Nel gennaio 1964 Togliatti e Tito s'incontrarono a Belgrado. Era l'ultimo colloquio tra i due leader, i cui destini si erano intrecciati per venti anni, tra scontri e riconciliazioni, visioni differenti e grandi intuizioni comuni. Essi furono senza dubbio i due esponenti del comunismo europeo che più di altri avevano saputo esprimere un'autonomia da Stalin, pur restando legati alla cultura marxista - leninista degli anni del Comintern. Nel vertice di Belgrado (di cui chi scrive ha potuto consultare il verbale, nell'ambito di una ricerca di prossima pubblicazione sulle figure di Togliatti e Tito) vennero affrontate con lucida consapevolezza le novità di un mondo non più rigidamente bipolare, ma ormai interdipendente: dall'evoluzione della politica estera statunitense dopo l'assassinio di Kennedy alla complessa realtà del mondo arabo, all'indomani dell'indipendenza algerina; dalle questioni europee al nodo cruciale del dissidio cino-sovietico. La ritrovata sintonia rendeva inevitabile una valutazione retrospettiva dei rapporti tra i due partiti, a partire dalla risoluzione del Cominform del giugno 1948 con la quale come dichiarò poche settimane dopo Togliatti era stato "ridotto quasi a un problema di terminologia il più grande tema storico che i nostri tempi hanno po sto al movimento operaio, il tema della ricerca di nuove vie di avanzata verso il socialismo." Per quanto riguarda Togliatti nell'affrontare tale tema è necessario risalire agli anni della guerra, allorché la questione di Trieste costituì un banco di prova decisivo - per il teorico del "partito nuovo" - di saldare nazione e classe, identità nazionale e scelta internazionalista. Nel corso del 1944-45 egli dovette misurarsi, da un lato, con I'anticomunismo interno e internazionale, e dall'altro, con la visione nazionalista e classista di Tito, che non mancò di influenzare il movimento partigiano al Nord, profondamente sensibile alla suggestione del modello jugoslavo. Vi sono stati, anche in tempi recenti, tentativi strumentali di dimostrare I'estraneità dei comunisti italiani alla patria e interpretazioni storiografiche volte ad accreditare la tesi di un PCI disponibile a sostenere le mire annessionistiche di Tito su Trieste e sulla Venezia Giulia. In particolare, nei colloqui tra Togliatti e il leader sloveno Kardelj del 17 ottobre 1944 a Bari e nelle direttive formulate due giorni dopo dal capo del PCI per favorire la collaborazione con l'esercito popolare di Tito si è voluto cogliere il consenso all'inserimento di Trieste nella nascente Repubblica Federativa Jugoslava. Ma tale tesi non trova conferma in alcuna fonte sin qui nota ed è smentita sia da Kardelj nelle sue memorie sia dalle affermazioni contenute in una lettera dello stesso Togliatti a Maurice Thorez, segretario del PCF (21 aprile 1946), in risposta all''intransigente posizione filojugoslava dei comunisti francesi. In tale documento Togliatti, compiendo un excursus sulle difficili relazioni tra la resistenza italiana e quella jugoslava, rievoca I'episodio dell'ottobre di due anni prima: "Secondo accordo, concluso (...) alcuni mesi prima della liberazione di Trieste, tra me e una delegazione del partito jugoslavo. Base dell'intesa: la questione di Trieste è accantonata e sarà risolta in seguito; comunisti italiani e sloveni collaboreranno nella liberazione della città e per la creazione di organismi di autogoverno popolare. Noi rispettiamo scrupolosamente l'accordo. Al contrario, gli jugoslavi entrano a Trieste proclamando che la città è jugoslava e avviando, senza dirci nulla, la campagna per l'annessione". Pur essendo irrisolte le contraddizioni e le aporie della linea togliattiana sul complesso problema, non si può non tener conto delle polemiche che opposero, nell'immediato dopoguerra, i comunisti jugoslavi e il PCI, giunto altresì a sconfessare in modo aperto le posizioni del PC giuliano, ormai divenuto come notava Togliatti "sezione del partito jugoslavo" . Egli scriveva, nella già citata lettera a Thorez: "I compagni jugoslavi non possono pretendere che noi compromettiamo I' esito della nostra lotta per risolvere a loro favore, e in modo iniquo, contro il diritto nazionale di una città italiana, la questione della loro frontiera." Nelle sue parole era netta e inequivocabile l'affermazione di un sentimento nazionale non offuscato dalla disciplina staliniana. Ciò vale anche di fronte alle veementi campagne di stampa che hanno insistito sul legame di ferro con I'Urss come fattore determinante del presunto avallo di Togliatti e del PCI alla tragedia delle foibe. Tale drammatica vicenda, assieme a quella non meno dolorosa dell'esodo delle popolazioni istriane nel 1947 e nel 1954, costituiscono episodi esecrabili della storia del XX secolo. Ma solo le ragioni di una rozza propaganda mediatica possono ricollegare il tema delle foibe alla presunta estraneità del PCI di Togliatti al tessuto vivo della nazione. Inoltre, se è vero che per molti anni la storiografia marxista ha mantenuto un imbarazzante silenzio sulle violenze compiute dai partigiani jugoslavi nel 1943-45 nella Venezia Giulia e a Trieste, è altresì innegabile che l'opera di revisione di questo capitolo oscuro sia stata avviata, dalla metà degli anni settanta, proprio dagli studiosi di sinistra. Appare del resto evidente come la questione delle foibe non possa essere interpretata secondo una prospettiva ancora permeata dalla mentalità della guerra fredda. Ma, senza alcun intento giustificazionista, vada collocata nel contesto dell'intero "secolo breve". Non è possibile spiegarla né usando in modo spregiudicato la categoria di genocidio, né rimuovendo l'aspetto, da essa inseparabile, della sistematica opera di snazionalizzazione compiuta dal fascismo nei confronti delle popolazioni slovene. Per tornare alle figure di Togliatti e Tito: il loro incontro del novembre 1946 è stato oggetto di valutazioni diverse, sebbene sia prevalente, soprattutto negli studi più recenti, l'interpretazione secondo la quale il viaggio del segretario del PCI a Belgrado avrebbe costituito un'ulteriore prova della difficoltà del partito di assumere un'identità autenticamente nazionale, sacrificata sull'altare del legame internazionalista. Senza dubbio, la missione di Togliatti presentava notevoli ambiguità, specie per quanto riguarda l'ipotesi di uno scambio tra Gorizia e Trieste, improponibile sotto ogni profilo, politico, storico, etnico. Di tale dato Togliatti fu probabilmente consapevole, come sembrano confermare gli interventi successivi nei quali egli attribuì all'intransigenza jugoslava il fallimento della propria iniziativa. Al suo rientro da Belgrado avrebbe dichiarato, riferendosi a Tito: "Chiede in cambio Gorizia e non capisce che, allora, saranno gli americani a decidere, e non noi." Non è noto il contenuto dei colloqui tra i due leader comunisti, ma solo i retroscena di quel discusso vertice, data l'attuale inaccessibilità dei archivi di Belgrado. Sembra tuttaia possibile affermare che il coup de théatre di Togliatti non fosse ispirato da ragioni propagandistiche di carattere interno, né dall'ambizione di giungere a una soluzione della questione giuliana: probabilmente, egli volle compiere un passo che lasciasse impregiudicate le possibilitàdi un negoziato bilaterale tra i due paesi confinanti, per sottrarre I'Italia alla condizione di "avamposto" della guerra fredda e salvaguardare i residui margini di autonomia del proprio partito . Da allora, Togliatti dovette accettare la logica dei blocchi contrapposti e la disciplina staliniana, pur non rinunciando nelle poche occasioni che gli si presentarono a esprimere posizioni autonome. Ciò sia di fronte alla nascita del Cominform (che non solo non alimentò alcuna ipotesi insurrezionale nel PCI, ma soprattutto non ne inibì il ruolo protagonistico nell'attuazione della Costituzione, nella difesa delle libertà democratiche e nella piena maturazione di una coscienza nazionale in seno alla classe operaia) sia per quanto riguarda la scomunica di Tito. Una decisione che egli accolse, a conferma della perdurante eredità staliniana, senza rinunciare a tentare una mediazione tra Mosca e Belgrado e limitando a pochi interventi 'liturgici" la propria partecipazione alla campagna contro la "cricca revisionista" di Tito. Ma nel 1948-56 i fondamenti della democrazia progressiva e della via italiana al socialismo non erano stati compromessi e ciò rese possibile, dopo il XX Congresso, riprento, ma mai del tutto abbandonato. Nel maggio 1956, nel corso del secondo incontro di Belgrado, le posizioni di Togliatti e Tito tornarono a convergere. In particolare, il comune giudizio secondo il quale le cause delle degenerazioni del sistema sovietico non potevano essere spiegate solo col "culto della personalità" di Stalin sembrò aprire una nuova stagione nella quale il policentrismo avrebbe potuto costituire il terreno per un profondo rinnovamento della strategia e dell'azione dei partiti comunisti sotto l'impulso dei due leader europei più rappresentativi. Sia le divergenze sulla cocezione del campo socialista (il cui rifiuto da parte di Tito era visto con timore da Togliatti, preoccupato dell'indebolimento dell'Urss e dell'intero movimento comunista) sia la crisi polacca e la repressione sovietica in Ungheria vanificarono quelle speranze, determinando una nuova crisi nei rapporti tra PCI e LCJ e una profonda involuzione della politica di Togliatti, che giunse a proclamare l'esigenza di stare "dalla propria parte anche quando questa sbaglia." Ma al principio del decennio successivo, Togliatti e Tito ricominciarono a tessere la trama di un dialogo. La crisi del bipolarismo, la crescita del movinento dei paesi non allineati, l'esigenza di stabilire un rapporto con i partiti socialisti e socialdemocratici europei costituivano le tessere di un mosaico fondato sulla percezione di un mondo nuovo e interlipendente. L'incontro del gennaio 1964 non dovette essere ininfluerte sul modo in cui Togliatti affronò la questione della rottura tra Mosca e Pechino. La tenace difesa dell'unità del movimento comunista non impedì all'anziano leader di fornire un contributo decisivo e originale col "Memoriale di Yalta": un documento spesso sottovalutato dagli storici ma denso di analisi inedite e di prospettive nuove. L'intuizione della crisi strutturale dei paesi socialisti e dell'Urss, la prospettiva di una transizione fondata sul nesso tra democrazia e socialismo erano contenute in nuce nel testamento politico di Togliatti. In ciò, la sua figura, ancora più di quella di Tito (geniale artefice dell'autogestione e protagonista del non allineamento, ma profondamente ostile a quaunque istanza di democrazia e di pluralismo), va al di là della tradizione comunista e si colloca a pieno titolo nella storia italiana e nondiale del '900. l'Unità, 20.10.2004 |