Il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI) è nato il 9 ottobre 1998 come scissione parlamentare del Partito della Rifondazione Comunista. Il nuovo partito raccolse l’adesione di 29 dei 46 parlamentari di Rifondazione e poi, a cascata, quella di numerosi dirigenti locali e responsabili di circolo [Bertolino 2004, 124-128]. Nel maggio 1999 tenne il suo congresso di fondazione alla presenza di 552 delegati in rappresentanza dei circa 30 mila iscritti dichiarati dalle 101 federazioni provinciali. A quel congresso ne seguirono altri due (Bellaria, dicembre 2002; Rimini, marzo 2004). Ispirato da Armando Cossutta, che ne rimane il presidente, il PdCI è capeggiato da Oliviero Diliberto, eletto segretario nel 2000. Alle elezioni europee del giugno 1999, suo esordio elettorale su scala nazionale, il PdCI raccolse poco più di 600 mila voti (pari all’1,7% dei voti validi). Da allora ha partecipato regolarmente alle elezioni di ogni livello (parlamentari, regionali, locali) con il proprio simbolo e proprie liste di candidati. Conta attualmente poco meno di 650 eletti, tra cui 46 consiglieri di comuni capoluogo e 58 consiglieri provinciali, 23 consiglieri regionali e 11 parlamentari (che alla Camera, grazie al “prestito” di un deputato DS, formano la componente Comunisti italiani del Gruppo misto). Poco più di 300 esponenti del PdCI ricoprono attualmente cariche di governo a livello locale e regionale (tra questi sette assessori regionali, 42 assessori provinciali e 23 assessori in città capoluogo, nonché 13 sindaci in comuni con oltre 15mila abitanti) 1. Alle elezioni europee del giugno 2004 ha ottenuto il suo miglior risultato su scala nazionale con 780 mila voti e il 2,4% dei voti validi. I suoi due europarlamentari hanno aderito al gruppo “Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica”. In una diversa prospettiva narrativa, sistemica anziché organizzativo-strutturale, il profilo del PdCI si caratterizza per il fatto di nascere in parlamento come secondo partito neocomunista e come partito di governo. Fu costituito infatti da 29 parlamentari che abbandonarono i gruppi parlamentari di Rifondazione per salvare il governo dell’Ulivo formato nel 1996, governo che nell’autunno 1998 Bertinotti puntava a far cadere. Fallito l’obiettivo di mantenere in sella Prodi, i Comunisti italiani diedero un apporto decisivo alla formazione del primo governo D’Alema (definito sulla stampa, in virtù dell’arco di forze che lo sosteneva, governo Cossiga-Cossutta). Questi tratti genetici e il suo leale e disciplinato sostegno ai governi dell’Ulivo della XIII legislatura sono valsi al PdCI, nelle politiche del 2001, 11 parlamentari (eletti a dispetto di un magro 1,7% ottenuto nel voto proporzionale per la Camera). Nel corso della XIV legislatura, in sintonia con i Verdi, i Comunisti italiani si sono caratterizzati come “cerchio esterno” della coalizione ulivista, favorevole al ritorno di Prodi alla guida dello schieramento, ma indisponibile a partecipare al progetto di Federazione dell’Ulivo e costantemente impegnato a marcare la propria autonomia di posizioni, soprattutto su questioni di politica estera e di politiche sociali. Una scheda del PdCI non sarebbe completa se non si soffermasse su altri, atipici elementi connotativi del partito. Si tratta infatti di un partito neo-comunista che si forma a quasi 10 anni di distanza dalla caduta del Muro di Berlino 2. Inoltre, pur essendo comunista, il PdCI nasce come partito di governo, trae origine da una scissione parlamentare ed è quindi una sorta di partito di origine interna [Duverger 1951]. In terzo luogo, e ancora più importante, si tratta di un partito che nasce e sopravvive in un ambiente competitivo quasimaggioritario benché ovunque debole sul piano elettorale, collocato in posizione estrema e marginale nello spazio politico e privo in partenza, dunque, delle risorse proprie del partito pivotale (in particolare la libertà di manovra connessa a quella rendita di posizione). Stando così le cose verrebbe da affermare - sia detto in tutta Wertfreiheit - che un partito come il PdCI non dovrebbe esistere. A dispetto della pochezza strutturale, della sfavorevole collocazione nel sistema partitico e dei paradossi suscitati dal suo identikit che è quanto emerge dai dati essenziali appena riportati, la sua capacità di persistenza è tuttavia un dato di fatto. In passato analoghe scissioni parlamentari avevano avuto minore fortuna e durata e in breve tempo erano confluite in partiti contigui, più grandi sul piano elettorale e più solidi in termini strutturali 3. Capire le ragioni di tale persistenza e ricavarne indicazioni più generali sugli odierni partiti italiani costituisce lo scopo di questo lavoro. Il tema è affrontato in tre passaggi che prendono in esame, rispettivamente, la natura del partito, la sua identità, le risorse su cui si basa la sua azione politica 4. Come si vedrà, il “successo” del PdCI si fonda sul saldo nesso che gli imprenditori politici che lo guidano sono riusciti a instaurare fra elementi di carattere identitario-culturale e opportunità competitive. Tale interazione chiama in causa la relazione e il confronto tra Comunisti italiani e altri partiti, anzitutto il vecchio PCI, rispetto al quale il PdCI si pone come «organizzatore della memoria» [Cossu 2004, 228], e poi Rifondazione e PDS-DS, partiti contigui coi quali il PdCI condivide quella comune ascendenza. Per quest’ultimo motivo alcuni passaggi di questo lavoro presentano un taglio comparato 5. Il PdCI ne esce caratterizzato come riedizione in sedicesimo, ma non per questo priva di credibilità, dell’ex PCI. Sotto forma di (fragile) partito di nicchia. |