«In Oriente lo Stato era tutto, la società civile primordiale e gelatinosa; nell'Occidente, tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte». E parte altrettanto da un'affermazione teorica che continuamente riprende dalla Prefazione a Per la critica dell'economia politica di Marx: «Una formazione sociale non perisce prima che si siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della società».In Occidente dunque la rottura rivoluzionaria non poteva materialmente ridursi alla conquista e all'esercizio esclusivo del potere da parte di una avanguardia organizzata che approfitta di una crisi acuta e orienta in essa la improvvisa insorgenza di massa, ma presuppone un lungo lavoro molecolare, la conquista progressiva di `casematte', alleanze sia sociali che politiche con forze storicamente radicate. Guerra di posizione oltre che di movimento: qui emerge l'accento nettamente diverso rispetto a Lenin. Ma, nel contempo, questo lungo lavoro, questo processo sociale attraverso il quale maturano le `condizioni' oggettive e soggettive di una alternativa di sistema non è solo il compimento graduale di una tendenza già iscritta nello sviluppo capitalistico e nella democrazia di cui la classe operaia è l'agente, ma anche il prodotto di una volontà consapevole e antagonista, di una egemonia politica e culturale, di una rottura e ricostruzione delle istituzioni statali. Il comunismo è il rovesciamento, non la prosecuzione della storia che gli sta alle spalle e che l'ha reso possibile: e la differenza di Lenin dalla socialdemocrazia non solo è, per questo aspetto, conservata, ma ulteriormente approfondita. Non era dunque abusivo il tentativo di Togliatti di utilizzare - sia pure entro confini tracciati dal tempo - il Gramsci dei Quaderni come anticipatore politico e come fondamento teorico del `partito nuovo' e della `via democratica al socialismo', in entrambi i suoi aspetti (il gradualismo riformista in Italia e in Occidente, sorretto però e garantito e qualificato nell'autonomia delle sue finalità da un processo storico mondiale per tappe avviato dalla Rivoluzione di ottobre). L'interpretazione togliattiana non era neppure, ho aggiunto, immotivata. Perché anche nelle sue forzature, reticenze, riduzioni, il `gramscismo' di Togliatti non nasceva tanto e soprattutto da una intenzione strumentale e manipolatoria - come spesso avveniva al marxismo-leninismo dell'epoca - ma dai grandi fatti e dalle esperienze intervenute nella storia del movimento operaio in Italia e nel mondo durante e dopo la stesura dei Quaderni e che imponevano aggiornamenti di analisi e di strategia (altro discorso è se Togliatti stesso sia stato pienamente capace di interpretarli e di dar loro una risposta adeguata). Dopo che Gramsci, dal carcere, aveva avviato la propria nuova riflessione, e ancor più negli anni immediatamente successivi alla sua morte, il mondo era infatti cambiato con una velocità e una profondità mai conosciuta. Una nuova grande crisi economica, sociale, culturale, aveva scosso ogni nazione, coinvolto ogni classe, e rapidamente sarebbe approdata a una nuova e più devastante guerra mondiale. Il suo esito immediato fu l'emergere del fascismo, questa volta come tendenza internazionale. Tali avvenimenti furono dapprima interpretati dai partiti comunisti come la conferma dell'impossibilità assoluta di una politica riformista, dell'esaurimento del `capitalismo putrescente', e dunque come la riproposizione dell'occasione rivoluzionaria fallita negli anni venti. La linea cosiddetta del `socialfascismo' non era, in questo senso, solo il frutto di un impoverimento estremista e settario, né dettata dalla logica della lotta interna al gruppo dirigente sovietico nel momento della collettivizzazione forzata e dell'industrializzazione accelerata: nasceva piuttosto da una lettura classica e semplificata di fatti reali e sconvolgenti. Ma condusse a una sconfitta per certi versi più drammatica di quella degli anni venti. All'inizio degli anni trenta Hitler andò al potere con il sostegno di una forte spinta di massa (non come risposta alla `minaccia comunista' - peraltro in quegli anni già largamente contenuta - ma come una delle risposte possibili alla crisi del capitalismo liberale, uno dei `fordismi' possibili). I partiti comunisti in Occidente erano, oltre che perseguitati, assottigliati, divisi ed eterodiretti; l'Unione Sovietica isolata, minacciata dall'aggressione esterna, lacerata da un conflitto sociale e politico drammatico. La svolta del VII Congresso dell'Internazionale non fu semplicemente un adeguamento tattico, ma una specie di rifondazione, sia pure non pienamente consapevole, nella cultura e nel radicamento sociale del movimento comunista. E l'esperienza dei Fronti popolari e dell'unità antifascista, che esso produsse, non fu solo - come oggi si tende con qualche disprezzo a definirla - una convergenza difensiva contro un comune nemico. Né rimase circoscritta là dove il pericolo fascista incalzava. Certo, la difesa della libertà minacciata, e per i comunisti la difesa del `paese dei soviet' ne costituivano la motivazione più evidente. Ma a darle un'anima, e una prospettiva, concorreva la scoperta, o la riscoperta, del nesso forte tra democrazia politica e questione sociale, tra libere istituzioni, eguaglianza economica, diritto al lavoro. La grande crisi economica del mondo capitalistico avanzato e i suoi effetti non meno aspri nella periferia coloniale, i primi indiscussi successi dei piani quinquennali in Urss, la Repubblica spagnola e le conquiste sociali in Francia e il New Deal roosveltiano, animarono quegli anni di straordinaria tensione politica e ideale non meno della minaccia hitleriana. Questi sconvolgimenti risvegliarono le capacità innovative del movimento operaio di varie tradizioni, conquistarono nuove generazioni e produssero una partecipazione che coinvolse settori importanti dell'intellettualità progressiva: ne risultò trasformato oltre che lo spirito dell'epoca, il pensiero politico, economico, scientifico. I fondamenti e le premesse di quello che più tardi divenne il `compromesso keynesiano', lo Stato sociale, furono gettati in quegli anni tragici. Lo sciocchezzaio pamphlettistico oggi imperante, che ripensa la storia del `comunismo reale' come una pura illusione, un gigantesco delirio ideologico, censura proprio questo dato centrale della storia del secolo: i comunisti sarebbero ridiventati una setta, il loro ruolo, nel bene e nel male, sarebbe stato marginale, se non fossero stati di nuovo, dopo l'Ottobre e in piena epoca staliniana, non il solo ma certo un protagonista decisivo di quello snodo dal quale venne letteralmente cambiata la faccia al mondo. E infatti alla fine della guerra vittoriosa si trovarono presto a governare quasi due miliardi di uomini, a essere l'interlocutore e alleato naturale del movimento di liberazione nazionale del Terzo mondo, mentre si avviavano in Occidente - e sarebbero continuate anche nella stretta della guerra fredda, anche quando erano al governo forze conservatrici - riforme che portavano il segno del socialismo (intervento pubblico nell'economia, tutele sociali, diritti contrattuali sui luoghi di lavoro, partecipazione organizzata di partiti operai e sindacati alla direzione politica). E tuttavia la differenza rispetto alle ipotesi rivoluzionarie degli anni venti, agli anni della `scalata al cielo' non solo permaneva ma, in un certo senso, diventava ancora più netta e irreversibile. Fronti popolari e unità antifascista non avevano impedito la guerra, anzi nell'immediato erano stati sconfitti nelle loro esperienze più avanzate (Francia, Spagna); la guerra era stata vinta da un'alleanza in cui era già determinante il ruolo della maggiore e più dinamica potenza capitalistica, gli Stati Uniti; dalla guerra gli Stati Uniti erano usciti con una forza militare, un peso economico, un'egemonia culturale moltiplicate che consentivano loro di offrire una nuova prospettiva di sviluppo in Occidente e anche di governare in modo flessibile l'emancipazione dal vecchio colonialismo in molti paesi della periferia. Nello stesso tempo, la dinamica politica e ideologica avviata in Urss dalle repressioni degli anni trenta, accentuatasi proprio nel corso della guerra con la mobilitazione patriottica e dopo la guerra, per il prevalere della logica della politica di potenza e per effetto della nuova pressione americana, rendevano meno accettabile ai popoli dell'Occidente il modello sovietico e nello stesso tempo più stretti i margini per l'autonoma ricerca di `vie democratiche' al socialismo. Non ci fu quindi una `spinta rivoluzionaria' in Occidente minimamente paragonabile a quella, pur battuta, del primo dopoguerra: anzi, vi fu un recupero di potere e di consenso delle forze politiche moderate e delle capacità espansive del sistema economico capitalistico (i `trenta gloriosi') sia pure in un quadro di compromesso sociale e di equilibrio bipolare. L'uno e l'altro aspetto di questo straordinario mutamento non potevano essere preveduti dai comunisti e dai marxisti degli anni trenta, Gramsci compreso. Anche chi era andato più avanti nella elaborazione della strategia dell'unità democratica, della `democrazia progressiva', chi era persuaso cioè che la rivoluzione in Occidente avrebbe potuto e dovuto assumere modalità nuove, più processuali, e approdare a forme nuove del potere, non dubitava comunque che una nuova guerra mondiale, e la caduta dei fascismi, avrebbero prodotto, anche nei paesi avanzati, un movimento di massa a egemonia proletaria, aperto una vera fase di transizione. Quando Gramsci, in dissenso con il partito e con l'Internazionale, all'inizio degli anni trenta, avanzò la parola d'ordine dell'Assemblea costituente, essa aveva questo significato e conteneva questa speranza, era cioè pensata nella linea di quello sviluppo che `Lenin non aveva avuto il tempo di compiere', come tappa ravvicinata e strumento di una nuova e diversa rottura rivoluzionaria. Lo stesso Trockij, che pure manteneva una fedeltà ostinata al modello dell'Ottobre in polemica con la degenerazione burocratica e l'opportunismo politico dell'Internazionale staliniana, (ma era ben più geniale e penetrante dei suoi epigoni) riconobbe senza reticenze poco prima della morte: «Se a una nuova guerra mondiale non seguirà una rivoluzione vittoriosa in Occidente e una profonda riforma della società sovietica, dovremmo ripensare tutto». Togliatti si venne a trovare dunque in una situazione del tutto diversa e inattesa, nel bene e nel male: un'espansione del potere dei comunisti, una dislocazione in avanti della lotta di classe nel mondo, ma a fronte di un'egemonia non intaccata del capitalismo in Occidente e anzi, qui, di una nuova fase di `rivoluzione passiva'. Questo lo spinse, quasi lo costrinse, a contare sul primo elemento per affrontare in piena autonomia una nuova e lunga fase di `guerra di posizione', a tentare ciò che Gramsci rimproverava ai mazziniani di non aver saputo fare nel Risorgimento: capire cioè le ragioni dei moderati, usare le trasformazioni che essi erano costretti a operare, ma mettere in campo tutte le proprie forze per trasformare strada facendo la `rivoluzione passiva' in un vero processo di trasformazione, nell'affermazione di una nuova egemonia. Non c'è dubbio allora che nell'interpretazione del pensiero di Gramsci suggerita da Togliatti e assimilata dal PCI vi fosse, oltreché un uso finalizzato, una vera `forzatura': nel senso di un gradualismo molto più accentuato, di un'attenuazione dello `spirito di scissione' e della radicalità anticapitalistica, di uno spostamento di attenzione al terreno politico-parlamentare rispetto a quello politico-sociale. Ce ne forniscono la misura, proprio in quel periodo, la esibita propensione di Togliatti, ben lontana dall'insofferenza gramsciana, per la tradizione culturale e le figure politiche moderate e riformiste della storia italiana (Croce, Giolitti), e insieme le sue forti riserve verso le vecchie e nuove correnti del radicalismo sia democratico-borghese sia cattolico, che dal piano politico (il Partito d'Azione, il dossettismo) e culturale (le avanguardie artistiche e filosofiche, il marxismo occidentale di sinistra) si spingeva fino al terreno del gusto e del costume. Così come, nell'azione e nella pratica del `partito nuovo' colpisce il carattere prudente e disperso dei programmi di riforma economica e istituzionale (a parte i fondamenti della Costituzione). Ma non c'è dubbio, altrettanto, che tale `forzatura' era il portato e il riflesso dei vincoli opposti da una situazione storica determinata, di una novità intervenuta nelle cose e per una certa fase apparsa non modificabile. Non a caso dunque essa produsse in quella fase risultati fecondi. Diede radici profonde e popolari alla democrazia in un paese nel quale la classe dominante non aveva saputo né voluto costruirla e le classi proletarie, che ne erano rimaste sempre escluse, vi reagivano con l'apatia o con il sovversivismo. Fece, per tutta un'epoca, dell'Italia il paese della partecipazione politica più ampia e organizzata, del movimento operaio italiano una forza non solo combattiva ma culturalmente matura, in certi momenti egemone, e di tanta intellettualità, fino ad allora trasformista e codina, una forza di trasformazione democratica e civile. Quella ispirazione ebbe gran parte nel contribuire alla costruzione di un partito di massa capace di partecipare in ogni momento e spesso di dirigere parziali riforme della società e dello Stato - il potere sindacale, i prodromi dello Stato sociale, le istituzioni dell'economia mista, il processo di emancipazione femminile, il meridionalismo - senza smarrire un'autonomia ideale e un connotato di classe, unendo dentro di sé, e trasformando, una pluralità di ceti, di tradizioni, di generazioni. Garantì a questo partito un certo grado di autonomia, via via crescente, rispetto al `paese guida', senza separarlo da un movimento mondiale ancora espansivo e anzi permettendogli di assumervi una funzione di stimolo per esperienze critiche e innovative anche in molti altri paesi. Permise infine, ma non per ultimo, di sperimentare una forma organizzativa, ancora retta dai princìpi del centralismo democratico ma abbastanza tollerante della ricerca, della discussione, capace di selezionare i quadri migliori e non solo i più fedeli, di riconoscere gradualmente l'autonomia delle organizzazioni di massa. Non appena il momento più aspro della guerra fredda e dell'ultimo stalinismo fu superato, tutto ciò raggiunse la sua forma più matura: il comunismo italiano raccoglieva quasi naturalmente le forze più avanzate della società italiana, e appariva aperto a ulteriori sviluppi. Non sarebbe stato così senza Gramsci e anche senza quella mediazione togliattiana che ho chiamato `gramscismo'. Qui metteva radici permanenti e di massa una forza, un'identità, che non era - come molti oggi dicono e pensano - una `socialdemocrazia di fatto', senza quasi saperlo, o dirlo, ma neppure una semplice articolazione del campo sovietico, costretta dalle cose a svolgere una supplenza democratica in contraddizione con le sue convinzioni profonde e solo fin quando non si potesse `fare come in Russia'. Parlo degli anni '60, quando, ormai oltre e senza Togliatti, non solo il dibattito sul pensiero di Gramsci si approfondì e si differenziò, ma soprattutto il `gramscismo' fece la sua prova nella politica concreta, e manifestò più chiaramente sia le sue pote Non appena il momento più aspro della guerra fredda e dell'ultimo stalinismo fu superato, tutto ciò raggiunse la sua forma più matura: il comunismo italiano raccoglieva quasi naturalmente le forze più avanzate della società italiana, e appariva aperto a ulteriori sviluppi. Non sarebbe stato così senza Gramsci e anche senza quella mediazione togliattiana che ho chiamato `gramscismo'. Qui metteva radici permanenti e di massa una forza, un'identità, che non era - come molti oggi dicono e pensano - una `socialdemocrazia di fatto', senza quasi saperlo, o dirlo, ma neppure una semplice articolazione del campo sovietico, costretta dalle cose a svolgere una supplenza democratica in contraddizione con le sue convinzioni profonde e solo fin quando non si potesse `fare come in Russia'. Parlo degli anni '60, quando, ormai oltre e senza Togliatti, non solo il dibattito sul pensiero di Gramsci si approfondì e si differenziò, ma soprattutto il `gramscismo' fece la sua prova nella politica concreta, e manifestò più chiaramente sia le sue potenzialità che i suoi limiti di fronte alla sfida di una società che si modificava, in una nuova `guerra di movimento' che pareva riaprire degli spazi. Su tutto ciò converrà tornare al più presto, questa volta anche nella veste di osservatori e di protagonisti diretti, chiamati a scavare con sincerità nella memoria e a rispondere di ciò che abbiamo potuto o saputo capire e fare. |