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Paola Bordandini e Aldo Di Virgilio
PdCI: ritratto di un partito che non avrebbe dovuto esserci
2. La vicende genetica: mettersi in proprio, ovvero
lasciare Rifondazione per ritrovare il PCI
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La nascita del PdCI si fonda sull’incontro fra un’opportunità
congiunturale di carattere sistemico e un contesto infrapartitico
che consente di metterla a frutto in termini organizzativi attraverso
una strategia di exit. L’opportunità scaturiva
dagli equilibri parlamentari usciti dalle elezioni politiche
del 1996 e consisteva nella possibilità di assicurare
all’Ulivo una maggioranza autonoma da Rifondazione comunista.
A conferma del peso decisivo della costruzione delle alleanze
elettorali come fattore della competizione partitica [Di Virgilio
2004], le elezioni del 1996 avevano infatti visto il successo
delle forze aggregate attorno all’asse Popolari-PDS grazie
a un accordo di desistenza col PRC (e, soprattutto, alla divisione
del centro-destra: Bartolini e D’Alimonte 1997). L’Ulivo
non era però riuscito a conquistare una maggioranza autosufficiente
e si trovò a dipendere (alla Camera) dal sostegno di
Rifondazione comunista. Senza assumere una diretta responsabilità
di governo, il partito di Bertinotti fu così in grado
di esercitare un rilevante potere di ricatto sull’esecutivo
e di influenzarne l’azione attraverso una strategia di
contrattazione continua.
In queste condizioni, una scissione che affrancasse il governo
dell’Ulivo dal condizionamento di Rifondazione comunista
rendendone superfluo il sostegno parlamentare poteva rappresentare
un’ipotesi risolutiva. Partito nato per aggregazione di
gruppi e componenti preesistenti e dunque eterogeneo e poco
coeso [Bertolino 2004], il PRC aveva già sperimentato
una scissione. Era accaduto nei primi mesi del 1995, in margine
all’atteggiamento da assumere nei confronti del governo
Dini. Rispetto a quel precedente, la scissione del 1998 presenta
un’affinità ruota infatti anch’essa sul problema
del sostegno al governo e una differenza di fondo ne deriva
un nuovo partito (i Comunisti italiani) anziché un movimento
politico di breve durata (i Comunisti unitari 6).
Soffermarsi su questi due aspetti consente di fissare i principali
tratti genetici del PdCI.
Il tratto che accomuna le due scissioni rinvia a un nervo scoperto
dell’intera vicenda della sinistra ex-comunista: la difficoltà
di contemperare l’esercizio di una funzione tribunizia
[Lavau 1981] e dunque la percezione di sé come forza
antagonista e di opposizione permanente con il problema del
governo e dell’eventuale assunzione delle responsabilità
ad esso connesse. Il tema non era certo nuovo 7;
la transizione politica degli anni Novanta l’aveva reso
però più concreto e stringente. I sistemi elettorali
adottati nella prima metà del decennio avevano infatti
teso a sollecitare un confronto bipolare fondato su coalizioni
multipartitiche e a coinvolgere nella competizione per il governo
tutti i partiti. Il PDS-DS, in fuga dalla propria precedente
identità comunista, rispose alla sfida adattandosi tempestivamente
al nuovo ambiente competitivo: virò in direzione centripeta
(come, sul versante opposto, il MSI-AN) e nel 1995 tenne a battesimo
l’Ulivo assieme a forze politiche collocate alla propria
destra. Per Rifondazione la questione rimase invece assai controversa
e tutt’oggi tale permane 8.
L’instabilità della strategia coalizionale del
partito, le vicende dei suoi gruppi parlamentari, i contraccolpi
che ne sono derivati per militanti e elettori lo mostrano assai
bene. Rifondazione aderì a pieno titolo soltanto alla
coalizione neo-frontista dei Progressisti nel 1994, aggregazione
sostanzialmente priva di una vocazione di governo, per ripiegare
poi alla “desistenza” (1996) e alla “non belligeranza”
(2001) nei confronti dell’Ulivo, coalizione di centro-sinistra
che si candidava al governo del paese [Di Virgilio 2002 ] 9.
In sede parlamentare, lo si è già detto, l’acquisizione
di un potenziale di coalizione sottopose i gruppi di Rifondazione
a sollecitazioni fortissime. Oltre alle scissioni del 1995 e
del 1998 ne derivò infatti anche la crisi organizzativa
dell’autunno 1997, che costituì una sorta di prova
generale della rottura dell’anno successivo 10.
Rispetto al dilemma governo/opposizione, e diversamente dal
PDS-DS e da Rifondazione, gli imprenditori politici che diedero
vita al PdCI seppero trovare una sorta di quadratura del cerchio.
Investendo sull’opportunità di carattere sistemico
che ne accompagnò la nascita, i Comunisti italiani assunsero
infatti il tema del governo come uno degli ingredienti salienti
della propria identità, presentandosi, in continuità
con il vecchio PCI, come un partito di lotta e di governo, e
facendone uno degli aspetti di fondo del proprio “essere
comunisti”.
Nella retorica ufficiale del gruppo scissionista puntare alla
salvezza del governo significava interpretare un sentimento
diffuso e accreditarsi come forza politica seria e affidabile,
che con senso di responsabilità rinunciava a qualcuna
delle proprie posizioni di principio in vista di uno scopo maggiore
e di un interesse generale e nazionale. Non sorprende, dunque,
che il sostegno dei Comunisti italiani al governo dell’Ulivo
si fondasse non su specifici obiettivi di policy bensì
su due considerazioni di politics: l’impossibilità
di realizzare «equilibri più avanzati» all’interno
della maggioranza di centro-sinistra (come preteso da Bertinotti);
la valorizzazione del governo di centro-sinistra come argine
essenziale nei confronti della destra di Berlusconi e Fini (contro
il «questo o quello per me pari sono» di Bertinotti) 11.
Promuovere una scissione parlamentare, d’altro canto,
non è condizione sufficiente per realizzare l’ambizione
di creare un nuovo partito e il caso dei Comunisti unitari l’aveva
appena ribadito. Rispetto a quel precedente, tuttavia, i Comunisti
italiani poterono contare sia su condizioni ambientali più
favorevoli, sia su risorse organizzative adeguate allo scopo.
Nel 1998 l’operazione di “soccorso rosso”
fu prestata a un governo di centro-sinistra in carica (anziché
a un governo tecnico e a termine) e in un quadro competitivo
strutturato (anziché in una situazione di elevata fluidità
parlamentare a coalizioni elettorali ancora indefinite come
tre anni prima). Tutto ciò assicurava contropartite potenzialmente
significative pur se non dichiarate, come, ad esempio, la possibilità
di potersi ritagliare una posizione di nicchia. A fare la differenza
fra scissione del 1995 e scissione del 1998 vi è però
soprattutto la diversa consistenza organizzativa dei promotori
dell’iniziativa, vale a dire il loro diverso grado di
strutturazione e di radicamento territoriale. Nel caso dei Comunisti
unitari si trattò della componente ex PdUP, ovvero di
un esile vertice sostanzialmente privo di una propria base;
nel caso dei Comunisti italiani si trattò invece della
componente cossuttiana 12, frazione di
lungo corso che già da un ventennio, potendo contare
su una presenza territoriale diffusa e su esponenti e quadri
di vecchia scuola, costituiva «l’ossatura di un
partito su scala ridotta» [Diliberto e Diliberto 1998,
76].
La nascita dei Comunisti italiani segnò dunque la trasformazione
della componente cossuttiana in partito autonomo. La scelta
di mettersi in proprio si nutriva degli ingredienti che avevano
accompagnato l’intera carriera politica di Cossutta: legame
con (e difesa del)l’identità comunista, ortodossia
organizzativa oltre che ideologica e, al tempo stesso, Realpolitik
e senso tattico. La prospettiva dell’identità era
emersa a fondamento della posizione di Cossutta sin dalla sua
polemica contro lo “strappo” nei confronti dell’Urss
all’inizio degli anni Ottanta. In quella prima importante
uscita extra moenia 13 l’elemento
identitario in questione era il legame simbolico con la patria
del socialismo, messo in discussione dalle dichiarazioni di
Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della
Rivoluzione d’ottobre rese dopo i fatti di Polonia del
1980. Nella seconda metà degli anni Ottanta, quando la
componente cossuttiana era ormai una corrente strutturata, non
si trattava più (soltanto) di identità filosovietica,
bensì di identità comunista tout court, messa
definitivamente a repentaglio dal vertice del partito con la
svolta della Bolognina. Da qui la lettura di quella svolta come
esiziale “mutazione genetica” e il ruolo di custode
dell’identità comunista che Cossutta assunse e
che gli fu attribuito. Il costante richiamo all’identità
caratterizzò la posizione di Cossutta anche all’interno
del PRC. Il bersaglio critico che giustificò la rottura
con Garavini nel 1994 e con Bertinotti nel 1997-1998 fu infatti
la discontinuità che i due segretari di Rifondazione
intendevano stabilire rispetto all’identità comunista
ereditata dal vecchio PCI 14.
E la stessa scissione del 1998 trovò ancoraggio (e decisive
risorse simboliche) nella salvaguardia dell’antica identità
e fu giustificata come unico corso d’azione in grado di
contrastare la deriva provocata da una nuova “mutazione
genetica”, determinata questa volta dalla posizione (estremista
e massimalista e dunque estranea alla tradizione comunista)
di Bertinotti. Nella lunga carriera politica di Cossutta il
richiamo all’identità si è sempre intrecciato
con un’ortodossia organizzativa interpretata alla luce
di una buona dose di realismo politico. Nell’organizzazione
del PCI Cossutta fu prima “sovrintendente all’amministrazione”
(posizione ricoperta prima di lui da Secchia e da Longo) e poi,
dal 1975, responsabile della Commissione regione e enti locali.
Ne trasse, rispettivamente, solidi legami con Mosca e l’opportunità
di strutturare una componente con sedi e gerarchie proprie e,
benché a ristretta base di massa, con un proprio radicamento
territoriale. Rimasto marginale sul piano politico e esterno
rispetto alla coalizione dominante 15,
nel corso degli anni Ottanta Cossutta gestì con prudenza
e oculatezza il proprio capitale politico-organizzativo: seppe
consolidare la propria componente nonostante un centralismo
democratico ancora a maglie strette; si oppose, giudicandole
inopportune e premature, a ipotesi di scissione sollecitate
da Mosca e sostenute da una parte della sua frazione in sintonia
con forze di nuova sinistra delle quali fortemente diffidava
[Diliberto e Diliberto 1998]; a dispetto dei numeri usciti dal
XIX Congresso del PCI (3,4% dei voti congressuali ai cossuttiani
della Mozione 3; 29,7% per gli ingraiani della Mozione 2) partecipò
al processo di formazione di Rifondazione come colonna organizzativa
del nuovo movimento. Anche dentro RC Cossutta mantenne una posizione
politica defilata, evitando così che il nuovo partito
venisse assimilato all’etichetta di filosovietica utilizzata
per designare la sua componente. Assunse però la presidenza
del movimento, carica che sanciva formalmente il suo controllo
sull’organizzazione. Cossutta giocò così
un ruolo centrale nella coalizione dominante del nuovo partito,
condizionandone i passaggi fondamentali: la nomina di Garavini
a coordinatore del partito (fine 1991); la scelta di Bertinotti
come segretario in accordo con Magri (inizio 1994); la scissione
del 1995 (contro Magri e Crucianelli e in accordo con Bertinotti).
Già dopo il III congresso (fine 1996) l’intesa
con Bertinotti si incrinò, per divergenze sul modello
di partito (al movimentismo del partito comunità aperto
ai “centri sociali” ipotizzato da Bertinotti, Cossutta
contrappose l’obiettivo del radicamento nelle tradizionali
organizzazioni collaterali quale unica strategia percorribile
per dar vita a un vero partito di massa) e sulla questione del
governo (con Bertinotti pronto a scommettere sulla possibilità
di sottrarre voti e influenza sposando le istanze della sinistra
antagonista e Cossutta propenso invece al mantenimento del sistema
di alleanze nel quale il partito si era inserito) [Bertolino
2004, 104-124]. Il conflitto preparava il terreno alla scissione
del 1998 e, come ricordato, si rese evidente già alla
fine del 1997. Il disaccordo con Bertinotti comportò
per Cossutta due conseguenze, entrambe rilevanti al momento
della scissione: lo spostamento del baricentro della sua componente
verso le istituzioni e i gruppi parlamentari (in parallelo al
consolidamento delle posizioni di Bertinotti dentro il partito,
consolidamento favorito anche dal costituirsi attorno alla rivista
“L’Ernesto” della frazione di cossuttiani
critici guidata da Claudio Grassi); l’elaborazione di
una linea che vedeva il ruolo del partito strettamente legato
alla sua organica appartenenza coalizionale (contro un Bertinotti
che in quella fase definiva irrinunciabile l’autonomia
politica del partito e vedeva nell’appartenenza coalizionale
soprattutto il rischio di una penalizzante omologazione).
Se la quasi ventennale attività frazionista di Cossutta
dovesse essere ricondotta a un denominatore comune, è
dunque al legame strategico con l’identità comunista
e all’ambizione di diventarne il custode riconosciuto
che ci si dovrebbe riferire. A tale fattore si può attribuire
la progressiva valorizzazione del capitale politico-organizzativo
che Cossutta riesce a accumulare: dal 4% del PCI di Occhetto
alla fine degli anni Ottanta (XVIII Congresso, 1989), a circa
un terzo della forza di Rifondazione alla metà degli
anni Novanta, al 2,5% dei voti come partito autonomo dieci anni
dopo. Non molto in assoluto, ma, come vedremo, quanto di più
vicino al vecchio PCI tra le forze della diaspora rossa. Cossutta
ne esce consacrato come icona del comunismo nazionale; partecipa
attivamente, e in modo decisivo al momento della scissione,
a un’alleanza di centro-sinistra che consente al nuovo
partito di coltivare la propria identità; ricostituisce
all’interno del nuovo, piccolo partito un ambiente organizzativo
assai simili a quello del PCI fino a Berlinguer e dunque di
gran lunga più facile e favorevole rispetto a quello,
insidioso in quanto complesso, di Rifondazione.