Alexander Hobel

Significato e limiti del compromesso storico

Relazione al seminario su Enrico Berlinguer organizzato dall'Ars di Napoli - 2002



È noto che nella cultura politica del PCI la storia del Partito è stata sempre letta in termini di rinnovamento nella continuità. Si tratta di un’interpretazione sostanzialmente veritiera. Da questo punto di vista, il “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer è emblematico: nonostante le “discontinuità” (Vacca) che pure presenta, esso per certi versi è il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata.
Essa prende avvio già da Gramsci, che coglie l’importanza per la “rivoluzione italiana” di un “blocco storico” tra la classe operaia settentrionale di orientamento socialista e masse contadine, perlopiù meridionali e cattoliche. Ma è soprattutto con Togliatti - il Togliatti del “Partito nuovo”, dell’unità nazionale antifascista e della “democrazia progressiva” - che la politica delle alleanze trova la sua massima centralità.
Fin dalla Resistenza, Togliatti individua l’importanza di un’azione unitaria tra le forze socialcomuniste e forze cattoliche, rappresentate dalla DC. All’interno di quest’ultima si individua la compresenza di un’ala conservatrice, legata alla “borghesia possidente” e alla parte più retriva della Chiesa cattolica, e un’ala democratica, più radicata nelle masse popolari. Questa concezione della DC come partito “a due facce” rimarrà una costante nella cultura politica del PCI, che si porrà l’obiettivo di favorirne l’ala progressista, evitando così che la DC scivoli a destra, trascinando con sé l’intero quadro politico. L’alleanza tra le tre grandi forze di ispirazione popolare viene così vista come una “necessità storica e politica” (1946), o addirittura come “un aspetto della via italiana al socialismo” (1960).
In altri momenti, Togliatti si rivolgerà direttamente alle masse cattoliche, con gli appelli per la pace e la salvezza del genere umano, nel tentativo di acuire la contraddizione, ormai sempre più evidente, tra il gruppo dirigente conservatore della DC e masse cattoliche potenzialmente progressive. Morto Togliatti, a seguito del Concilio Vaticano II e dell’emergere di un diffuso “dissenso” cattolico, si valuterà anche la possibilità di rompere l’unità politica dei cattolici, ma al tempo stesso si accentuerà il dialogo con la sinistra democristiana, al fine di costruire quella “unità delle forze di sinistra laiche e cattoliche”, che consenta di andare oltre il centrosinistra.

La strategia di Berlinguer nasce su questo retroterra. Ma nasce anche dalla storia italiana (e mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia della tensione. In questo quadro, si collocano le stragi di piazza Fontana, di Gioia Tauro e della questura di Milano, il tentativo golpista di Borghese, l’attivismo del SID nello scongiurare un’evoluzione del quadro politico verso sinistra. Né è senza significato l’intesa tra DC e MSI sull’elezione di Leone a Capo dello Stato (1971). Dall’altra parte, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, la nascita delle Regioni, le grandi lotte operaie. Sul piano internazionale, alla situazione di grave crisi economica si affianca l’ulteriore avanzata dei movimenti di liberazione (Vietnam) e l’emergere di governi progressisti come quello di Allende in Cile.
Quest’ultimo, che si regge su un’unità delle sinistre con appoggio esterno democristiano, è rovesciato nel settembre 1973 dal colpo di Stato di Pinochet, sostenuto dalla CIA e da multinazionali come la ITT. Berlinguer commenta i fatti cileni con tre saggi su Rinascita, nei quali afferma che, in Italia come in Cile, non si può governare col 51%, ossia con un fronte di forze esclusivamente di sinistra; solo il consenso “della grande maggioranza della popolazione”, e dunque una “strategia delle alleanze” che sposti settori consistenti di ceto medio, è possibile scongiurare - o almeno rendere più difficile - colpi di mano autoritari e tragedie come quella cilena. Occorre quindi riprendere il processo di rinnovamento e di unità avviatosi con la Resistenza, attraverso un “compromesso storico” tra le maggiori forze popolari e il perseguimento di una “alternativa democratica” alla direzione del Paese.
Si tratta dunque della riproposizione e dell’aggiornamento della tradizionale politica unitaria del PCI, anche se Berlinguer allarga la sua visione delle alleanze fino a comprendervi i nuovi movimenti e le soggettività sociali, politiche e culturali emergenti. Nella sua proposta, dunque, c’è anche qualcosa di nuovo, che allude fin d’ora a quel “rinnovamento della politica” su cui si soffermerà negli anni ’80. Tuttavia, la DC di Fanfani è un interlocutore ben poco adatto: sulla questione del divorzio, il Segretario democristiano spinge per il referendum abrogativo, alleandosi ancora col MSI e puntando a ricostituire un fronte anticomunista. Ciò che avviene, al contrario, è l’aggregarsi di un ampio comitato di “Cattolici per il NO”, e la vittoria del NO con circa il 60% dei voti.
Due settimane dopo, la strage di piazza della Loggia: un altro segnale inequivocabile delle forze reazionarie. Berlinguer torna a chiedere un mutamento di linea e gruppo dirigente della DC, rilanciando la prospettiva di un governo “di svolta democratica”. La strategia della tensione, intanto, è in pieno sviluppo: in agosto c’è la strage dell’Italicus.
Al XIV congresso (1975), Berlinguer precisa che il compromesso storico è una strategia di ampio respiro, non riducibile alla richiesta di partecipazione comunista al governo; è “un più avanzato terreno di lotta” e “una sfida” alle altre forze democratiche. In sostanza, è una proposta volta a superare la conventio ad excludendum ai danni del PCI. Se la DC si rivela del tutto ostile alla proposta berlingueriana, non di meno lo sono le BR, che nella loro prima risoluzione strategica condannano il compromesso storico senza mezzi termini. Ma soprattutto sono ostili gli Stati Uniti, che con Kissinger ribadiscono il loro veto ad un’eventuale ingresso al governo del PCI, ormai plausibile dopo la grande avanzata elettorale delle Amministrative del ’75.
Nella DC, intanto, il gruppo dirigente è cambiato, e nuovo Segretario è Zaccagnini, più aperto ad un dialogo coi comunisti. Alla vigilia delle elezioni del 1976, Berlinguer rilancia la proposta di “un governo di unità democratica”, una sorta di Große Koalition che comprenda “tutti i partiti democratici e popolari compreso il PCI”, invitando l’elettorato ad indebolire la DC. Quest’ultima, dal canto suo, rispolvera il vecchio anticomunismo, chiamando a raccolta grande capitale e Chiesa. A pochi giorni dal voto, Berlinguer afferma che in Italia si deve costruire “il socialismo nella libertà”, ciò per cui si sente “più sicuro nel blocco occidentale e dunque nell’ambito della NATO” - un’affermazione piuttosto discutibile, che Berlinguer tempera aggiungendo che “di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero nemmeno lasciarci cominciare a farlo [il socialismo], anche nella libertà”.
Le elezioni però si concludono con “due vincitori”: il PCI, che giunge al 34.4%, e la DC, col 38.7%. Per la prima volta un comunista - Ingrao - è eletto presidente della Camera, e al PCI vanno anche le presidenze di varie commissioni parlamentari. Il governo, invece, è un monocolore democristiano guidato da Andreotti, che si regge sulle astensioni di PSI, PSDI, PRI, e su quella - determinante - del PCI: è il governo “della non sfiducia”. Comincia quindi l’esperienza della “solidarietà nazionale”. La DC, in questo modo, cerca di “guadagnar tempo concedendo il meno possibile” (Valentini). Per i comunisti, “è un accordo provvisorio suggerito dalla gravità della situazione” (Fiori).
L’Italia infatti è in balia della crisi economica, a cui il governo cerca di riparare con una serie di pesanti misure antinflazionistiche, che anche il PCI sostiene. Per Berlinguer, tuttavia, la soluzione sta in una politica di austerità, che sia al tempo stesso portatrice di “un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale” e di un mutamento della direzione politica del Paese. Occorre - dice - “un nuovo meccanismo di sviluppo”, basato su lotta gli sprechi, programmazione economica, nuove politiche per scuola, trasporti e sanità, affinché migliori la qualità della vita e si inseriscano nella società “elementi di socialismo”. Al tema dell’austerità, il PCI dedica anche un importante convegno, concluso da Berlinguer, che ricollega la sua proposta di politica economica ad un quadro di rapporti internazionali che non possono più basarsi su quello sfruttamento delle risorse del Terzo mondo che consente l’iper-consumo dei paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, il sostegno del PCI alle misure antinflazionistiche comincia a ingenerare nei settori popolari notevoli perplessità, su cui fanno leva il PSI di Craxi, la UIL, la CISL, cavalcando strumentalmente anche le critiche dei gruppi extraparlamentari.
La rottura tra questi ultimi - e il movimento del ’77 - e la “sinistra storica” è sancita drammaticamente dagli scontri che avvengono tra studenti e servizio d’ordine della CGIL, allorché Lama tenta di tenere un comizio all’interno dell’Università di Roma occupata. Il PCI, dunque, è in difficoltà, in qualche modo “accerchiato”, senza una precisa collocazione, non più all’opposizione ma neanche al governo. Tuttavia - dirà Chiaromonte - la strada era quasi obbligata, cosicché si decide di andare avanti, verificando fino in fondo le possibilità esistenti. Si chiede agli altri partiti un “accordo programmatico”, ma si ottiene solo una mozione comune. Le resistenze istituzionali e politiche al cambiamento costituiscono dunque una sorta di “muro di gomma”.
A questo punto, mentre la situazione sociale si aggrava sempre di più e monta la protesta operaia, il PCI prende le distanze dal governo, che - perso anche l’appoggio del PRI - si dimette. Seguono due mesi - i primi del “terribile 1978” - di convulse trattative, incontri, contatti. Per due volte Berlinguer e Moro si incontrano segretamente. Il Segretario del PCI chiede a Moro di fare opera di mediazione come fece per il centrosinistra, per passare “dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta”; il leader democristiano, infine, accetta di sostenere l’ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Si va quindi all’incontro ufficiale tra i due partiti, ma alla fine la nuova lista dei ministri proposta da Andreotti è molto simile alla precedente, e non si accolgono le novità chieste dai comunisti. Il gruppo dirigente del PCI è incerto sul da farsi, ma il giorno stesso in cui il nuovo governo deve presentarsi alle Camere, Moro viene rapito dalle BR.
Il rapimento e la morte di Moro sono la “pietra tombale” del compromesso storico (Barbagallo). Esso, pur rappresentando “una strategia di transizione” (Vacca), finisce col trovare la sua unica espressione concreta in un’esperienza molto parziale, profondamente segnata dalla drammaticità della situazione. Nei mesi successivi, nonostante l’approvazione di alcune importanti riforme (legge 180, aborto, equo canone, servizio sanitario nazionale), il PCI si rende conto - come dice Amendola - di fare “la guardia a un bidone vuoto”, cosicché all’inizio del ’79 decide “il disimpegno” dalla maggioranza. È la fine della politica di solidarietà nazionale, ma anche un colpo mortale per la strategia del compromesso storico nel suo complesso, nonostante le trattative continuino ancora per tutto l’anno. Nel 1980, infatti, Berlinguer lancia la parola d’ordine dell’alternativa democratica, aprendo una nuova fase in cui i problemi della riforma della politica e della qualità dello sviluppo saranno al centro della sua riflessione.

Sul significato del compromesso storico - e in particolare della “solidarietà nazionale” - ha scritto Gerardo Chiaromonte: “Cercammo di portare al più alto livello di coerenza e concretizzazione la grande svolta avviata, nel 1944, da Togliatti, nel senso di uno sviluppo del PCI da partito di denuncia, di propaganda, di testimonianza, a partito che fa politica, che lotta per avviare a soluzione i problemi delle masse e del paese, a partito di governo. Non potevamo tirarci indietro”. D’altra parte, quella della “solidarietà nazionale” fu “un’esperienza drammatica e alla fine perdente.”
Essa scontò una serie di limiti non secondari: in primo luogo il gruppo dirigente comunista peccò di verticismo e politicismo, nel senso che ridusse quella che era una strategia di portata “storica” - e che richiedeva un forte e costante protagonismo di massa - a una serie di incontri, contatti, trattative, che finirono per sfiancare il PCI e logorarlo proprio sul piano dei rapporti di massa, anche a causa delle eccessive mediazioni cui il Partito si sottopose. In questo, i comunisti - e Berlinguer in particolare - peccarono anche di ingenuità nei confronti della DC, cosa che essi stessi riconosceranno.
È chiaro però che vi sono anche limiti più profondi. La strategia di incontro con le masse cattoliche - così come era stata impostata da Gramsci e Togliatti - implicava comunque un costante esercizio di egemonia (Vacca); al contrario, nell’esperienza della “solidarietà nazionale” è riscontrabile una notevole carenza di egemonia, sul piano politico, ideale, programmatico. Inoltre l’incontro prefigurato da Togliatti è quello con le masse cattoliche: se nell’immediato dopoguerra questo significava tout court fare i conti con la DC, negli anni ’70 - dopo l’emergere del “dissenso cattolico”, le prese di posizione delle ACLI ecc. - la situazione era ben più ricca e complessa. Al contrario, legittimare la DC come unico rappresentante del mondo cattolico, mirando a una transazione con essa, anziché alla conquista diretta - sul piano politico e ideale - della masse cattoliche, costituì un altro pesante limite. Il voto del 1965-76, peraltro, era stato un voto contro la DC: di qui la delusione di molti e il riflusso successivo, abilmente “cavalcato” dal PSI craxiano e dai vari gruppi estremisti.
L’analisi della DC come partito “a più facce” fu inoltre almeno in parte inadeguata: quello democristiano - cosa che pure in vari momenti si era detta - era il partito della conservazione, nonostante la presenza di una sinistra interna - probabilmente sopravvalutata - ed era il partito che difendeva al meglio gli interessi della borghesia, nonostante la base in parte popolare.
Ma accanto a quelli soggettivi, vi furono anche forti limiti oggettivi: i caratteri e la forza del sistema di potere democristiano, il ruolo negativo di PSI, estremisti e BR, le trame dei servizi, le resistenze dello Stato al cambiamento. La stessa morte di Moro tolse alla strategia berlingueriana il suo interlocutore, il che in qualche modo le impedì di esplicarsi completamente.
Infine, il contesto internazionale. Nel mondo diviso in blocchi, la sovranità limitata non esisteva solo in Cecoslovacchia; e non a caso il PCI lottava per il superamento dei blocchi stessi.
Contro questo muro - e quello delle resistenze conservatrici e reazionarie, dell’anticomunismo eversivo - si infranse il compromesso storico, e cioè l’ultima espressione di quella strategia che ha caratterizzato - nel bene e nel male - gran parte della vicenda dei comunisti italiani.