano Margherita e UDC più vicini alla loro percezione della politica rispetto a quanto non lo siano i due partiti socialisti (lo SDI e il Nuovo PSI).
Anche rispetto alla percezione degli altri partiti in termini di vicinanza/lontananza fra l’atteggiamento dei delegati del PdCI e quello dei delegati di PRC e DS si riscontrano alcune piccole ma significative differenze. I delegati di Rifondazione, ad esempio, seguono un ordine che rispecchia la dimensione destra-sinistra (con la sola eccezione dello scavalcamento dei Verdi rispetto al PdCI, coerente con il mancato riassorbimento della scissione del 1998 38). Le preferenze espresse dai delegati DS sembrano invece rispondere alla vicinanza e alla lealtà dei vari partiti al progetto dell’Ulivo (Tab. 8).

TAB. 8 - Partiti che i delegati di PdCI, PRC e DS
sentono più vicini al loro partito

(1 massima vicinanza - 10 massima lontananza; valori medi)
PdCI
PRC
DS
Fiamma tricolore
9,95
9,90
9,97
Alleanza Nazionale
9,95
9,90
9,73
Lega Nord
9,98
9,90
9,83
Forza Italia
9,47
9,99
9,77
UDC
9,42
9,60
8,79
Nuovo PSI
9,48
9,50
8,54
Radicali
9,11
9,00
7,43
Udeur
8,35
9,10
7,05
Italia dei valori
6,43
7,6
5,98
Margherita
7,11
7,9
4,67
SDI
7,13
7,7
4,21
DS
5,78
6,6
-
PdCI
-
5,7
4,47
Verdi
4,53
5
4,35
PRC
5,38
-
5,21
 
Ulivo
2,33
5,6
1,36
Casa delle libertà
9,96
9,9
9,39

Le opinioni nei confronti della contrapposizione tra libertà e uguaglianza, del mercato e del grado di fiducia nutrito per le principali istituzioni politico-economiche internazionali consente di analizzare un altro aspetto della tradizionale cultura politica comunista: il rifiuto del modello politico-economico occidentale.
Ai delegati è stato chiesto innanzitutto di esprimere la loro preferenza rispetto alle due seguenti affermazioni contrapposte: «sia libertà che uguaglianza sono importanti, ma dovendo scegliere è più importante l’uguaglianza»; «sia libertà che uguaglianza sono importanti, ma dovendo scegliere è più importante la libertà» 39. Il 37% dichiara di considerare molto più importante l’uguaglianza rispetto alla libertà, contro un 13,2% che preferisce nettamente la libertà rispetto all’uguaglianza 40. Considerando anche le posizioni intermedie la maggiore propensione degli intervistati nei confronti dell’uguaglianza risulta ancora più evidente: il 71,6% dei delegati è più attratto dalla prima affermazione. Tra i più orientati all’eguaglianza si distinguono i delegati più giovani, quelli che risiedono nella zona rossa, quelli con un titolo di studio più elevato.
Lo scetticismo dei Comunisti italiani nei confronti del mercato è stato invece analizzato rilevando le posizioni degli intervistati lungo il continuum liberismo-interventismo statale 41. Le reazioni dei delegati sono state inequivocabili: il 93,9% degli intervistati si dichiara totalmente d’accordo con uno Stato interventista, garante di tutti i servizi sociali 42, contro l’1,1% di pienamente favorevoli a uno Stato liberista, che lascia che i servizi siano forniti dal mercato 43.
Non produce risultanze molto diverse l’analisi della fiducia verso le principali istituzioni politico-economiche internazionali: ONU, NATO, FMI, Banca Mondiale e G8 (tab. 9). Salvo l’ONU, che ispira fiducia al 52,4% dei delegati, tutte le altre istituzioni ottengono percentuali di fiducia molto basse (mai superiori al 10%). Rispetto a queste istituzioni la sfiducia è generalizzata, cioè non dipende in modo significativo né dall’età, né dal titolo di studio, né dalla zona di residenza dei delegati.
La posizione dei delegati del PdCI risulta ancora più interessante se confrontata a quella dei delegati PRC e DS. La critica dei Comunisti italiani alle principali organizzazioni politiche e economiche internazionali è condivisa da tutti gli eredi del PCI, ma con intensità e grado di discriminante diversi. Il PdCI si differenzia dalle posizioni piu´moderate dei DS, ma anche dall’uniformità di vedute e dal massimalismo - fortemente influenzato dalle tematiche noglobal - dei delegati di Rifondazione.

TAB. 9 - Fiducia nei confronti delle seguenti istituzioni internazionali da parte dei delegati del PdCI, del PRC e dei DS (valori %)
 
% molta o abbastanza fiducia
PdCI
PRC
DS
ONU
52,4
26,2
70,6
NATO
5,5
0,5
25,5
FMI
10,3
0
18,5
Banca Mondiale
5,5
0
16,5
G8
5,2
1,0
14,5


Differenze altrettanto significative fra i tre partiti eredi del vecchio PCI si ricavano sul terreno delle nuove forme di protesta e di partecipazione, spesso piuttosto lontane dalla tradizione comunista del Novecento e dalla centralità attribuita al conflitto di classe 44. Se quasi tutti i delegati intervistati - con percentuali comprese tra il 91% e il 100% a seconda del partito - hanno partecipato nel corso della loro esperienza politica a manifestazioni, scioperi e petizioni, eventi quali l’occupazione di edifici pubblici e le azioni di boicottaggio fanno registrare una certa variabilità nelle risposte (tab. 10). Gli intervistati del PdCI che dichiarano di aver partecipato ad occupazioni scendono infatti al 54,6%, mentre quelli che hanno intrapreso azioni di boicottaggio non raggiungono il 49%. Tali percentuali diminuiscono di altri 20 punti tra i delegati dei DS e salgono invece di 10 punti per le azioni di boicottaggio e di 20 per l’occupazione di edifici nel caso dei delegati del PRC.
Sulla base dei dati a disposizione, il PdCI, rispetto a Rifondazione, sembra dunque aver assorbito una componente più moderata della sinistra italiana, più vicina alle forme di protesta tradizionali e alla natura di partito d’ordine che spesso aveva caratterizzato il PCI. Tra i DS questa componente moderata sale ulteriormente e raggiunge percentuali simili a quelle degli altri partiti del centro-sinistra 45.

TAB. 10 - Risposte affermative alla seguente domanda: ha mai Intrapreso le seguenti forme di protesta?
(Valori % relativi ai delegati PdCI, PRC e DS)
 
% molta o abbastanza fiducia
PdCI
PRC
DS
Manifestazioni di piazza
99
100
98,8
Scioperi
98,6
97,5
94,6
Petizioni e attività di comitati
92,9
98
91,5
Occupazione di edifici pubblici
54,6
64,2
35
Boiccottaggio
48,2
75,1
25,8
La percentuale dei delegati PdCI che dichiarano di aver partecipato alle manifestazioni che negli ultimi anni hanno visto come protagonisti il pacifismo e i movimenti no-global non è tuttavia trascurabile (tab. 11). Rispetto ai loro colleghi di Rifondazione e dei DS, i Comunisti italiani si distinguono soprattutto per la loro adesione alle manifestazioni contro la guerra, in particolare alla marcia Perugia-Assisi (il 50% degli intervistati dichiara di aver preso recentemente parte a questo evento 46, contro il 35,8% dei delegati del Prc e il 44,3% dei DS). Meno marcata, soprattutto in relazione a quanto avviene fra i quadri di Rifondazione, è invece la partecipazione dei delegati del PdCI alle manifestazioni che hanno scandito la storia dei movimenti no-global: “solo” il 47,2% (contro il 75,8% degli intervistati del PRC) ha preso parte a manifestazioni contro il G8, il WTO o il FMI, mentre appena il 31,8% (rispetto al 55,2% dei delegati di Rifondazione) era presenta ai Forum sociali di Porto Alegre, Firenze o Parigi.

TAB. 11 - Risposte affermative alla seguente domanda: a quali dei seguenti eventi, manifestazioni o campagne ha preso parte recentemente? (Valori % relativi ai delegati PdCI, PRC e DS)
 
% molta o abbastanza fiducia
PdCI
PRC
DS
Manifestazioni contro la guerra
98,9
99,5
89,1
Marcia Perugia - Assisi
50
35,8
44,3
Manifestazioni contro G8, WTO, FMI o simili
47,2
75,8
17,9
Forum Sociale (Puerto Alegre, Firenze, Parigi, ecc.)
31,8
55,2
21

Sulle tematiche no-global, e sull’eventualità di far propria una prospettiva politica movimentista, il PdCI sembra diviso. Questa contrapposizione tra delegati congressuali “movimentisti” e delegati più tiepidi a riguardo (probabilmente anche perché indisponibili a rimpastarsi con Rifondazione) risulta chiara analizzando le risposte alla domanda sui rapporti fra PdCI e nuovi comitati e movimenti di cittadini (Tab. 12). Il 48,2% dei delegati ritiene che il PdCI dovrebbe “farsi portatore a livello istituzionale delle loro tematiche”, mentre un altro 50,7% si limita a sostenere che il partito dovrebbe recepirne alcune istanze per ampliare la propria agenda politica. I più propensi a identificare le tematiche del partito con quelle dei movimenti sono i delegati di età compresa tra i 36 e i 55 anni (circa il 53%, contro il 43% dei più anziani e dei più giovani). I meno attratti da questa prospettiva appaiono invece i laureati, i delegati della zona rossa e quelli provenienti da Rifondazione 47.

TAB. 12 - Rispetto al rapporto con i movimenti e i comitati di cittadini, Lei ritiene che il Suo partito dovrebbe?
(Valori % relativi ai delegati PdCI, PRC e DS)
 
% molta o abbastanza fiducia
PdCI
PRC
DS
Farsi portatore a livello istituzionale delle loro tematiche
48,2
56,8
21,9
Recepire alcune delle loro istanze per ampliare l’agenda politica del partito
50,7
41,2
76,4
Considerarli come espressioni di protesta temporanee
1,1
2
1,7

Un aspetto che molto ha influenzato la cultura politica della sinistra italiana degli anni Novanta e che ha trovato spazio anche nell’inchiesta sui delegati congressuali del PdCI è il progressivo aumento dell’attenzione nei confronti di tematiche legate ai diritti (e ai desideri) individuali. In questa prospettiva, la tab. 13 analizza il grado di accordo dei delegati del PdCI, del PRC e dei DS nei confronti di temi quali la liberalizzazione delle droghe leggere, l’aborto, il rapporto fra scienza e etica, la pena di morte e i diritti degli omosessuali 48. Il quadro che ne emerge è piuttosto chiaro. La sinistra politica italiana è ormai culturalmente libertaria; al suo interno, si ricava focalizzando l’attenzione sulle sole percentuali di molto d’accordo, i delegati congressuali di PdCI e DS si scoprono tra loro vicini e più moderati - soprattutto sui temi del rapporto fra scienza e etica e della liberalizzazione delle droghe leggere - rispetto ai delegati di Rifondazione Comunista, le cui posizioni si caratterizzano anche in questo caso per un forte radicalismo.
Concludendo, le risposte dei delegati congressuali PdCI esaminate in questa sezione ci consegnano un’organizzazione partitica comunista, orientata in senso anticapitalista, legata al mondo del lavoro e attenta ai bisogni delle classi più deboli, laica e libertaria, partecipe del movimento pacifista e non del tutto priva di interesse per le tematiche no-global. Le posizioni dei delegati congressuali del PdCI sono lontani dalle posizioni massimaliste espresse di Rifondazione, ma, al tempo stesso, dall’approccio socialdemocratico e in alcuni casi liberale dei DS. Del vecchio PCI mantiene l’anticlericalismo, il rifiuto di considerarsi socialdemocratico 49, l’anticapitalismo, ma anche la connotazione istituzionale legata alla natura di partito di lotta e di governo. Ad accomunarlo a Rifondazione rimangono invece la sfiducia nel mercato e nelle sue istituzioni nazionali e internazionale, la preminenza accordata all’eguaglianza rispetto alla libertà e la diffidenza nei confronti della NATO.

Tab. 13 - Grado di accordo dei delegati del PdCI, PRC e DS su una serie di temi socio-politici
(valori %)
 
PdCI
PRC
DS
 
% molto e
abbastanza
% molto
% molto e
abbastanza
% molto
% molto e
abbastanza
% molto
Le sostanze comunemente indicate come droghe leggere andrebbero legalizzate
83,4
49,1
90,7
65,2
78,9
34,3
L’uso personale di droghe non va punito
83,1
45,4
91,7
64,9
75,1
34,3
Bisogna rendere più difficile l’aborto
6,4
3,2
2
1,5
6,4
1,91
I progressi della scienza non possono mai travalicare i limiti
dell’etica
60,8
23,7
38,2
21,1
65,7
22,4
Per i delitti più gravi dovrebbe essere prevista la pena di morte
1,8
1,4
2,5
1
1,7
0,5
La legge deve assicurare gli stessi diritti alle coppie omosessuali
90,5
65,6
95,1
80
91,8
57,8

5. Due risorse strategiche: uno spazio per l’espressione della nostalgia; i dividendi della lealtà coalizionale

Il costrutto emerso dalla vicenda genetica, dalla caratterizzazione organizzativa, dal profilo dei quadri intermedi consente di spiegare formazione, linea politica e capacità di persistenza del PdCI nei termini seguenti. La nascita del PdCI (per scissione parlamentare e partitica dal PRC) si fonda sugli incentivi che condizioni ambientali favorevoli (la rottura fra Ulivo e Rifondazione) offrono a una componente partitica coesa e strutturata (la corrente cossuttiana) per semplificare a proprio vantaggio il contesto partitico di provenienza con sufficienti garanzie di accrescere, o per lo meno mantenere inalterata, la propria precedente strutturazione organizzativa e influenza esterna. Tale semplificazione si fonda sull’interazione fra due risorse strategiche la cui disponibilità ha consentito al gruppo dirigente del PdCI di ritagliarsi e occupare una posizione di nicchia. La prima di tali risorse consiste nel collegarsi alla tradizione partitica del PCI e di proclamarsene l’erede più autentico, trasferendo su di sé ciò che resta di quella identità. La seconda risorsa è l’appartenenza alla coalizione di centro-sinistra, geneticamente assunta dal PdCI come proprio orizzonte strategico d’azione. Il punto da fermare è che la posizione di nicchia presenta due facce, entrambe importanti per il funzionamento e la persistenza dell’organizzazione. La faccia identitaria, importante anzitutto come richiamo elettorale 50, è rilevante come fonte di incentivi collettivi a carattere simbolico e dunque come collante di relazioni verticali analoghe a quelle prevalenti nel PCI fino ai primi anni Ottanta (Lange 1977; Baccetti 1999): coalizione dominante coesa, prevalenza di processi politico-decisionali top-down, deferenza nei confronti del gruppo dirigente, controllo del centro su larga parte delle zone di incertezza organizzativa. La faccia sistemica è invece rilevante come fonte di incentivi selettivi, in particolare sotto forma di spoglie istituzionali in sedi rappresentative e di governo. Tali spoglie sono garantite dall’appartenenza coalizionale del partito, si traducono in un numero non trascurabile di carriere politiche “protette”, sono rilevanti nello strutturare le relazioni organizzative orizzontali, all’interno dell’élite partitica.
Il «trasferimento di identità» dal PCI togliattiano al PdCI 51 avviene senza suscitare particolari conflitti. I partiti contigui di tradizione comunista avevano infatti lasciato senza presidio quel territorio di caccia. Il PDS-DS se ne era già allontanato e il suo gruppo dirigente lavorava da tempo per far dimenticare tale ascendenza. Il PRC aveva già iniziato a distanziarsene per perseguire l’ambizioso disegno della creazione di un partito aperto ai movimenti e competitivo sul mercato elettorale. In contrasto con Cossutta, Bertinotti (1998) aveva espresso il convincimento che il modello del PCI fosse «non più riproducibile», come lo stile mediatico-carismatico della sua leadership e la prospettiva di un PRC catalizzatore dell’antagonismo sociale stavano a dimostrare.
La prima fase di questo processo di acquisizione di identità precede e prepara la scissione. Sono i mesi in cui gli esponenti della frazione cossuttiana presero le distanze dalla condizione, sempre più incomoda, di minoranza interna dentro un partito nel quale fanno ormai fatica a riconoscersi, e cominciarono a avanzare una linea politica autonoma nella quale potersi riconoscere pienamente 52. Nei loro interventi pubblici i cossuttiani iniziano a riferirsi a Rifondazione omettendo l’aggettivo comunista, e negando così al PRC la legittimità di definirsi tale, per giungere poi a etichettarla semplicemente come il partito di Bertinotti (Cossu 2004, 200 e 230). Una seconda fase del processo si sviluppa nei giorni della scissione, tra la prima manifestazione pubblica dei cossuttiani (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 7 ottobre 1998) e quella in cui Cossutta annunciò la nascita del nuovo partito (Roma, cinema Metropolitan, 11 ottobre). In quelle manifestazioni vennero rispolverate rappresentazioni del PCI progressivamente abbandonate da Rifondazione e riesumati riti, valori e miti legati a quella tradizione. Ne sono esempio gli stendardi delle vecchie sezioni del PCI, le copie dell’Unità in bella mostra («risemantizzate e in definitiva usate come rimando al passato»: Cossu 2004, 224); i cimeli dell’Urss; i richiami anche scenografici a Togliatti e a Berlinguer; il tam tam di parole come compagni, comunismo, rivoluzione. La manifestazione al Palazzo delle Esposizioni vide la discesa in campo in carne e ossa dei referenti sociali classici, con gli interventi di un lavoratore del Nuovo Pignone, di un minatore del Carbosulcis e di un ex comandante partigiano (ed ex senatore del PCI) a fare da battistrada al discorso di Cossutta.

La volontà di far rivivere il partito comunista italiano fu perseguita in modo sistematico anche dopo il momento fondativo. Strutturazione organizzativa del partito e sistematizzazione del repertorio simbolico procedono anzi in parallelo, allo scopo di rendere quanto più possibile nitida e coerente la ricostruzione di una memoria collettiva che sancisca una sorta di continuità normativa fra il PCI e il nuovo Partito dei Comunisti Italiani (Cossu 2004). La ricerca di un legame simbolico-identitario con il vecchio PCI 53 si rintraccia non solo nella scelta del simbolo, ma anche in una tessera di adesione pressoché identica alla tessera PCI del 1982, nel rilancio della togliattiana “La Rinascita” (di cui il PdCI “rileva” anche l’ex direttore Adalberto Minucci), nell’attenzione riservata all’ANPI, nella ricostituzione della FGCI, nella creazione di una scuola di partito i cui programmi di formazione politica ricordano quelli delle Frattocchie. Per altro verso, la nostalgia del (e il richiamo al) partito togliattiano trovarono espressione nei richiami all’antifascismo, all’attualità della resistenza, alla difesa della Costituzione del 1948, temi ricorrenti e distintivi del discorso politico neo-comunista, La prospettiva identitaria così delineata non ebbe difficoltà a essere declinata, nel quadro partitico e competitivo di fine anni Novanta, in termini di appartenenza e lealtà coalizionale. Il punto è rilevante, in quanto illumina la capacità dei fondatori del partito di trasformare l’opportunità congiunturale prodottasi nell’autunno 1998 in una risorsa relativamente stabile e di combinare in modo efficiente logica dell’identità e logica della competizione. La leale adesione alla coalizione assicura infatti al PdCI alcune vantaggiose contropartite: stabilizzazione delle relazioni interpartitiche, risorse materiali (si torni al sorprendente rapporto assessori/eletti osservato sopra), possibilità di dar seguito all’offerta di rappresentanza rivolta al mondo sindacale e del lavoro. Il vantaggio maggiore è però senza dubbio la possibilità di coltivare, al riparo della leale adesione alla coalizione, la propria autonomia politica, culturale e organizzativa e, dunque, la propria identità di partito comunista. La relazione nei confronti della coalizione rimane peraltro strumentale 54. Se in termini organizzativi rappresenta il riconosciuto propellente in grado di assicurare il mantenimento e in certi casi la buona salute della struttura partitica, in termini politici la coalizione è vista come «alleanza, ma, al tempo stesso, luogo di conflitto» 55. Questa concezione della coalizione come arena trova conferma dalle opinioni dei quadri intermedi. I delegati congressuali si dichiarano infatti al 91,2% in totale disaccordo con la prospettiva dell’ingresso del proprio partito in un «partito unico dell’Ulivo» (mentre meno del 30% dei delegati congressuali DS si dice abbastanza o molto d’accordo con l’affermazione «i DS devono abbandonare l’idea del partito unico dell’Ulivo»). L’ipotesi del PdCI come partito a termine, d’altro canto, è respinta a larghissima maggioranza anche quando la domanda ipotizza una futura confluenza nei DS (confluenza che riscuote il 96,5% di “per niente d’accordo”) o la ricomposizione della frattura del 1998 (nei confronti della quale il 76,1% degli intervistati dichiara di esser per niente o poco d’accordo, percentuale che scende invece al 70,1% fra i delegati congressuali di Rifondazione).

6. Osservazioni conclusive: il PdCI e la trasformazione dei partiti italiani

Qual è l’utilità dell’analisi e delle evidenze presentate fin qui rispetto al tema più generale del cambiamento partitico in Italia? Una prima, icastica risposta è che nel caso del PdCI il cambiamento sta nella continuità, adattata al nuovo contesto competitivo. Un diverso e forse più promettente argomento è invece osservare che anche dallo studio di un partito piccolo, marginale e poco influente come il PdCI è possibile ricavare indicazioni non irrilevanti.
Tre i principali punti da considerare: l’evoluzione della diaspora rossa e le forme di persistenza della tradizione comunista in Italia; le interazioni fra risorse organizzative e condizioni ambientali nell’attuale contesto partitico; le prospettive del PdCI alla luce delle considerazioni precedenti.
Rispetto al primo punto, l’ipotesi più volte richiamata in questo lavoro è che il PdCI rappresenta il segmento della diaspora rossa caratterizzato dalla maggiore continuità con il passato. Alcuni degli aspetti esaminati (la vicenda genetica, le caratteristiche della struttura organizzativa, la cultura politica dei quadri intermedi) convergono nel caratterizzare il partito come l’erede più ortodosso del vecchio PCI. Pur intrattenendo con quell’antecedente una parentela di secondo grado, il legame con il PCI è emerso infatti come elemento fondante dell’identità del nuovo partito ed è stato considerato dagli imprenditori politici che hanno dato vita al partito alla stregua dell’acquisizione di inestimabili quarti di nobiltà. Per più di un aspetto, come si è visto, il PdCI può considerarsi una sorta di PCI in sedicesimo. Questa maggiore vicinanza alla casa madre trova conferma anche dalle osservazioni comparate presentate in questo lavoro. Tutto ciò sembra indicare che i tre partiti della diaspora rossa vuoi perché nel PCI coabitavano anime diverse, vuoi perché le nuove organizzazioni partitiche si sono adattate in modi diversi al cambiamento del proprio ambiente operativo siano ormai sensibilmente diversi fra loro. Per il PDS-DS e per il PRC la fuga dal comune punto di partenza ha comportato un processo di sostituzione delle strutturate risorse di identità con risorse di altra natura: legate al conseguimento di un ruolo governativo e alla rappresentanza degli interessi della rete subculturale nel caso dei DS; derivanti dalla svolta movimentista e dalla scommessa sulla propria capacità di coordinare le molte espressioni della sinistra radicale nel caso di Rifondazione. Si tratta in entrambi i casi di una scommessa competitiva. Per i DS la posta in gioco è la conquista, per interposto Ulivo, di una posizione centrale e, a dispetto di un purgatorio che perdura, del definito superamento della «soglia oggettiva dell’accettazione democratica» [Bosco 2000, 282-284]. Per Rifondazione si tratta invece di conquistare, attraverso il conseguimento di un più ampio spazio elettorale, un potere di condizionamento non più solo negativo sui programmi e le politiche della coalizione di centro-sinistra. Da quanto si è visto, il caso del PdCI è molto diverso: a differenza dei partiti cugini, esso si colloca infatti ai margini del mercato, in una posizione di nicchia che, come si è visto, si avvale, da un lato, di una solida base identitaria e, dall’altro, di un’adesione leale alla coalizione di centro-sinistra.
Tra i partiti della diaspora rossa, insomma, il PdCI è il più fermo e fedele al proprio passato, non senza conseguenze all’apparenza paradossali, ad esempio il fatto che Cossutta, messo in sordina il tradizionale filosovietismo, si ritrovi berlingueriano pur essendo rimasto lo stesso Cossutta di vent’anni fa 56.
Se dai destini della diaspora rossa ci si sposta a considerazioni più generali relative al cambiamento partitico, questo lavoro consente di mettere in luce due aspetti. Il primo è che l’analisi della presenza e della capacità di persistenza di un partito come il PdCI suona come una (non sorprendente) conferma del fatto che l’odierno contesto partitico e competitivo (Di Virgilio 2005) garantisce ai piccoli partiti, anche a quelli non centrali ma estremi, condizioni favorevoli per sopravvivere se non per prosperare. Il secondo aspetto è che nel funzionamento dell’organizzazione le risorse istituzionali derivante dalle posizioni elettive e di governo (risorse finanziarie, relazionali, di comunicazione, logistiche, di staff) hanno acquistato un peso assai consistente 57. Anche dentro il PdCI, come la stessa affermazione dei notabili rossi sembra indicare, il party in public office sembra affermarsi rispetto alle altre facce dell’organizzazione partitica [Katz 1994]. Ciò potrebbe rendere precari gli equilibri organizzativi se non trasformare il PdCI in un terreno di conquista. Come accade in altri contesti (van Biezen 2000), nel PdCI questi sviluppi vengono attenuati dalla parziale sovrapposizione di personale che si registra, a livello nazionale come a livello regionale, fra party in public office e partito organizzazione. Malgrado la tradizione partitica, il party in central office in quanto tale non sembra in grado non sembra in grado di esercitare un effettivo controllo sui coordinamenti regionali, come l’insuccesso del tentativo di censire l’effettivo ammontare delle indennità di quota delle posizioni elettive, gestionali e di governo occupate da esponenti di partito e di imporne una devoluzione pari al 50% sembra indicare.
Quali potranno essere, dunque, le prospettive politico-organizzative dei Comunisti italiani? Molto dipende dall’affidabilità delle risorse strategiche sulle quali il partito ha fondato la propria azione politica e dunque dalla tenuta delle posizioni di nicchia che ne sono derivate.
La nicchia identitaria, priva com’è di effettivi sfidanti, si presenta più stabile della nicchia sistemica. Soffre però un’incerta riproducibilità generazionale. La nicchia sistemica, d’altro canto, è meno solida della nicchia identitaria, poiché risente dell’evoluzione dei rapporti interpartitici e, in generale, di un contesto ambientale sul quale la coalizione dominante può esercitare un controllo assai limitato. L’adesione di Rifondazione alla nuova Unione democratica e la sua candidatura a esercitare un ruolo di governo hanno costituito un esempio significativo di come la struttura di vincoli e opportunità all’interno della coalizione possano facilmente modificarsi. La reazione del PdCI a questo cambiamento semba essere un’inedita apertura alla logica di cartello 58. Caduto l’oggettivo steccato della diversa collocazione rispetto alla coalizione e alla prospettiva del governo e considerata la convergenza su molte posizioni di policy (pace/guerra; lavoro e stato sociale) la proposta di “fare cartello” è stata rivolta anzitutto a Rifondazione. Due le ipotesi prospettate: la Confederazione della sinistra da realizzarsi attraverso la convergenza dei tre partiti della diaspora rossa; la Lista Arcobaleno assieme ai Verdi e aperta ai movimenti e ai sindacati. Per il PdCI la principale incognita di un adattamento competitivo di questo genere è che la politica di cartello possa retroagire in modo negativo sulla nicchia identitaria. Ed è significativo, a questo proposito, che per il partito la maggiore preoccupazione connessa alla creazione di un cartello di forze sia di carattere “simbolico”, riguardi cioè la visibilità dei propri (irrinunciabili) connotati simbolici comunisti nel simbolo grafico con cui l’eventuale cartello si presenterà sulle schede elettorali.

Riferimenti bibliografici

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NOTE

1 I dati su cariche elettive e di governo a livello regionale e locate ci sono stati forniti da Alessandro Pignatiello del Dipartimento organizzazione del PdCI, che qui ringraziamo. Sono dati aggiornati al luglio 2005 e non comprendono i comuni con meno di 15.000 abitanti.
2 Il che contribuisce alle anomalie del sistema partito italiano su scala comparata: nessun sistema partitico dell’Unione europea conta infatti due partiti neo-comunisti, i quali, oltretutto, si caratterizzano entrambi come partiti di governo e sono entrambi alleati con partiti aderenti al Partito popolare europeo (l’UDEur).
3 Ci riferiamo soprattutto, anche per il loro comune ancoraggio ai dilemmi legati all’ingresso nell’area di governo, al Psiup (in uscita dal Psi nel gennaio 1964), a Democrazia nazionale (in uscita dal Msi nel 1976) e anche, più recentemente, agli stessi Comunisti unitari. Rappresentano casi diversi, invece, sia combinazioni parlamentari che si formano in periodi di fluidità quali i Federalisti-liberaldemocratici e l’UDEur (benché in quest’ultimo caso nei sia uscito un partito altrettanto persistente che il PdCI), sia scissioni anzitutto partitiche (quali il PSLI, il PDS e il PRC, il CCD e il PPI, il CDU). Si tratta di riflessioni impressionistiche; il tema delle scissioni di partito non ha ancora ricrevuto sufficiente attenzione e sistematizzazione.
4 “Certificare” qui la divisione in paragrafi fra pb e adv. Questo lavoro nasce da una riflessione e analisi comuni.
5 Questo articolo è parte di un lavoro più ampio che stiamo conducendo sui partiti della sinistra post e neo comunisti in Italia. Il lavoro costituisce un prodotto del progetto di ricerca interuniversitario (ex 40%) “Per un Osservatorio italiano sulle trasformazioni dei partiti politici” (responsabile scientifico Marco Tarchi) e, più specificamente, del programma locale “Per un Osservatorio italiano sulle trasformazioni dei partiti politici. Cambiamento culturale, organizzativo, strategico e comunicativo fra partiti e coalizioni in Italia dal 1993 al 2006” diretto da Aldo Di Virgilio presso il Dipartimento di Organizzazione Sistema Politico dell’Università di Bologna. A quest’ultimo si collega anche il progetto ex 60% 2004 “RC-PdCI-DS. Una ricerca comparata sull’evoluzione della cultura politica dei partiti neo e postcomunisti” anch’esso diretto da Di Virgilio.
6 Al movimento dei Comunisti unitari aderirono 19 parlamentari (14 deputati, tre senatori e i due europarlamentari) in uscita da Rifondazione dopo aver votano nel gennaio la fiducia a Dini e a marzo la legge finanziaria. La confluenza nei DS, decisa nel successivo giugno, fu sancita ufficialmente soltanto nel febbraio 1998 agli Stati generali della Sinistra con cui giunse a compimento del progetto di Cosa 2 lanciato da D’Alema e il passaggio dal PDS ai DS. In quell’occasione, oltre ai Comunisti unitari, fecero il loro ingresso nel nuovo partito i Cristiano sociali (Carniti e Gorrieri), i Laburisti (Spini), la Sinistra Repubblicana (Bogi, Battaglia e Passigli), i socialisti di Ruffolo.
7 È il tema delle due sinistre, che animò anche altre divisioni (fra socialisti e socialdemocratici nel 1947; fra socialisti e socialproletari nel 1964) e contrapposizioni (lo scontro fra Craxi e Berlinguer negli anni Ottanta). Dentro il PCI, per tutta la lunga fase della conventio ad excludendum fissata nei suoi confronti dai partiti democratici, la questione rimase del tutto ipotetica (non senza manifestarsi, ad esempio, nei contrasti fra la destra di Amendola e la sinistra di Ingrao). Fu invece alla base del dibattito fra miglioristi e centro post-berlingueriano negli anni Ottanta e accompagnò lo stesso passaggio dal PCI al PDS negli anni Novanta. Il dilemma rimase irrisolto all’interno del PDS (al punto che all’atto della sua nascita il modello «antagonista-movimentista» si presentava come un’attendibile ipotesi di sviluppo del nuovo partito [Ignazi 1992, 174 e ss.]) e rappresentò un aspetto costitutivo nella nascita di Rifondazione (movimento che si proclamava rivoluzionario, fissava nello statuto l’obiettivo del superamento del capitalismo, affidava la sua identità a parole d’ordine quali “il governo borghese si abbatte e non si cambia” (sic!)) [Bertolino 2004].
8 L’atteggiamento verso la coalizione e la prospettiva di una partecipazione diretta al governo ha animato, ad esempio, il VI congresso (Venezia, marzo 2005) e il confronto fra le cinque mozioni che vi erano presenti.
9 Su basi diverse da quelle del 1994, Rifondazione ha scelto in vista delle elezioni del 2006 il ritorno a una piena adesione coalizionale nei ranghi dell’Unione democratica. Si tratta di una novità importante, che, con tutte le incognite legate ai conflitti interni e alla solidità della leadership di Bertinotti, trasformerebbe Rifondazione in un partito di governo. Non senza dirette conseguenze sulla nicchia occupata dai Comunisti italiani e dunque investendone le loro scelte strategiche (si vedano le conclusioni di questo lavoro).
10 Oggetto del contendere, anche in quel caso, fu il voto sulla legge finanziaria: Bertinotti dichiarò la sua intenzione di voto contrario; ciò suscitò un aspro conflitto dentro il partito e un movimento d’opinione contrario alla caduta del governo. Queste reazioni convinsero Bertinotti a far rientrare la crisi dopo aver ottenuto da Prodi l’impegno di Prodi a introdurre la settimana lavorativa di 35 ore (sul modello di un analogo provvedimento adottato in quei mesi in Francia dal governo Jospin).
11 A questo riguardo la posizione dei fondatori del PdCI ricorda più l’atteggiamento del Nenni che difende il centrosinistra in base a considerazioni legate alla stabilità del quadro politico democratico (Tamburano 1996) che le posizioni del vecchio PCI. L’analogia con gli anni del centro-sinistra, del resto, non si ferma qui: prima della scissione, alla ricerca di un compromesso per mantenere a Prodi il sostegno di Rifondazione, Nesi avanzò la proposta di far precedere la Finanziaria del 1998 da una Nota aggiuntiva, come avvenne nel 1962 su proposta di Ugo La Malfa.
12 O meglio la gran parte di essa, giacché una parte dei cossuttiani rimase in Rifondazione, dando vita alla componente L’Ernesto, guidata da Claudio Grassi e raccolta al VI congresso nella nella mozione Essere comunisti.
13 Il dissenso nei confronti di Berlinguer risaliva in realtà alla metà degli anni Settanta, quando Cossutta contestò la dichiarazione del segretario comunista che giunse a dichiarare di sentirsi protetto dalla Nato e si distacca dall’ortodossia sovietica. È a quel momento che Diliberto e Diliberto [1998] fanno risalire la nascita della componente cossuttiana. Più tardi, nel 1982, Cossutta subì il provvedimento disciplinare della deplorazione per aver espresso pubblicamente il proprio dissenso nei confronti della Direzione a difesa del ruolo positivo svolto dai paesi socialisti e delle conquiste della società sovietica e per aver sostenuto la tesi secondo cui lo “strappo” nei confronti dell’URSS era in realtà uno strappo nei confronti dell’identità comunista [Cossutta 2003].
14 Si tratta di un’ambiguità originaria, intrinseca nel termine rifondazione. Per alcuni, e in primo luogo per i cossuttiani, il termine rifondazione doveva essere ritenuto transitorio in quanto «l’identità comunista non doveva essere affatto rifondata». Si trattava infatti somma di fondare di nuovo il PCI (opponendosi alla prospettiva di autoscioglimento indicata da Occhetto) e non di rifondare il comunismo come sostenevano il gruppo guidato dal coordinatore Garavini e, più tardi, lo stesso Bertinotti. In quest’ultima prospettiva, il termine rifondazione doveva invece segnare una discontinuità rispetto all’esperienza del vecchio PCI e favorire la contaminazione della cultura politica comunista con impostazioni politico-culturali di altra provenienza (il comunismo di Trotsky e della Luxemburg, i gruppi della sinistra estrema, i nuovi movimenti, e così via).
15 AL XVI Congresso (1983) malgrado il suo emendamento sul “superamento del capitalismo” e a difesa del legame storico con la patria del comunismo avesse ottenuto il 15%-18% dei consensi, Cossutta e la sua componente subirono i rigidi meccanismi della rappresentanza interna e, malgrado il sostegno di Mosca, si ritrovarono marginalizzati [Urban 1986].
16 Secondo quanto dichiaratoci dall’on. Severino Galante, responsabile del Dipartimento organizzazione del PdCI, è del resto agli statuti del PCI degli anni Sessanta e Settanta che gli estensori dello statuto dei Comunisti italiani hanno attinto a piene mani.
17 Questi doveri di stampo tradizionale si intrecciano nello stesso articolo con altri improntati alla political correctness, ovvero: «operare perché si affermino nella società italiana i principi di una società multietnica e solidale; operareperché si affermi nella società italiana il principio di libertà di orientamento sessuale» (art. 2)
18 Come ha sostenuto, senza però fornire sufficienti elementi di spiegazione, Cossu [2004].
19 Al superamento della soglia di sopravvivenza si è riferito durante i lavori del CC del luglio 2005 il segretario Diliberto: «In tutta la discussione non ho sentito nessuno dire: “il partito è transitorio, cosa faremo, dove andremo..”. Questo dibattito, che pure assillava molti compagni, semplicemente non c’è più: e questa è una prima cosa altamente positiva». Resoconto dei lavori, sito Internet del PdCI.
20 In questa prospettiva, la nascita dell’Unione democratica e il ritorno di Rifondazione dentro la coalizione costituiscono per il PdCI una sfida politica e strategica particolarmente insidiosa che obbliga il partito a elaborare risposte adeguate e quindi a adattare la propria linea. Sul punto si rinvia alle conclusioni.
21 Il Dipartimento organizzativo del PdCI non dispone in modo ordinato di tali dati; si è detto però disponibile a ricostruirli e a renderli disponibili per il prosieguo di questa nostra ricerca.
22 E’ questa l’opinione dell’on. Galante. Nell’intervista con gli autori (Roma, 8/9/05) egli colloca tali affermazioni nel quadro della sconfitta mondiale del comunismo: «Cosa ci accomuna? Un richiamo comune alla storia dei comunisti italiano, ovvero di un comunismo realista, togliattiano, di una sinistra che non si limita a voler cambiare il mondo, ma ha un’idea realista del cambiamento, che deve fare i conti leninisticamente con i rapporti di forza in questo paese, una sinistra che ha perso la guerra, l’ha persa nel mondo la guerra, i comunisti hanno perso la guerra fredda e quindi bisogna capire come si fa quando s’è persa la guerra».
23 Si tratta delle risposte fornite da 290 delegati (circa il 39,2% dell’intera popolazione) del III Congresso nazionale del PdCI (Rimini 20-22 febbraio 2004). Consapevoli del fatto che per comprendere chi sono i comunisti italiani dovrebbero essere presi in esame anche i dirigenti e gli elettori del partito, siamo però convinti che le posizioni espresse dai quadri di un partito come il PdCI rappresentino un valido indicatore della sua identità politica. Responsabili di partito ai vari livelli, eletti locali, militanti attivi – e dunque la maggior parte dei delegati al congresso nazionale - svolgono infatti un ruolo centrale nel PdCI: trasmettono le linee politiche del partito dall’alto al basso e convogliano le domande e gli umori diffusi nella base al vertice. Per le funzioni che assolvono i quadri di partito possono inoltre essere considerati portatori di una cultura politica stabile, convenzionale e probabilmente rappresentativa delle diverse anime del partito diffuse nel territorio. A questo proposito facciamo nostra la posizione espressa da Ignazi [1992, 108] e adottata da Bertolino [2004, 233, n. 1].
24 La presenza di Uniti per l'Ulivo e la conseguente assenza dei DS potrebbero aver contribuito per esempio a far lievitare i consensi al PdCI alle regionali del 2005.
25 Ciò non sembri in contraddizione con quanto detto poco sopra circa l’estraneaità di Lucca a tale tessuto. Tale estraneità vale per Lucca città e per la Garfagnana, ma non per la Versilia e il suo entroterra, radice territoriale di Montemagni
26 Tale evidenza potrebbe costituire una conferma del carattere composito del voto ai Comunisti italiani, legato in parte al richiamo partitico (l’appartenenza) e per altra parte, come si è detto sopra, a considerazioni di opportunità connesse alla posta in gioco o allo specifico profilo dei candidati effettivamente eleggibili (secondo le modalità dell’opinione e/o dello scambio) [Parisi e Pasquino 1977].
27 Nel 2003 a Viareggio la designazione del candidato sindaco del centro-sinistra fu occasione di una lotta fratricida in casa DS che contrappose l’ex senatore e assessore provinciale Petrucci al sindaco uscente Marcucci, sostenuto attivamente da Montemagni.
28 Resoconto dei lavori del CC del luglio 2005, in http://www.comunisti-italiani.it. Tutto ciò trova conferma anche in alcuni episodi di carattere elettorale, legati all’impiego del voto di preferenza come strumento di rovesciamento di gerarchie interne che sembravano acquisite. È stato il caso delle elezioni regionali del 2005 e della bocciatura del candidato ufficiale del partito il capolista nella circoscrizione di Bologna, nonché consigliere uscente e segretario regionale dell’Emilia Romagna Rocco Giacomino rimasto fuori dal Consiglio perché imprevedibilmente superato nel numero di preferenze per poco più di 60 voti (537 voti personali contro 474) da Donatella Bortolazzi.
29 Il flusso organizzativo proveniente dai DS è un fenomeno che negli ultimi anni ha registrato nei diversi livelli politicoistituzionali una qualche evidenza. In alcuni casi, ad esempio a Ferrara con l’adesione al PdCI dell’ex sindaco Soffritti, si tratta di adesioni pesanti, che si sono tradotte nel passaggio al PdCI, peraltro non ancora presente in città, di un pezzetto di DS.
30 Ad ogni delegato intervistato è stato chiesto di definire l’identità del Pdci attribuendo un certo grado di importanza (per niente, poco, abbastanza o molto) ad ognuno dei seguenti 14 aggettivi: antifascista, comunista, laica, progressista, riformista, socialista, tradizionalista, socialdemocratica, liberal democratica, populista, liberale, conservatrice, cattolica, anticomunista.
31 Per costruire l’indice “Peso della tradizione marxista” le risposte degli intervistati alle due domande appena ricordate sono state dicotomizzate, separando le posizioni più vicine alla tradizione comunista classica da tutte le altre. Dato che il 93,2% degli intervistati dichiara una visione della politica “molto o abbastanza” influenzata dai valori storici del comunismo, per cogliere meglio la varianza delle risposte dei delegati a questa domanda sono stati isolati gli intervistati che hanno scelto la categoria di risposta “molto” da tutti altri. Allo stesso modo, rispetto alla rilevanza del concetto di “lotta di classe”, sono stati isolati i delegati che considerano il concetto di classe “ancora valido nei termini espressi da Marx” da tutti gli altri.
32 Questa percentuale sale al 67,1% se consideriamo i soli delegati che hanno effettivamente avuto la possibilità di iscriversi al Pci, cioè coloro che erano maggiorenni nel 1991.
33 Solo il 26,5% dei delegati intervistati il 3-6 marzo 2005 al VI congresso del Partito della Rifondazione comunista rispondono allo stesso modo a questa domanda. Durante questo congresso sono stati intervistati 208 delegati (circa il 32% della popolazione).
34 Durante questo congresso - tenuto a Roma tra i 3 e il 5 febbraio 2005 - è stato intervistato il 27,5% dei delegati presenti (434 interviste).
35 Tra le categorie di risposta a questa domanda era anche prevista l’alternativa “in politica bisogna sempre sapersi adattare alle circostanze senza preoccuparsi troppo dei propri principi e della propria identità” che però non è stata scelta da nessun delegato.
36 Agli intervistati era stato chiesto di esprimere una prima ed una seconda scelta tra le seguenti sei possibili funzioni: migliorare le condizioni di vita delle classi più deboli, fare il possibile per vincere le elezioni politiche, rappresentare le opinioni del suo elettorato, rappresentare le opinioni dei suoi iscritti, collaborare a garantire il buon funzionamento del sistema politico, controllare chi sta al potere.
37 Agli intervistati è stato chiesto di esprimere il loro grado di fiducia nella Chiesa scegliendo tra quattro alternative di risposta: per niente, poco, abbastanza e molto. Per rilevare l´opinione sulla legittimità della Chiesa a prendere posizione nel dibattito politico e´stata invece impiegata una domanda a scelta forzata (si veda Pavsic e Pitrone 2003). Le due frasi presentate agli intervistati come alternative di risposta erano le seguenti: «La Chiesa cattolica non dovrebbe mai esprimere le sue posizioni su questioni rilevanti nel dibattito politico» e «È legittimo che la Chiesa indichi le sue posizioni su specifiche tematiche politiche». Gli intervistati dovevano cioè esprimere una preferenza per l’una o per l’altra alternativa su un continuum di sei posizioni ancorate agli estremi con le due frasi. Chi era completamente d’accordo con la frase posta a sinistra del continuum sceglieva di posizionarsi nella casella numero 1, chi era completamente d’accordo con la frase posta a destra del continuum sceglieva la casella numero 6. Le posizioni intermedie servivano per calibrare le preferenze. Relativamente all’indice di anticlericalismo: i «fortemente anticlericali» si collocavano sulla casella 1, gli «anticlericali» sulle caselle 2-4, i «non anticlericali» sulle caselle 5 o 6 se non si fidavano della Chiesa e su tutte le possibili posizioni se si fidavano molto o abbastanza della Chiesa.
38 Oltre il 70% dei delegati del PRC intervistati durante il congresso si dichiara poco o per niente d’accordo con la seguente affermazione: «Rifondazione dovrebbe ricomporre la frattura del 1998 con il PdCI».
39 Le due frasi erano contrapposte lungo un continuum di sei posizioni. Come nella precedente domanda a scelta forzata, se l’intervistato era molto più attratto dalla prima delle due frasi elencate (« … è più importante l’uguaglianza») indicava con una croce la casella 1 se molto più attratto dalla seconda (« … è più importante la libertà») indicava con una croce la casella 6. Le altre caselle servivano per graduare la preferenza tra le due frasi.
40 Tra i delegati del PRC queste posizioni sono ancora più radicali: il 43,8% considera l’uguaglianza molto più importante e appena il 6,5% considerano profondamente più importante la libertà. Tenendo conto delle posizioni intermedie, le percentuali salgono all’81,6% per l’uguaglianza e al 18,4% per la libertà. Tra i delegati DS queste percentuali diventano molto più equilibrate: si registra il 14,8% e il 54 % per l’uguaglianza e il 15% e il 46% per la libertà.
41 La domanda a scelta forzata in questione proponeva ai delegati di scegliere tra uno Stato interventista, garante di tutti i servizi sociali, e uno Stato liberista, che lasciava che i servizi fossero forniti dal mercato.
42 Si tratta della stessa percentuale registrata tra i delegati del PRC. Tra i quadri dei DS scende invece al 62%.
43 La differenza tra le due posizioni diventa ancora più ampia se consideriamo anche le risposte intermedie: i fautori di uno Stato in qualche misura interventista salgono al 97,1% rispetto ad uno scarso 3% di intervistati tendenzialmente liberisti.
44 Il 35% dei delegati che hanno dichiarato di essere stati iscritti a Rifondazione comunista sono passati al PdCi dopo la svolta movimentista del partito di Bertinotti.
45 Tra i delegati SDI intervistati durante il loro III congresso nazionale del 2-4 aprile 2005 a Fiuggi (il campione era costituito da 352 intervistati, circa il 44% della popolazione di delegati) la percentuale di coloro che hanno partecipato a occupazioni di edifici scende al 21,3%, mentre tra i delegati della Margherita intervistati al loro II congresso nazionale di Rimini del 12-14 marzo 2004 (310 casi, circa il 22% del totale dei delegati invitati) si attesta al 17,2%.
46 Questa percentuale risulta ancora più rilevante considerando l’anticlericalismo diffuso tra i delegati del PdCI.
47 È probabile che parte di questi delegati siano stati indotti a lasciare Rifondazione comunista proprio per la progressiva identificazione del partito di Bertinotti con i momenti no-global.
48 Ogni intervistato poteva scegliere tra quattro alternative di risposte: per niente, poco, abbastanza e molto d’accordo.
49 Ricordiamo che solo il 16,3% dei delegati PdCI è disposto a definire il partito socialdemocratico. Questa percentuale risulta ancora i più bassa se paragonata con quella - di una decina di punti superiore - dei delegati di Rifondazione e soprattutto con quella dei delegati DS (l’87% considera socialdemocratico il proprio partito).
50 Non senza esporsi alla reazione di ritorno dei partiti contigui. La capacità del PdCI di drenare valori e persone «in nome di Enrico» ? come recitava un manifesto della campagna per le europee del 2004 ? ha indotto ad esempio i DS a riappropriarsi di Berlinguer. Rifondazione, dal canto suo, dopo aver aderito alla nuova Unione democratica ha soffiato al PdCI uno degli slogan che avevano tenuto a battesimo il partito proponendosi come «la sinistra del centro-sinistra».
51 Sul punto si rinvia a un interessante lavoro di Cossu (2004). Nella rilettura di quel passato, il gruppo dirigente del PdCI utilizza l’etichetta PCI togliattiano per indicare il partito prima della «mutazione genetica» che l’avrebbe portato alla dissoluzione. In questa prospettiva Berlinguer diventa «l’ultimo togliattiano» (così l’on. Galante nell’intervista citata).
52 Esemplare di questo “sdoppiamento” è la dichiarazione di voto pronunciata da Diliberto alla Camera nella discussione sulla fiducia a Prodi: «Come capogruppo dichiaro che Rifondazione ritira la fiducia al governo, ma come comunista io non mi arrendo, noi non ci arrendiamo …». Riportato in Cossu (2004, 219).
53 Annunciano questo obiettivo le stesse lettere inviate dai comitati provinciali promotori del PdCI agli iscritti di Rifondazione e ai giornali locali, dove si chiarisce che il nuovo partito, né più né meno come il vecchio PCI, è «impegnato in una politica autonoma e unitaria, né moderata né massimalista» (Cossu 2004, 227). E lo ribadisce anche la decisione di stampare sulla prima tessera di adesione una frase del Togliatti nazional-popolare: «Noi non possiamo accontentarci di criticare o di inveire, e sia pure nel modo più brillante. Dobbiamo possedere una soluzione di tutti i problemi nazionali. Siamo convinti di non lavorare soltanto per noi stessi, ma nell'interesse di tutta l'Italia, che ha bisogno di un grande, di un forte partito comunista. Noi creeremo questo partito».
54 Si tratta però di una interessante variante dell’uso strumentale della coalizione, alternativo a quello dei piccoli partiti centrali (che dentro la coalizione mettono a frutto come risorsa la loro collocazione spaziale pivotale), a quello dei partiti maggiori (che soltanto agendo da coalition maker, e subendone i relativi costi, possono far valere la loro maggior forza), oppure a partiti in fuga dalla loro identità passata (che come i DS, alimentando e assumendo una identità di coalizione più facilmente conseguono lo scopo di edulcorare la loro identità passata).
55 Così l’on. Galante nell’intervista citata. Si tratta di una contesa «in cui ciascuno difende non solo i propri interessi di partito, ma soprattutto interessi materiali corposi, che fanno capo a pezzi diversi di società. Noi cerchiamo di rappresentare gli interessi del mondo del lavoro. Prodi, Rutelli e Franceschini hanno una cultura politica e punti di riferimento sociali diversi. Dobbiamo trovare una mediazione, ma non possiamo farlo che da posizioni di debolezza ».
56 Il paradosso è soltanto apparente se si concorda col fatto che “Cossutta aveva sbagliato tutto capendo l’essenziale. Capiva che il PCI stava vivendo una metamorfosi interna che l’avrebbe portato alla dissoluzione. Vedeva però il fattore di questa crisi nel rapporto con l’Urss. E lì sbagliava tutto”. In questa prospettiva Berlinguer diventa “l’ultimo togliattiano” (così l’on. Galante nell’intervista citata).
57 Se ne ricava un’indiretta conferma dalla citata intervista all’on. Galante, il quale, soffermandosi sui contraccolpi che l’accordo Cossutta-Bertinotti del 1994 determinò all’interno della componente cossuttiana, ha sottolineato la rilevanza della propria elezione a consigliere regionale nel 1995 come antidoto alla «bastonatura politica» subita sull’altare dei nuovi equilibri interni (nel 1994 il controllo sul comitato regionale del Veneto venne attribuito alla componente ex DP). Galante trasse da quella collocazione istituzionale sufficienti «strumenti di potere e di pressione con cui tutelarmi e tutelare la propria mia area».
58 La prima sperimentazione di questa nuova strategia competitiva è avvenuta alle elezioni regionali calabresi dell’aprile 2005. Per aggirare la di esclusione del 4% prevista dalla nuova legge elettorale, il PdCI vi ha preso parte all’interno del cartello Progetto Calabrie in alleanza con Italia dei Valori e con alcuni movimenti locali conseguendo il 4,2% dei voti su scala regionale.