  |
Lucio Magri
Il Gramsci di Togliatti |
Palmiro Togliatti, Scritti su Gramsci,
a cura e con un'introduzione di Guido Liguori, Editori Riuniti
2001, pp. 318. Rispetto all'edizione curata da Ernesto Ragionieri
(1967,1972) questo volume raccoglie sette nuovi scritti pubblicati
precedentemente in varie forme.
Sono stati pubblicati in un solo volume, in ordine cronologico
e con una cura particolare dei testi, tutti gli scritti di Palmiro
Togliatti su Antonio Gramsci. Un saggio introduttivo di Guido
Liguori serve, in stile misurato ma con argomenti stringenti,
a sgombrare il campo dai molti equivoci e dalle non innocenti
invenzioni che di recente hanno costruito il `romanzo' sul conflitto
irriducibile e sordo tra i due capi storici del comunismo italiano,
pur senza affatto tacere i momenti tormentati, psicologici e politici,
nel rapporto tra Gramsci e il suo partito: dalla lettera del '26
alle polemiche in carcere dei primi anni trenta e fino alla morte.
La raccolta non contiene inediti e non riserva quindi sorprese
o rivelazioni; ci si potrebbe quindi limitare a raccomandarne
la lettura, per seguire in filigrana, nel linguaggio e nel merito,
l'evoluzione profonda e faticosa di una posizione politica e intellettuale
in anni grandiosi quanto difficili.
La nuova edizione però stimola, e aiuta, qualcosa di più
importante. Un lavoro cioè di ricostruzione e di riflessione
sulla `fortuna di Gramsci' che è ancora lontano dall'essere
concluso. Per `fortuna di Gramsci' non intendo in questo caso
il lavoro e i progetti di edizione critica dei suoi scritti,
né
il dibattito sulla interpretazione che, nel caso dei Quaderni,
era reso necessario e difficile dal loro carattere non sistematico,
dalla forma spesso allusiva imposta dalle servitù carcerarie
e spesso lacunosa per la povertà dei materiali di documentazione
disponibili per chi li stendeva. Come si sa, questo lavoro è
andato avanti per molti anni - va ricordato in particolare
il merito di Valentino Gerratana, recentemente scomparso -
e ancora sorprendentemente dura e si estende in ogni parte del
mondo, ma sempre più coinvolge Gramsci anzitutto come
uomo di cultura, inesauribile risorsa di spunti in tanti campi
del sapere.
Intendo invece, specificamente, la `fortuna' di Gramsci come comunista,
teorico della rivoluzione comunista, ispiratore di una strategia
nuova per la rivoluzione in Occidente. Il come e il quanto il
suo pensiero sia stato teoricamente riconosciuto, politicamente
usato o corretto, sia penetrato in intere generazioni di militanti,
abbia potentemente inciso nella cultura e nella pratica di un
grande movimento politico. Come e quanto insomma abbia pesato
nella storia «grande e terribile».
Questo lavoro è tuttora largamente da fare e sarebbe di
straordinaria utilità proprio oggi. Anzitutto per definire
l'identità non superficiale del comunismo italiano di
cui il `gramscismo' è elemento costitutivo e indispensabile
chiave di lettura. In secondo luogo per vedere se nel pensiero
anticipatore di Gramsci qualcosa di essenziale, che andava
oltre i confini della sua epoca, e a volte travalicava o contraddiceva
ciò che il PCI allora voleva o poteva comprendere e
utilizzare
- come lo stesso Togliatti riconobbe poco prima di morire
- sia rimasto in ombra e potrebbe invece offrire un prezioso
contributo ai nuovi sviluppi della storia che oggi viviamo. È
un quesito schiettamente `gramsciano' che tende a verificare
quanto delle idee di questo `filosofo della prassi' abbia camminato
in un movimento reale e a metterle a confronto con la sconfitta
di fine secolo (più pesante e più difficile da
recuperare di quella degli anni venti).
In questo articolo vorrei avviare una tale riflessione, limitandomi
per ora a parlare solo di un passaggio, peraltro cruciale: la
grande, e non innocente, operazione di mediazione che Togliatti
intenzionalmente e sistematicamente condusse, negli anni della
costruzione del `partito nuovo', proprio pubblicando, diffondendo
a livello di massa, interpretando il lascito dei Quaderni. Qualcosa
di simile era avvenuto con la mediazione kautskyana di Marx nella
socialdemocrazia tedesca. Ma in questo caso in modo più
esclusivo: per molto tempo Gramsci ha fatto tutt'uno con il `gramscismo'
della lezione `ufficiale' molto più di quanto il Marx di
Kautsky si identificasse con il `marxismo', allora più
variegato.
L'obiettivo che Togliatti si poneva non era certo solo quello
di tributare un omaggio al grande amico e all'eroico compagno,
né solo quello di offrire un grande contributo alla cultura
italiana. Si trattava di un obiettivo politico, nel senso più
forte e con l'intenzione più diretta.
Il problema prioritario che Togliatti si trovava ad affrontare
dopo la vittoria sul fascismo era infatti quello di tenere insieme
due elementi apparentemente contradditori che egli riteneva
però
entrambi essenziali al suo progetto politico e al partito comunista
che tentava di rimodellare: il collegamento con l'Unione Sovietica
e il `campo socialista' in quanto centro motore di un processo
mondiale, e la linea dell'unità antifascista, della `democrazia
progressiva', della legalità repubblicana elaborata
in Italia dopo la svolta di Salerno. A differenza di tutti
gli altri partiti comunisti dell'Occidente (anche grandi come
il PCF) tale tensione non era, per lui, provvisoria né strumentale.
L'unità democratica non era solo la tattica di una
fase dettata dai rapporti di forza del momento dalla definizione
netta delle zone di influenza sancita a Yalta, e legittimata
da una certa fase della politica staliniana; né doveva
solo permettere un'accumulazione di forze e di alleanze fino
al momento in cui si potesse, anche in Occidente, passare
alla fase rivoluzionaria secondo i canoni del modello sovietico.
Era invece una scelta strategica destinata a sperimentare
una nuova via di conquista del potere e a ridefinire fini
e approdi del suo esercizio. Reciprocamente, però,
il collegamento con il movimento comunista internazionale
non era un vincolo dal quale non ci si poteva in quel momento
affrancare; ma l'espressione dell'appartenenza ad un processo
mondiale di trasformazione di cui l'Unione Sovietica restava
il centro motore, che nel '45 era ancora in pieno sviluppo,
e che garantiva il retroterra pratico e l'autonomia ideale
necessari all'inedita ricerca di nuove vie al socialismo.
L'esperienza, esaltante e terribile, degli anni trenta l'avevano
convinto che il consolidamento, lo sviluppo, e più tardi
la graduale autoriforma del `campo socialista', costituivano la
base di forza e l'esempio storico necessari per portare avanti
una trasformazione democratica senza essere travolti dalla violenza
reazionaria e parimenti senza perdere di vista il traguardo finale
ed essere riassorbiti nella gestione del potere borghese. Il riferimento
gli appariva necessario anche, forse, per elevare ovunque, prima
ancora della diretta conquista del potere, la lotta di classe
a una coscienza propriamente politica e statuale in quanto partecipe
di un movimento mondiale che già era in larga parte del
mondo diventato Stato, dirigeva la società e a tale problema
doveva complessivamente far fronte. Ma quella esperienza l'aveva
altrettanto reso consapevole, per diretta conoscenza, dei prezzi
tragici del modello staliniano e dell'impossibilità di
una sua trasposizione nella società occidentale. Unità
e autonomia erano dunque per lui elementi costitutivi a pari titolo
di una `via italiana al socialismo', l'una condizione dell'altra.
Intorno al 1947, però, quel binomio incontrò difficoltà
crescenti, anzi rischiò di andare a pezzi. Crisi dell'unità
antifascista in Italia e a livello mondiale, inizio della guerra
fredda, irrigidimento dogmatico e riaffermazione dell'Unione Sovietica
come centro esclusivo di direzione politica (il Cominform, la
condanna di Tito e la fine di ogni autonomia delle `democrazie
popolari') toglievano, per una fase, quasi ogni spazio politico
e ogni legittimità culturale alla ricerca di nuove `vie
al socialismo' e alla costruzione del `partito nuovo'.
In questo contesto va collocata e valutata la pubblicazione, la
diffusione, lo studio dei Quaderni di Gramsci che Togliatti
promosse e sostanzialmente diresse: essa doveva servire, e servì,
a fornire un fondamento teorico, una lezione di metodo, un `senso
comune', e anche la necessaria autorevolezza (sostenuta da un
mito) all'identità duratura del comunismo italiano. Con
questo obiettivo Gramsci venne valorizzato seriamente e fino in
fondo ma fu anche ridotto e piegato nelle forme a cui l'epoca
e l'intenzione spingevano. Da un lato lo sforzo di non rendere
troppo esplicito tutto ciò che in Gramsci innovava profondamente
la tradizione leninista e confliggeva con la sua versione staliniana,
dall'altro lato lo sforzo di sottolineare in Gramsci tutto ciò
che serviva alla valorizzazione della continuità della
`rivoluzione democratica e antifascista'.
Così, per scelta, ma ancora più per `selezione naturale'
operata dalla forte organicità di quella scelta, alcuni
temi e alcune parti dei Quaderni emersero in primo piano,
divennero `costitutivi' del gramscismo, oscurandone altre incomprese
o rimosse. Su due grandi temi si concentrarono allora, non a caso
in modo quasi esclusivo, l'attenzione e la riflessione dei comunisti:
quello del Risorgimento italiano come rivoluzione incompiuta,
e quello dell'autonomia relativa, e del valore, della sovrastruttura
in polemica con il meccanicismo e l'economicismo del `marxismo
volgare'. Anch'essi, però, in una particolare `curvatura
interpretativa': dell'analisi del Risorgimento e dell'Italia postrisorgimentale
infatti viene enfatizzata la riflessione critica sull'emarginazione
della questione agraria e sulla rivoluzione dall'alto a egemonia
piemontese che accomunava Gramsci alla denuncia, già presente
in Dorso e Gobetti, dell'arretratezza perdurante nel capitalismo
italiano e nella cultura delle sue classi dirigenti. Rimasero
invece in secondo piano le ragioni profonde dell'egemonia cavouriana,
l'ambiguità del trasformismo, dunque i processi parziali
e distorti di `modernizzazione' che Gramsci coglie non solo nel
Risorgimento ma persino nel fascismo.
L'autonomia della sovrastruttura - d'altra parte -
tendeva a produrre una separazione della dinamica politico-istituzionale
dalla sua base di classe, lo storicismo marxista tendeva a diventare
storicismo tout-court.
Tra i temi che restarono, se non ignorati, marginali nella riflessione
teorica e inerti in quella politica, due soprattutto, e di grande
rilievo: da un lato lo scritto su `americanismo e fordismo',
proprio nel momento in cui invece si profilavano anche in Italia
(con la ricostruzione industriale sostenuta e orientata dal
Piano Marshall e dalla importazione di tecnologia e organizzazione
produttiva americane) la produzione standardizzata di beni di
consumo di massa e l'organizzazione tayloristica del lavoro;
dall'altro la riflessione giovanile intorno ai consigli di fabbrica,
proprio in una fase in cui la straordinaria vitalità politica
e sociale del moto resistenziale sollecitava e forse permetteva
l'invenzione di nuove istituzioni che integrassero la democrazia
parlamentare e dessero della `democrazia progressiva' una proiezione
nella `costituzione materiale' e non solo in quella formale. È
curioso constatare come questa tematica, ormai storicamente matura,
si sia imposta all'attenzione dei comunisti e della sinistra
solo un decennio più tardi - alla fine degli anni '50
- per la forza delle cose, tra molte resistenze e per iniziativa
di una minoranza di sindacalisti e di intellettuali, ai margini
del PCI o fuori da esso.
Fra i temi gramsciani uno venne infine seccamente, intenzionalmente
e a lungo occultato ben oltre ogni ragionevolezza: la consapevolezza,
che continuamente affiora in Gramsci, del carattere della Rivoluzione
d'ottobre e del suo consolidamento come tappa necessaria ma
non autosufficiente del processo rivoluzionario mondiale, e,
soprattutto, il timore - da lui espresso nella famosa
lettera a Togliatti del '26 - che la logica del potere personale
e la lotta violenta nel gruppo dirigente sovietico producessero
involuzione e dissoluzione del nuovo potere e della nuova società.
Togliatti non solo non pubblicò quella lettera né
durante gli anni venti e trenta, quando potevano derivarne conseguenze
terribili, né nell'immediato dopoguerra, ma neppure dopo
il trauma del '56; anzi non ne affrontò l'inquietante
problematica se non forse, poco prima di morire, con il memoriale
di Yalta, che peraltro era destinato a restare `riservato'.
Questa lettura riduttiva di Gramsci ebbe conseguenze notevoli
non soltanto sul piano culturale, ma anche su quello immediatamente
politico: anzitutto il grande ritardo, anzi l'ostinata resistenza
a vedere, e ad analizzare, per lo meno fino ai tardi anni cinquanta,
i processi di impetuosa modernizzazione dell'economia italiana
e le nuove figure sociali che vi emergevano. Rimase così
dominante nel PCI la convinzione che il capitalismo italiano era
inguaribilmente arretrato; e da qui derivò una tendenza
a sottovalutare la possibilità di strappare riforme significative,
o a considerare come successi tutte quelle modificazioni che si
operavano in qualsiasi forma, e a sovrastimare invece il pericolo
del rapido ritorno delle classi dirigenti a posizioni classicamente
reazionarie, proiettando anche per il futuro lo schema e i limiti
dell'esperienza antifascista.
In secondo luogo la concezione e la pratica del partito nuovo:
partito di massa certo, non settario e non troppo intollerante
della discussione, ma sostanzialmente distinto tra un partito
dei quadri retto da un gruppo dirigente monolitico e cooptato,
e un partito di popolo organizzato intorno a rivendicazioni immediate
e fatto oggetto di una pedagogia spesso generica. Il partito come
intellettuale collettivo, interlocutore di movimenti e di istituzioni
autonome di classe, che lavora al superamento della distinzione
tra governanti e governati rimase nella penna e nelle aspirazioni
di Gramsci; la politica delle alleanze rimase al di qua della
soglia del gramsciano nuovo blocco storico. Solo più tardi
tutto ciò sarebbe pienamente emerso e se ne sarebbero potute
valutare le conseguenze rispetto a situazioni più complesse
e a occasioni più mature. Vi tornerò dunque più
avanti, nel corso di questa riflessione.
Mi preme invece subito insistere sul fatto che - almeno
a mio avviso - quella operazione togliattiana nell'interpretazione
di Gramsci, pur riduttiva, non era né abusiva né
immotivata: poggiava infatti su elementi forti del testo e su
esperienze storiche successive alla sua stesura, che ne autorizzavano
gli elementi essenziali e ne rendevano fecondi i risultati.
Perché dico non abusiva? Perché in effetti il motore
che muove e coordina la molteplice e apparentemente frammentaria
ricerca dei Quaderni, e la riflessione sulla sconfitta della rivoluzione
in Europa negli anni venti e sulle sue conseguenze, non contesta
solo il dogmatismo teorico e la pratica politica dello stalinismo
(di cui anzi riuscì a vedere criticamente le ragioni) ma
rimette anche in discussione il modello (non il valore storico)
della Rivoluzione di ottobre, cioè la centralità
esclusiva della presa del potere statale, l'idea dell'incompatibilità
tra riforme e rivoluzione. In ciò Gramsci non solo anticipa
la strategia del VII Congresso e della democrazia progressiva,
ma la spinge molto più avanti e le conferisce un valore
universale.
Quella sconfitta degli anni '20, non dimentichiamolo, non frustrava
solo una diffusa speranza che aveva animato le masse e dalla quale
erano nati i partiti comunisti, non `allungava' solo i tempi,
ma sovvertiva tutta l'analisi e tutto il progetto su cui l'Internazionale
comunista si era mossa, e di cui Lenin era pienamente convinto:
l'analisi in base alla quale la rivoluzione russa era una prima
rottura che presto avrebbe coinvolto i paesi più avanzati,
dove esistevano condizioni già mature, e lì avrebbe
trovato le condizioni materiali e le forze soggettive indispensabili
alla costruzione di una società socialista.
Gramsci, a differenza di Trockij e in polemica con lui, accetta
quel fatto inatteso che fu la necessità della terribile
avventura del `socialismo in un solo paese' e arretrato, del cui
limite e del cui rischio era pur consapevole. Ma, a differenza
di tutti i comunisti della sua epoca, non si limita a spiegare
la sconfitta con il tradimento dei partiti socialdemocratici,
con gli errori o la debolezza organizzativa dei nuovi partiti
comunisti, e a differenza di tutti i socialdemocratici, di destra
e anche di estrema sinistra, non ne trae affatto la convinzione
che l'Ottobre rosso fosse `immaturo'. Cerca invece da subito di
individuare cause più profonde e non contingenti della
sconfitta, di definire i tratti nuovi di una rivoluzione in Occidente,
necessariamente diversa come percorso e come approdo, di cui la
rivoluzione russa e il suo consolidamento erano la condizione
pratica e la premessa teorica, ma non il modello da imitare.
Egli parte - come tutti ricordano - da una constatazione
storica: la differenza strutturale, qualitativa, tra `Oriente'
e `Occidente':
«In Oriente lo Stato
era tutto, la società
civile primordiale e gelatinosa; nell'Occidente, tra Stato e
società
civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si
scorgeva subito una robusta struttura della società civile.
Lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una
robusta catena di fortezze e casematte». E parte altrettanto
da un'affermazione teorica che continuamente riprende dalla Prefazione a Per la critica dell'economia politica di
Marx: «Una formazione
sociale non perisce prima che si siano sviluppate tutte le forze
produttive per le quali essa è ancora sufficiente e
nuovi più alti rapporti di produzione non ne abbiano
preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza
di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della
società».
In Occidente dunque la rottura rivoluzionaria non poteva materialmente
ridursi alla conquista e all'esercizio esclusivo del potere da
parte di una avanguardia organizzata che approfitta di una crisi
acuta e orienta in essa la improvvisa insorgenza di massa, ma
presuppone un lungo lavoro molecolare, la conquista progressiva
di `casematte', alleanze sia sociali che politiche con forze storicamente
radicate. Guerra di posizione oltre che di movimento: qui emerge
l'accento nettamente diverso rispetto a Lenin. Ma, nel contempo,
questo lungo lavoro, questo processo sociale attraverso il quale
maturano le `condizioni' oggettive e soggettive di una alternativa
di sistema non è solo il compimento graduale di una tendenza
già iscritta nello sviluppo capitalistico e nella democrazia
di cui la classe operaia è l'agente, ma anche il prodotto
di una volontà consapevole e antagonista, di una egemonia
politica e culturale, di una rottura e ricostruzione delle istituzioni
statali. Il comunismo è il rovesciamento, non la prosecuzione
della storia che gli sta alle spalle e che l'ha reso possibile:
e la differenza di Lenin dalla socialdemocrazia non solo è,
per questo aspetto, conservata, ma ulteriormente approfondita.
Non era dunque abusivo il tentativo di Togliatti di utilizzare
- sia pure entro confini tracciati dal tempo - il
Gramsci dei Quaderni come anticipatore politico e come
fondamento teorico del `partito nuovo' e della `via democratica
al socialismo', in entrambi i suoi aspetti (il gradualismo riformista
in Italia e in Occidente, sorretto però e garantito e
qualificato nell'autonomia delle sue finalità da un
processo storico mondiale per tappe avviato dalla Rivoluzione
di ottobre).
L'interpretazione togliattiana non era neppure, ho aggiunto,
immotivata. Perché anche nelle sue forzature, reticenze,
riduzioni, il `gramscismo' di Togliatti non nasceva tanto e
soprattutto da una intenzione strumentale e manipolatoria -
come spesso avveniva al marxismo-leninismo dell'epoca - ma dai
grandi fatti e dalle esperienze intervenute nella storia del
movimento operaio in Italia e nel mondo durante e dopo la stesura
dei Quaderni e che imponevano aggiornamenti di analisi e di strategia
(altro discorso è se Togliatti stesso sia stato pienamente
capace di interpretarli e di dar loro una risposta adeguata).
Dopo che Gramsci, dal carcere, aveva avviato la propria nuova
riflessione, e ancor più negli anni immediatamente successivi
alla sua morte, il mondo era infatti cambiato con una velocità
e una profondità mai conosciuta. Una nuova grande crisi
economica, sociale, culturale, aveva scosso ogni nazione, coinvolto
ogni classe, e rapidamente sarebbe approdata a una nuova e più
devastante guerra mondiale. Il suo esito immediato fu l'emergere
del fascismo, questa volta come tendenza internazionale.
Tali avvenimenti furono dapprima interpretati dai partiti comunisti
come la conferma dell'impossibilità assoluta di una politica
riformista, dell'esaurimento del `capitalismo putrescente',
e dunque come la riproposizione dell'occasione rivoluzionaria
fallita negli anni venti. La linea cosiddetta del `socialfascismo'
non era, in questo senso, solo il frutto di un impoverimento
estremista e settario, né dettata dalla logica della
lotta interna al gruppo dirigente sovietico nel momento della
collettivizzazione forzata e dell'industrializzazione accelerata:
nasceva piuttosto da una lettura classica e semplificata di
fatti reali e sconvolgenti. Ma condusse a una sconfitta per
certi versi più drammatica
di quella degli anni venti. All'inizio degli anni trenta Hitler
andò al potere con il sostegno di una forte spinta di
massa (non come risposta alla `minaccia comunista' - peraltro
in quegli anni già largamente contenuta - ma
come una delle risposte possibili alla crisi del capitalismo
liberale, uno dei `fordismi' possibili). I partiti comunisti
in Occidente erano, oltre che perseguitati, assottigliati,
divisi ed eterodiretti; l'Unione Sovietica isolata, minacciata
dall'aggressione esterna, lacerata da un conflitto sociale
e politico drammatico. La svolta del VII Congresso dell'Internazionale
non fu semplicemente un adeguamento tattico, ma una specie
di rifondazione, sia pure non pienamente consapevole, nella
cultura e nel radicamento sociale del movimento comunista.
E l'esperienza dei Fronti popolari e dell'unità antifascista,
che esso produsse, non fu solo
- come oggi si tende con qualche disprezzo a definirla
- una convergenza difensiva contro un comune nemico. Né rimase
circoscritta là dove il pericolo fascista incalzava.
Certo, la difesa della libertà minacciata, e per i comunisti
la difesa del `paese dei soviet' ne costituivano la motivazione
più
evidente. Ma a darle un'anima, e una prospettiva, concorreva
la scoperta, o la riscoperta, del nesso forte tra democrazia
politica e questione sociale, tra libere istituzioni, eguaglianza
economica, diritto al lavoro.
La grande crisi economica del mondo capitalistico avanzato e i
suoi effetti non meno aspri nella periferia coloniale, i primi
indiscussi successi dei piani quinquennali in Urss, la Repubblica
spagnola e le conquiste sociali in Francia e il New Deal roosveltiano,
animarono quegli anni di straordinaria tensione politica e ideale
non meno della minaccia hitleriana. Questi sconvolgimenti risvegliarono
le capacità innovative del movimento operaio di varie tradizioni,
conquistarono nuove generazioni e produssero una partecipazione
che coinvolse settori importanti dell'intellettualità progressiva:
ne risultò trasformato oltre che lo spirito dell'epoca,
il pensiero politico, economico, scientifico.
I fondamenti e le premesse di quello che più tardi divenne
il `compromesso keynesiano', lo Stato sociale, furono gettati
in quegli anni tragici.
Lo sciocchezzaio pamphlettistico oggi imperante, che ripensa
la storia del `comunismo reale' come una pura illusione, un
gigantesco delirio ideologico, censura proprio questo dato centrale
della storia del secolo: i comunisti sarebbero ridiventati una
setta, il loro ruolo, nel bene e nel male, sarebbe stato marginale,
se non fossero stati di nuovo, dopo l'Ottobre e in piena epoca
staliniana, non il solo ma certo un protagonista decisivo di
quello snodo dal quale venne letteralmente cambiata la faccia
al mondo. E infatti alla fine della guerra vittoriosa si trovarono
presto a governare quasi due miliardi di uomini, a essere l'interlocutore
e alleato naturale del movimento di liberazione nazionale del
Terzo mondo, mentre si avviavano in Occidente - e sarebbero
continuate anche nella stretta della guerra fredda, anche quando
erano al governo forze conservatrici - riforme che portavano
il segno del socialismo (intervento pubblico nell'economia,
tutele sociali, diritti contrattuali sui luoghi di lavoro, partecipazione
organizzata di partiti operai e sindacati alla direzione politica).
E tuttavia la differenza rispetto alle ipotesi rivoluzionarie
degli anni venti, agli anni della `scalata al cielo' non solo
permaneva ma, in un certo senso, diventava ancora più netta
e irreversibile. Fronti popolari e unità antifascista non
avevano impedito la guerra, anzi nell'immediato erano stati sconfitti
nelle loro esperienze più avanzate (Francia, Spagna); la
guerra era stata vinta da un'alleanza in cui era già determinante
il ruolo della maggiore e più dinamica potenza capitalistica,
gli Stati Uniti; dalla guerra gli Stati Uniti erano usciti con
una forza militare, un peso economico, un'egemonia culturale moltiplicate
che consentivano loro di offrire una nuova prospettiva di sviluppo
in Occidente e anche di governare in modo flessibile l'emancipazione
dal vecchio colonialismo in molti paesi della periferia. Nello
stesso tempo, la dinamica politica e ideologica avviata in Urss
dalle repressioni degli anni trenta, accentuatasi proprio nel
corso della guerra con la mobilitazione patriottica e dopo la
guerra, per il prevalere della logica della politica di potenza
e per effetto della nuova pressione americana, rendevano meno
accettabile ai popoli dell'Occidente il modello sovietico e nello
stesso tempo più stretti i margini per l'autonoma ricerca
di `vie democratiche' al socialismo. Non ci fu quindi una `spinta
rivoluzionaria' in Occidente minimamente paragonabile a quella,
pur battuta, del primo dopoguerra: anzi, vi fu un recupero di
potere e di consenso delle forze politiche moderate e delle capacità
espansive del sistema economico capitalistico (i `trenta gloriosi')
sia pure in un quadro di compromesso sociale e di equilibrio bipolare.
L'uno e l'altro aspetto di questo straordinario mutamento non
potevano essere preveduti dai comunisti e dai marxisti degli anni
trenta, Gramsci compreso. Anche chi era andato più avanti
nella elaborazione della strategia dell'unità democratica,
della `democrazia progressiva', chi era persuaso cioè che
la rivoluzione in Occidente avrebbe potuto e dovuto assumere modalità
nuove, più processuali, e approdare a forme nuove del potere,
non dubitava comunque che una nuova guerra mondiale, e la caduta
dei fascismi, avrebbero prodotto, anche nei paesi avanzati, un
movimento di massa a egemonia proletaria, aperto una vera fase
di transizione.
Quando Gramsci, in dissenso con il partito e con l'Internazionale,
all'inizio degli anni trenta, avanzò la parola d'ordine
dell'Assemblea costituente, essa aveva questo significato e conteneva
questa speranza, era cioè pensata nella linea di quello
sviluppo che `Lenin non aveva avuto il tempo di compiere', come
tappa ravvicinata e strumento di una nuova e diversa rottura rivoluzionaria.
Lo stesso Trockij, che pure manteneva una fedeltà ostinata
al modello dell'Ottobre in polemica con la degenerazione burocratica
e l'opportunismo politico dell'Internazionale staliniana, (ma
era ben più geniale e penetrante dei suoi epigoni) riconobbe
senza reticenze poco prima della morte: «Se
a una nuova guerra mondiale non seguirà una rivoluzione vittoriosa
in Occidente e una profonda riforma della società sovietica,
dovremmo ripensare tutto».
Togliatti si venne a trovare dunque in una situazione del tutto
diversa e inattesa, nel bene e nel male: un'espansione del potere
dei comunisti, una dislocazione in avanti della lotta di classe
nel mondo, ma a fronte di un'egemonia non intaccata del capitalismo
in Occidente e anzi, qui, di una nuova fase di `rivoluzione passiva'.
Questo lo spinse, quasi lo costrinse, a contare sul primo elemento
per affrontare in piena autonomia una nuova e lunga fase di `guerra
di posizione', a tentare ciò che Gramsci rimproverava ai
mazziniani di non aver saputo fare nel Risorgimento: capire cioè
le ragioni dei moderati, usare le trasformazioni che essi erano
costretti a operare, ma mettere in campo tutte le proprie forze
per trasformare strada facendo la `rivoluzione passiva' in un
vero processo di trasformazione, nell'affermazione di una nuova
egemonia.
Non c'è dubbio allora che nell'interpretazione del pensiero
di Gramsci suggerita da Togliatti e assimilata dal PCI vi fosse,
oltreché un uso finalizzato, una vera `forzatura': nel
senso di un gradualismo molto più accentuato, di un'attenuazione
dello `spirito di scissione' e della radicalità anticapitalistica,
di uno spostamento di attenzione al terreno politico-parlamentare
rispetto a quello politico-sociale. Ce ne forniscono la misura,
proprio in quel periodo, la esibita propensione di Togliatti,
ben lontana dall'insofferenza gramsciana, per la tradizione culturale
e le figure politiche moderate e riformiste della storia italiana
(Croce, Giolitti), e insieme le sue forti riserve verso le vecchie
e nuove correnti del radicalismo sia democratico-borghese sia
cattolico, che dal piano politico (il Partito d'Azione, il dossettismo)
e culturale (le avanguardie artistiche e filosofiche, il marxismo
occidentale di sinistra) si spingeva fino al terreno del gusto
e del costume. Così come, nell'azione e nella pratica del
`partito nuovo' colpisce il carattere prudente e disperso dei
programmi di riforma economica e istituzionale (a parte i fondamenti
della Costituzione).
Ma non c'è dubbio, altrettanto, che tale `forzatura' era
il portato e il riflesso dei vincoli opposti da una situazione
storica determinata, di una novità intervenuta nelle cose
e per una certa fase apparsa non modificabile.
Non a caso dunque essa produsse in quella fase risultati fecondi.
Diede radici profonde e popolari alla democrazia in un paese
nel quale la classe dominante non aveva saputo né voluto
costruirla e le classi proletarie, che ne erano rimaste sempre
escluse, vi reagivano con l'apatia o con il sovversivismo. Fece,
per tutta un'epoca, dell'Italia il paese della partecipazione
politica più
ampia e organizzata, del movimento operaio italiano una forza
non solo combattiva ma culturalmente matura, in certi momenti
egemone, e di tanta intellettualità, fino ad allora trasformista
e codina, una forza di trasformazione democratica e civile.
Quella ispirazione ebbe gran parte nel contribuire alla costruzione
di un partito di massa capace di partecipare in ogni momento
e spesso di dirigere parziali riforme della società e
dello Stato - il potere sindacale, i prodromi dello Stato sociale,
le istituzioni dell'economia mista, il processo di emancipazione
femminile, il meridionalismo - senza smarrire un'autonomia
ideale e un connotato di classe, unendo dentro di sé,
e trasformando, una pluralità di ceti, di tradizioni,
di generazioni. Garantì a questo partito un certo
grado di autonomia, via via crescente, rispetto al `paese
guida', senza separarlo da un movimento mondiale ancora espansivo
e anzi permettendogli di assumervi una funzione di stimolo
per esperienze critiche e innovative anche in molti altri
paesi. Permise infine, ma non per ultimo, di sperimentare
una forma organizzativa, ancora retta dai princìpi
del centralismo democratico ma abbastanza tollerante della
ricerca, della discussione, capace di selezionare i quadri
migliori e non solo i più fedeli, di riconoscere
gradualmente l'autonomia delle organizzazioni di massa.
Non appena il momento più aspro della guerra fredda e
dell'ultimo stalinismo fu superato, tutto ciò raggiunse
la sua forma più matura: il comunismo italiano raccoglieva
quasi naturalmente le forze più avanzate della società italiana,
e appariva aperto a ulteriori sviluppi. Non sarebbe stato così
senza Gramsci e anche senza quella mediazione togliattiana che
ho chiamato `gramscismo'. Qui metteva radici permanenti e di
massa una forza, un'identità, che non era - come
molti oggi dicono e pensano - una `socialdemocrazia di fatto',
senza quasi saperlo, o dirlo, ma neppure una semplice articolazione
del campo sovietico, costretta dalle cose a svolgere una supplenza
democratica in contraddizione con le sue convinzioni profonde
e solo fin quando non si potesse `fare come in Russia'. Parlo
degli anni '60, quando, ormai oltre e senza Togliatti, non solo
il dibattito sul pensiero di Gramsci si approfondì e
si differenziò, ma soprattutto il `gramscismo' fece
la sua prova nella politica concreta, e manifestò più chiaramente
sia le sue pote Non appena il momento più aspro della
guerra fredda e dell'ultimo stalinismo fu superato, tutto
ciò
raggiunse la sua forma più matura: il comunismo italiano
raccoglieva quasi naturalmente le forze più avanzate
della società italiana, e appariva aperto a ulteriori
sviluppi. Non sarebbe stato così senza Gramsci e anche
senza quella mediazione togliattiana che ho chiamato `gramscismo'.
Qui metteva radici permanenti e di massa una forza, un'identità,
che non era - come molti oggi dicono e pensano - una
`socialdemocrazia di fatto', senza quasi saperlo, o dirlo,
ma neppure una semplice articolazione del campo sovietico,
costretta dalle cose a svolgere una supplenza democratica in
contraddizione con le sue convinzioni profonde e solo fin quando
non si potesse `fare come in Russia'. Parlo degli anni '60,
quando, ormai oltre e senza Togliatti, non solo il dibattito
sul pensiero di Gramsci si approfondì
e si differenziò, ma soprattutto il `gramscismo' fece
la sua prova nella politica concreta, e manifestò più
chiaramente sia le sue potenzialità che i suoi limiti
di fronte alla sfida di una società che si modificava,
in una nuova `guerra di movimento' che pareva riaprire degli
spazi.
Su tutto ciò converrà tornare al più presto,
questa volta anche nella veste di osservatori e di protagonisti
diretti, chiamati a scavare con sincerità nella memoria
e a rispondere di ciò che abbiamo potuto o saputo capire
e fare. |