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Angela Davis Dialettica dell'oppressione e della liberazione
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Nella storia del pensiero in occidente, la idea di libertà si è dimostrata
uno dei temi dominanti. Ciò appare legittimo; si è spesso definito
l'uomo partendo dalla sua inalienabile libertà. Tra gli altri paradossi,
la storia della società occidentale testimonia in sommo grado quanto segue:
mentre su un piano filosofico si definiva la libertà nel modo più nobile
e più sublime, la realtà concreta rivelava incessantemente e sotto
le forme più brutali l'assenza di libertà e l'asservimento. La
Grecia antica, come noi sappiamo, ha visto nascere la democrazia, ma tutte le
rivendicazioni della libertà umana, lo sviluppo dell'individuo attraverso
l'esercizio delle libertà civili non faranno mai dimenticare il fatto
che nella polis ateniese la maggioranza del popolo non fosse libera. Le donne
non erano considerate cittadine, e la schiavitù era un'istituzione riconosciuta
ed accettata. La società greca inoltre rimaneva legata ad una certa forma
di razzismo; in effetti la libertà era un diritto esclusivo dei greci;
tutti i non greci erano qualificati come barbari che si ritenevano indegni per
natura - leggi incapaci - di godere dei benefici della libertà.
Con la loro stessa esistenza i neri hanno
messo a nudo le debolezze della libertà, quelle della
sua pratica ma anche quelle della sua formulazione teorica.
In questo contesto come non evocare l'immagine
di Thomas Jefferson e degli altri "padri fondatori" che formularono
i nobili concetti della Costituzione degli Stati Uniti, mentre
i loro schiavi vivevano nella sofferenza? Per non offuscare
la bellezza della Costituzione, tesa a proteggere l'istituzione
della schiavitù, essi usarono l'espressione "persone
addette ad un servizio o ad un lavoro" - eufemismo per il termine "schiavi";
così appariva una categoria atipica di esseri umani,
di persone indegne delle garanzie e dei diritti sanciti dalla
Costituzione. È o non è l'uomo libero? Lo deve
o non lo deve essere? La storia della letteratura nera a mio
avviso permette di comprendere bene la natura della libertà,
la sua estensione e i suoi limiti, meglio di tutti i discorsi
filosofici su questo tema nella storia della società occidentale.
E per varie ragioni. Intanto perché la letteratura nera
degli Stati Uniti e del mondo riflette la coscienza di un popolo
che è stato costretto a non accedere alla dimensione
reale della libertà. Con la loro stessa esistenza i
neri hanno messo a nudo le debolezze della libertà -
quelle della sua pratica ma anche quelle della sua formulazione
teorica. In effetti se la teoria sulla libertà rimane
senza rapporto con la pratica della libertà o piuttosto è contraddetta
dalla realtà, significa che c'è qualcosa di errato
nel concetto stesso - se noi ragioniamo con il metodo dialettico.
Questo corso dunque si organizzerà essenzialmente intorno
all'idea di libertà vista attraverso la creazione letteraria
del popolo nero. Incominciando con La
vita e l'epoca di Frederick
Douglass (1) noi studieremo l'esperienza
della servitù fatta
dallo schiavo stesso e quindi l'esperienza opposta della libertà.
Sarà fondamentale comprendere bene, allora, un cambiamento
sostanziale: il passaggio dal concetto di libertà, principio
statico, al concetto di liberazione, lotta dinamica e attiva
per la libertà. Poi noi studieremo W.E.B. Du Bois, Jean
Toomer, Richard Wright e infine John A. Williams. Con l'occasione,
affronteremo la poesia nei diversi periodi della storia nera
americana e delle analisi teoriche come quelle di Fanon o di
Du Bois (2) (A.B.C.
del Colore). Infine vorrei evocare qualche
opera di scrittore africano, così come la poesia di
Nicolas Guillén, poeta nero cubano, e compararla alle
opere dei neri degli Stati Uniti.
Sottolineo che durante tutto il corso la nozione di libertà sarà l'asse
essenziale intorno al quale si ordineranno gli altri concetti
filosofici. Si affronteranno alcune nozioni metafisiche - identità,
problema della conoscenza di sé, ecc. Le diverse filosofie
della storia che emergeranno dalle opere studiate saranno di
fondamentale importanza.
Un altro problema che affronteremo sarà quello della
morale degli oppressi. Via via che si svilupperà il
tema della libertà nella letteratura nera si affronteranno
un gran numero di argomenti collaterali, attinenti al tema
centrale stesso.
Prima di entrare nel vivo della questione, è necessario
qualche ragguaglio sulla natura delle domande che dovremo porci
nell'approfondire il problema della libertà umana. Innanzi
tutto: la libertà è totalmente soggettiva,
oppure totalmente oggetiva, o rappresenta invece una sintesi
dei due atteggiamenti? Mi spiego: deve vedersi nella libertà una
caratteristica inerente all'uomo; un dato che non esiste che
nell'interiorità dello spirito umano e che si riduce
ad un esperienza interiore? Oppure la libertà viene
ad essere la capacità di muoversi a piacimento, di agire
a proprio talento? La nostra domanda sulla soggettività o
sulla oggettività della libertà può formulasi
così: la libertà consiste nella libertà del
pensiero o nella libertà d'azione? O, ciò che
maggiormente importa, può sussistere l'una forma senza
l'altra?
Tutto ciò ci conduce rapidamente al seguente problema:
esiste una possibilità di libertà all'interno
della schiavitù materiale? Si può dire che lo
schiavo può avere un qualunque tipo di libertà?
Ci torna qui in mente un pensiero - divenuto classico - dell'esistenzialista
francese J. P. Sartre, secondo il quale anche in catene l'uomo
rimane libero per il fatto che gli resta la possibilità di
por fine alla sua condizione di schiavo, al bisogno, con la
morte. In altre parole, la sua libertà si definisce
- in termini restrittivi - come la libertà di scegliere
tra la schiavitù e la morte. Questo rappresenta già un
caso limite. Ma bisogna decidere se adottare o no tale definizione
del concetto di libertà. Senza dubbio ci appare incompatibile
con la nozione di liberazione. Lo schiavo che sceglie la morte,
piuttosto che abolire la sua condizione di asservimento, distrugge
il fondamento stesso della sua libertà, la vita. Il
problema investe un ulteriore aspetto: la decisione di morire
si separa dal suo contesto astratto e si pone alla luce di
una situazione e di un'evoluzione reale se lo schiavo trova
la morte combattendo per una libertà concreta. In
altri termini, la scelta tra la schiavi tu e la morte può significare
due alternative: una tra la schiavitù e il suicidio,
l'altra tra la schiavitù e la liberazione a qualunque
prezzo. La differenza tra queste due alternative è essenziale.
Da una coscienza autentica dell'oppressione nasce la necessità,
chiaramente percepita dal popolo, d'abolire l'oppressione.
Lo schiavo che cerca di avere chiara questa percezione scopre
realmente il senso della libertà. Egli sa cosa significhi
la scomparsa del rapporto schiavo-padrone. In questo senso
la sua conoscenza della libertà va più lontano
di quella del padrone. Perché il padrone si "sente" libero,
e si sente libero in virtù del suo potere sulla vita
degli altri. Egli è libero a spese della libertà di
un altro. Lo schiavo vede la libertà del padrone sotto
la sua vera luce. Egli comprende che la libertà del
padrone è una libertà astratta che impedisce
ad altri esseri di vivere normalmente. Lo schiavo comprende
che si tratta di una falsa concezione di libertà; sotto
questo aspetto egli vede più chiaramente del suo padrone:
si rende conto che il padrone è lo schiavo dei suoi
errori, dei suoi misfatti, delle sue violenze, della sua volontà d'oppressione.
Entriamo ora nel vivo dell'argomento. La prima parte di La
vita e l'epoca di Frederick Douglass, intitolata Vita
di uno schiavo, costituisce - nel senso fisico del termine - un viaggio
dalla schiavitù alla libertà, termine e riflesso
a sua volta di un viaggio dall'una all'altra nel senso filosofico
dell'espressione. I due itinerari non si possono, come vedremo,
concepire separati; essi si determinano reciprocamente.
Il punto di partenza di questo viaggio è la domanda
che si pose Frederick Douglass da bambino: "Perché sono
uno schiavo? Perché alcuni sono schiavi ed altri padroni?".
Avendo rigettato la risposta tradizionale - Dio ha creato i
neri per farne degli schiavi ed i bianchi per fame dei padroni
- la sua attitudine critica solleva un ostacolo essenziale,
tolto il quale nello spirito dello schiavo la libertà diviene
possibile. La storia della civiltà occidentale abbonda
di giustificazioni della schiavitù. Per Platone, come
per Aristotele, alcuni uomini nascevano schiavi ed erano destinati
a non conoscere mai la libertà. Le giustificazioni propriamente
religiose della schiavitù sono poi innumerevoli.
Cerchiamo di sviluppare una definizione filosofica dello schiavo
- già proposta essenzialmente: si tratta di un essere
umano che per varie ragioni si vede rifiutare la libertà.
Ma che cosa rappresenta la libertà se non la essenza
stessa dell'essere umano? O lo schiavo non è più un
uomo o la sua esistenza stessa è una contraddizione.
Possiamo scartare la prima ipotesi, senza tuttavia dimenticare
che l'ideologia dominante rifiutava al nero la qualità di
essere umano. In questa ottica, in cui la natura contraddittoria
della schiavitù non dovrebbe apparire, è manifesta
la volontà di non tener conto del reale: lo schiavo
non è un uomo perché se fosse tale sarebbe certamente
libero.
Nessuno ignora i tentativi deliberati di privare il nero della
sua umanità. Sappiamo che, per mantenere l'istituzione
della schiavitù, si sono tenuti i neri ad un livello
di vita inferiore a quello delle bestie. I bianchi proprietari
di schiavi erano ben decisi di fornire carne e sangue al mito
del nero, sottospecie umana, foggiato da essi di sana pianta
per giustificate i loro atti. Si forma così un circolo
vizioso: il proprietario di schiavi perde coscienza di sé.
Il circolo vizioso non è ancora sparito ma esiste per
il nero una possibilità: la resistenza. Tale possibilità di
libertà per lo schiavo è stata percepita per
la prima volta da Frederick Douglass, vedendo uno schiavo opporsi
al supplizio della frusta: "Se aveva il
coraggio di non curvare la testa davanti al suo sorvegliante,
lo schiavo doveva attendersi una pena immediata e crudele;
tuttavia anche se restava legalmente uno schiavo, diveniva
virtualmente un uomo libero. Voi mi potete far uccidere ma
non mi farete frustare", disse uno schiavo
a Rigby Hopkins. Egli non fu né abbattuto né frustato."
La prima condizione della libertà è l'atto
di resistenza manifesto. In questo atto di resistenza, la libertà esiste
già in forma elementare.
Lentamente, l'idea che lo schiavo si fa della
libertà diviene più concreta. La prima condizione
della libertà è l'atto di resistenza manifesto,
di resistenza fisica, di resistenza con la forza. In questo
atto di resistenza, la libertà esiste già in
forma elementare. Rispondere con la violenza alla violenza,
trascende il semplice fatto fisico; non è solamente
il rifiuto a sottomettersi alla frusta, è il rifiuto
soprattutto di accettare le definizioni del padrone, è una
condanna implicita all'istituzione della schiavitù,
dei suoi criteri, della sua morale - nella scala del microcosmo,
un passo verso la liberazione.
Lo schiavo acquista veramente coscienza che la libertà non
esiste affatto, che essa non è un dato ma il risultato
di una lotta, essa non può esistere che al prezzo di
uno scontro. Il padrone invece percepisce la propria libertà come
inalienabile e quindi come un fatto, non rendendosi conto di
essere allo stesso modo ridotto in schiavitù dal suo
sistema.
Per iniziare a rispondere ad una domanda posta precedentemente
- è possibile per un uomo essere in catene e nello stesso
tempo essere libero? - noi possiamo dire con certezza che la
prospettiva della libertà s'offre allo schiavo quando,
e solo quando, egli rifiuta effettivamente le sue catene. La
prima fase della liberazione consiste nel rifiutare l'immagine
di sé presentata dal padrone, lo stato di fatto presentato
dal padrone, il rifiuto della propria esistenza, il rifiuto
di considerarsi come uno schiavo.
A questo stadio il problema della libertà si identifica
con quello della identità. La condizione servile è alienante: "È contrario
alla natura dividere gli esseri umani in schiavi e padroni,
tali categorie non possono che assumere un carattere preso
in prestito da una struttura controllata, ostinata, rigida." La schiavitù è un'alienazione da uno stato naturale,
una violenza fatta alla natura che deforma sia lo schiavo che
il suo proprietario. L'alienazione è l'assenza d'identità vera;
lo schiavo da parte sua è alienato dalla sua libertà.
Questa non-identità può esistere a diversi livelli.
Può essere inconsapevole - lo schiavo accetta allora
la definizione del padrone, e diventa non-libero, dal momento
che si considera inadatto a godere della libertà.
La non-identità può essere consapevole e vulnerabile
agli assalti della conoscenza. Questa ultima possibilità ci
interessa maggiormente, perché rappresenta una tappa
dell'itinerario verso la libertà.
La forma suprema dell'alienazione umana consiste nell'abbassamento
al livello di oggetto di proprietà. Qualcosa che si
possiede, questa era la definizione dello schiavo. "La
personalità?
Inghiottita nel sentimento sordido della proprietà!
La dignità umana? Abolita, divenuta cosa d'altri! Il
nostro destino doveva essere determinato per tutta la nostra
vita senza che potessimo influire su di esso più di
quanto non influiscano sul loro le vacche o i buoi alla macina."
Trattati come cose, i neri si definivano come oggetti. "Lo
schiavo è un mobile", dice Frederick Douglass. La sua
vita si inscrive nei limiti di questa qualità d'oggetto,
nei limiti della definizione che l'uomo bianco dà dell'uomo
nero. Ridotto a vivere come un mobile lo schiavo percepisce
il mondo all'inverso. Vivendo come se non fosse che un oggetto
egli deve forgiare fa sua umanità all'interno di questi
limiti. "Egli non ha né una scelta né un
fine, inchiodato in un luogo univoco, in questo luogo ed in
nessun altro egli si deve fissare." Lo schiavo è privato di
qualsiasi potere sulle circostanze esteriori della sua vita.
Una donna che viveva nelle piantagioni poteva, dall'oggi al
domani, trovarsi trasportata lontano, separata dai suoi figli
e dal loro padre, dai suoi amici e dalla sua famiglia, senza
la speranza di poterli mai più rivedere. In un simile
viaggio non esisteva alcun sentimento d'avventura, di scoperta
di un mondo sconosciuto. Il viaggio diveniva una discesa all'inferno;
invece di sottrarsi al dominio delle cose, lo schiavo vedeva
accentuarsi allora la disumanizzazione della sua esistenza
esteriore. "Quando qualcuno parte per
luoghi lontani è come
se entrasse da vivo nella tomba, lo si seppellisce con gli
occhi aperti senza che né la sposa né i figli
né gli amici più cari lo possano vedere o sentire."
Frederick Douglass descrive gli ultimi giorni di sua nonna
con uno stile denso di commozione. Questa donna che aveva fedelmente
servito il padrone durante tutta la vita, che aveva avuto due
figli e due nipoti destinati ugualmente al suo servizio, fu
trattata con estremo disprezzo dal nipote del vecchio padrone.
Mandata nei boschi, vi morì in solitudine.
Senza saperlo fu proprio il proprietario di Frederick Douglass
a rivelargli il cammino verso la coscienza della sua alienazione: "Se
uno dà un pollice ad un negro, lui si prenderà tutto
li braccio. L'istruzione guasta anche il migliore dei negri.
Se impara a leggere la Bibbia, non sarà mai più un
buono schiavo. Egli non deve conoscere che la volontà del
suo padrone, e obbedirgli". Nella misura in cui accetta la
volontà del suo padrone come potere assoluto, lo schiavo è totalmente
alienato. Egli non ha più né volontà né desideri,
né essere proprio; la sua essenza, la sua esistenza
stessa, dipendono obbligatoriamente e totalmente dalla volontà del
suo padrone. Che significa ciò? Significa che il bianco
può perpetuare la schiavitù in parte anche
per il consenso dello schiavo, sebbene non si tratti di un
consenso libero, quanto di un consenso strappato con la forza
e la violenza più brutale.
Nelle osservazioni del suo stesso proprietario Frederick Douglass
trova l'arma che gli servirà per combattere la sua alienazione. "Bene,
pensai. Il sapere rende dunque il bambino inadatto alla schiavitù.
Questa proposizione risvegliò in me un'eco istintiva;
avevo allora trovato la strada che conduceva dall'asservimento
alla libertà." Ad un esame attento di queste parole
il tema della resistenza affiora di nuovo. Per Frederick Douglass
la libertà diviene una possibilità concreta all'interno
stesso della schiavitù, quando vede uno schiavo rifiutarsi
di sottostare alla pena della frusta. Tale atto di resistenza
diviene per lui resistenza dello spirito, rifiuto di accettare
la volontà del padrone, desiderio di non giudicare il
mondo attraverso gli occhi altrui.
Alla violenza del padrone lo schiavo oppone la sua, allo stesso
modo Frederick Douglass utilizza il sapere del padrone, dato
che l'istruzione rende l'uomo inadatto alla schiavitù,
e lo rivolge contro di lui.
Egli partirà alla conquista del sapere proprio perché questo
rende l'uomo inadatto a servire. Su tutti i fronti, a tutti
i livelli, il cammino verso la libertà implica resistenza
e rifiuto. L'acquisizione del sapere rende l'alienazione cosciente.
Combattendo la propria ignoranza, opponendosi alla volontà del
padrone, Frederick Douglass comprende che tutti gli uomini
devono essere liberi, approfondisce la sua conoscenza della
schiavitù, considera in tutti i suoi aspetti cosa significhi
essere schiavo, essere l'antitesi vivente della libertà. "Quando
infine seppi leggere, verso l'età di tredici anni, tutte
le nuove conoscenze soprattutto quelle che riguardavano gli
Stati liberi (quelli dell'Unione dove la schiavitù era
stata abolita) aumentavano il peso che gravava sui miei pensieri
nel modo più intollerabile: sono schiavo per la vita.
Non riuscivo a vedere alcun modo con cui porre fine alla mia
servitù. Era una terribile realtà e non saprò mai
esprimere fino, a che punto tale pensiero mi faceva soffrire,
durante la mia giovinezza."
La sua alienazione diviene reale, e si manifesta in piena luce;
Frederick Douglass fa l'esperienza essenziale di come la soggezione
coinvolga simultaneamente l'assenza di libertà materiale
e la ricerca interiore della liberazione. La tensione tra realtà soggettiva
ed oggettiva fornirà lo slancio necessario per la liberazione
totale. Ma prima di raggiungere tale meta è necessario
attraversare una serie di fasi intermedie.
Attraverso un processo interiore lo schiavo Frederick Douglass
supera la sua condizione ed accede alla libertà, alla
consapevolezza della alienazione. La libertà gli appare
concretamente come la negazione della propria condizione -
pur esistendo nell'aria stessa che respira. "La
libertà,
dono inestimabile che ogni uomo possiede alla sua nascita,
si rifletteva in ogni cosa, facendone un difensore di questo
diritto. Io la intendevo in ogni più piccolo rumore,
la intravedevo in ogni oggetto. Mentre prendevo coscienza della
mia miseria, essa non cessava di torturarmi, accrescendo cosi
l'orrore disperato della mia condizione. Non mi era possibile
guardare nulla senza vederla, ascoltare nulla senza sentirla.
Io non invento stati d'animo: sentivo il suo sguardo nelle
stelle, il suo sorriso nel sereno, il suo respiro nel vento,
il suo passo nella tempesta."
La situazione è senza scampo; la scoperta del reale
non conduce né alla felicità, né alla
libertà.
Douglass ha veramente preso coscienza della sua condizione.
Tale coscienza implica il rigetto di questa condizione. La
coscienza dell'alienazione implica il rifiuto assoluto. Ma
la condizione dello schiavo, in sé contraddittoria, è senza
scampo; la scoperta del reale non conduce né alla
felicità né alla libertà vera, conduce
alla sofferenza e all'afflizione, fintanto che lo schiavo
non trova il mezzo concreto di sfuggire all'asservimento.
Frederick Douglass si esprime nel seguente modo, nei riguardi
della moglie del suo padrone: "Ella mi
voleva mantenere nell'ignoranza mentre io ero deciso a conoscere,
anche se la conoscenza non faceva che aumentare la mia miseria".
Lo schiavo del resto non rifiuta soltanto la sua condizione
individuale, la sua miseria non deriva unicamente dalla privazione
della libertà individuale, dalla alienazione individuale.
La presa di coscienza più profonda è il rifiuto
dell'istituzione stessa; e di tutto ciò che l'accompagna. "Era
la schiavitù che odiavo, e non solo i suoi episodi." Noi
intravediamo quello che sarà per Frederick Douglass
il passaggio dalla schiavitù alla libertà,
una volta conquistata la sua personale libertà non gli
sembrerà ancora che lo scopo finale sia stato raggiunto.
Solo l'abolizione totale della istituzione dello schiavismo
farà sparire la sua miseria, la sua afflizione, la sua
alienazione - ed ancora ci saranno dei postumi come oggi sussistono
ancora i germi stessi della schiavitù.
Nel suo cammino verso la libertà, Frederick Douglass
trova nella religione nuove forze e nuove giustificazioni.
La dottrina cristiana fonda, ai suoi occhi, l'uguaglianza di
tutti gli uomini davanti a Dio: se egli esiste è necessario
concludere che i proprietari di schiavi operano contro la volontà di
Dio opprimendo altri esseri umani, ed attirano su loro stessi
la collera divina. Libertà, abolizione della schiavitù,
liberazione, scomparsa dell'alienazione - a tutte queste nozioni
la religione apporta nuove e vitali giustificazioni metafisiche.
La abolizione della schiavitù è voluta da un
essere soprannaturale; lo schiavo Frederick Douglass, che crede
in Dio, deve adempiere la volontà divina cercando di
liberarsi.
Douglass non fu il solo a trarre simili deduzioni dal messaggio
cristiano. Nat Turner deve una parte notevole della sua ispirazione
alla fede cristiana, così come John Brown.
Per la società bianca schiavista il cristianesimo era
stato strumentalizzato a tutt'altri fini. L'evangelizzazione
degli schiavi serviva essenzialmente a fornire giustificazioni
metafisiche della schiavitù, piuttosto che della libertà.
Secondo una classica formula di Karl Marx, la religione è l'oppio
dei popoli. In altre parole la religione insegna agli uomini
a rassegnarsi alla loro situazione attuale in questo mondo,
ad accettare l'oppressione, ad orientare i loro desideri verso
un mondo soprannaturale. Un numero ridotto di sofferenze terrestri
non ha peso in vista della felicità eterna.
Come Marcuse spesso rammenta, si dimentica talvolta il fatto
che Marx ha aggiunto che la religione esprime i desideri utopistici
delle creature oppresse. Ciò significa che i desideri
si proiettano sotto forma di sogni in una sfera che sfugge
al potere umano, come in un reame immaginario. Ma ciò pone
subito un problema: la formulazione di Marx sui desideri utopistici
delle creature oppresse non implica qualcosa d'altro? Riflettiamo.
Con la spinta della religione, le aspirazioni, i bisogni, i
desideri reali si trasformano in sogni utopistici - tanto il
mondo sembra spoglio di ogni speranza, nella prospettiva d'un
popolo oppresso. Ma ciò che è decisivo è che
tali utopie sono sul punto di ritornare alla loro natura originaria
- i bisogni e le aspirazioni reali di questo mondo. Esiste
la possibilità di rivolgere questi desideri utopistici
verso il mondo reale.
Frederick Douglass ha ribaltato il corso di tali aspirazioni;
Nat Turner le ha poste in un mondo reale.
La religione può dunque svolgere un ruolo positivo dato
che è nella sua natura tendere al soddisfacimento dei
bisogni impellenti degli oppressi. (Noi parliamo qui unicamente
del rapporto tra oppressi e religione, senza per ora analizzare
la nozione propria di religione.) La religione può svolgere
un ruolo positivo. È sufficiente dire: cominciamo a
creare questa felicità eterna dell'uomo in questo mondo
reale. Facciamo della storia la nostra eternità.
Perché molti neri, cessando di guardare verso l'aldilà,
non si orientano verso la realtà concreta, verso la
storia? La società bianca schiavista ha sistematicamente
teso a creare una religione particolare, sottomessa ai propri
interessi, e destinata a perpetuare la schiavitù. Ha
utilizzato il cristianesimo per istupidire, imprigionare in
una dottrina, intorpidire.
Nella sua opera L'istituzione particolare, Kenneth Stampp tratta
lungamente del ruolo svolto dalla religione per mettere a punto
metodi che permettessero di paralizzare i neri, di sopprimere
i germi possibili di rivolta. All'inizio ci si è guardati
dall'evangelizzare i neri nel timore di vedere gli schiavi
reclamare la propria libertà. In seguito, secondo le
leggi adottate dalle colonie schiaviste, si fece in modo che
il battesimo non potesse servire ad affrancare automaticamente
i cristiani neri. Stampp mostra perché alla fine le
porte sacre della religione cristiana furono aperte agli schiavi:
"Ricevendo un'istruzione religiosa lo
schiavo apprendeva che la sua servitù svolgeva una funzione divina, che l'insolenza
costituiva una offesa sia al padrone terreno che a Dio. Gli
si inculcava il comandamento biblico sull'obbedienza dovuta
al padrone parlandogli dei castighi promessi agli schiavi disubbidienti
nell'aldilà. Apprendeva cosi che la salvezza eterna
sarebbe stata la ricompensa per i suoi leali servizi e che
nel giudizio finale Dio avrebbe trattato parimenti il povero
ed il ricco, il nero ed il bianco."
Una versione edulcorata del cristianesimo
era stata presentata all'attenzione degli schiavi. Una tale
utilizzazione della religione è stata una delle peggiori
violenze commesse ai danni dell'umanità
Così si presentavano allo schiavo, come l'essenza stessa
del cristianesimo, i passi della Bibbia che valorizzavano l'obbedienza,
l'umiltà, lo spirito di pace, la pazienza. E di contro,
sempre nei sermoni destinati agli schiavi, sparivano i passi
sull'uguaglianza e sulla libertà, quelli che Frederick
Douglass seppe scoprire avendo appreso a leggere da solo, a
differenza di molti altri schiavi. Una versione edulcorata
e travisata del cristianesimo era stata presentata all'attenzione
degli schiavi. Uno schiavo pio, di conseguenza, non picchiava
mai un bianco, per lui il suo padrone aveva sempre ragione,
anche se manifestamente era nell'errore. Una tale utilizzazione
della religione è stata una delle peggiori violenze
commesse ai danni dell'umanità. Fu strumentalizzata
ai fini di inculcare negli uomini il sentimento che essi non
fossero tali e ad abolire ciò che restava del principio
di identità nello schiavo. Ma a lungo andare tali violenze
fallirono lo scopo, come testimoniarono Frederick Douglass,
Gabriel Posser, Denmark Vesey, Nat Turner e tanti altri che
rivolsero il cristianesimo contro gli stessi missionari. L'Antico
testamento era particolarmente utile a quelli che organizzavano
le rivolte - Dio aveva liberato i figli di Israele dalla servitù d'Egitto
- ed essi combattevano per ubbidire alla volontà divina.
Resistere - questa era la lezione della Bibbia.
La reazione di Frederick Douglass alla rivolta di Nat Turner è significativa: "L'insurrezione
di Nat Turner era stata stroncata, ma la paura e il terrore
che essa aveva provocato non erano diminuiti. C'era la minaccia
del colera e io mi ricordo di aver pensato che Dio era adirato
contro i bianchi a causa degli effetti corruttori che aveva
esercitato su di essi la schiavitù e che il suo giudizio
stava per abbattersi su questo paese. Mi era naturalmente impossibile
non nutrire grandi speranze nella causa dell'abolizione: non
la vedevo io favorita dall'Onnipotente e dotata da lui di armi
mortali?"
Per concludere, vorrei ridurre all'essenziale quello che cerco
di esprimere. Sulla strada della libertà, sull'itinerario
verso la liberazione, si trova resistenza ad ogni incrocio:
resistenza spirituale, resistenza fisica, resistenza ad ogni
tentativo, organizzata apposta per sbarrare il cammino. Noi
possiamo, credo, cogliere notevoli insegnamenti dall'esperienza
dello schiavo. Si deve spogliare di ogni prestigio il mito
della docilità e della passività dei neri, e
il mito ancora più mistificante divulgato - sia detto
di passaggio - dai miei manuali di storia (quelli delle scuole
secondarie di Birmingham, Alabama), secondo i quali i neri
preferivano la schiavitù alla libertà. Cominciate
a leggere La vita e l'epoca di Frederick Douglass; penetrate
in questa lettura; noi potremo tentare, la volta prossima,
nuove ricerche su temi filosofici.
Prima di riparlare di Frederick Douglass,
vorrei fare alcune considerazioni sul corso nel suo insieme.
Gli studi sul popolo nero sono stati per lungo tempo completamente
trascurati nelle università. Noi cominciamo solamente ora a colmare
questa lacuna. E dobbiamo risvegliarci, altrimenti la storia
nera, la letteratura nera saranno relegate in una esistenza
vegetativa, inoffensiva e abitudinaria - come oggi, mettiamo,
la storia della rivoluzione americana. Io voglio parlare
di Frederick Douglass come se avesse la stessa importanza
della pretesa scoperta dell'America da parte di Cristoforo
Colombo. La storia e la letteratura non dovrebbero essere
oggetti in un museo di antichità, specialmente quando
esse sono indicative di problemi che continuano ad esistere
oggi. Le ragioni che sottendono l'esigenza di "programmi
di studi neri" sono numerose, ma la più importante è la
necessità di stabilire una continuità tra il
passato e il presente, di scoprire la genesi dei problemi
che continuano a porsi oggi e di scoprire come i nostri antenati
li hanno formulati. Noi possiamo trarre insegnamento dall'esperienza
filosofica dello schiavo come dalla sua esperienza pratica.
Noi possiamo apprendere quali forme di opposizione all'oppressione
hanno avuto successo nella storia e quali metodi hanno invece
fallito. I fallimenti sono di interesse fondamentale, perché noi
non vogliamo essere i responsabili di una ripetizione di
brutalità nella storia. Noi dobbiamo apprendere quali
furono gli errori al fine di non riprodurli.
Dobbiamo accostarci ai problemi di questo corso, non come
a fatti cristallizzati, statici, non avendo essi senso se
non rapportati al passato. Noi parleremo di temi filosofici,
di temi filosofici ricorrenti. La filosofia ha come compito
preciso di rendere generali gli aspetti dell'esperienza e
non solamente per formulare delle generalizzazioni, per scoprire
dei modelli, come credono certi colleghi della materia. La
mia concezione della filosofia si articola nella seguente
accezione: se essa non si riferisce ai problemi umani, non
merita il nome di filosofia. Penso che se Socrate ha enunciato
qualcosa di veramente profondo, lo ha fatto dicendo che la
ragion d'essere della filosofia è di
insegnarci il modo di vivere bene. Nella nostra epoca vivere
bene significa liberarsi dai problemi urgenti della miseria,
dalla necessità economica e conoscitiva, dall'oppressione
dello spirito.
Ora proseguiamo. Durante la precedente conferenza ho tentato
di utilizzare la prima parte di La vita
e l'epoca di Frederick
Douglass come una occasione per delle digressioni sui temi
filosofici caratteristici che noi incontriamo nell'esperienza
dello schiavo. La trasformazione dell'idea di libertà in
quella di lotta per la liberazione attraverso il concetto di
resistenza: questa serie di temi interdipendenti - libertà,
liberazione, resistenza - costituisce il fondamento di questo
corso. All'interno di tale struttura noi abbiamo discusso la
possibilità, la volta scorsa, di essere liberi nei limiti
della schiavitù. Abbiamo determinato come l'esistenza
stessa dello schiavo sia contraddittoria; è un uomo
che non è un uomo, cioè un uomo che non possiede
l'attributo essenziale dell'umanità: la libertà.
La società bianca schiavista lo definisce come un oggetto,
come un animale, come una proprietà. L'alienazione,
prodotta da ciò, si evidenzia come realtà inerente
all'esistenza dello schiavo - deve diventare cosciente per
essere utilizzata a tracciare il cammino verso la liberazione.
Il primo stadio è la presa di coscienza della natura
contraddittoria della propria esistenza e da tale consapevolezza
nasce il rifiuto. Abbiamo visto come la presa di coscienza
diventa la premessa attiva del rifiuto, della resistenza. La
religione può svolgere sia un ruolo positivo che un
ruolo negativo in questa via della conoscenza del sé.
La religione può frenare la liberazione - ed era lo
scopo previsto della conversione dello schiavo - oppure può apportare
una valido aiuto come nel caso della prima conversione di Frederick
Douglass.
Per cominciare, oggi vorrei continuare la discussione sulla
religione. Scopriremo allora che l'interesse e l'entusiasmo
di Douglass per la religione si affievolirono quando comprese
l'ipocrisia che si accompagnava ad essa nei pensieri e nelle
azioni dei proprietari di schiavi. È importante costatare
come la transizione tra l'elevazione spirituale e il disincantamento è preceduta
da un concreto cambiamento fisico nelle condizioni di vita
dello schiavo Douglass. Nel periodo in cui egli manifestava
fervide inclinazioni verso il cristianesimo (che derivarono
dal fatto di avere imparato a leggere) egli visse in condizioni
relativamente confortevoli, ammesso che vi possano essere condizioni
favorevoli nella schiavitù. Il suo allontanamento si
verificò quando fu obbligato a vivere in condizioni
di vera carestia - quando fu venduto al capitano Thomas Auld.
Una esperienza critica si produsse in lui quando osservò la
conversione al cristianesimo del suo padrone, sadico e brutale: "Se
egli è religioso, pensai, emanciperà i suoi schiavi.
Facendo appello alla mia esperienza religiosa e giudicando
il padrone rispetto a ciò che era stato vero per il
mio caso, io non potevo considerarlo profondamente convertito
se non vedevo tali buoni effetti seguire praticamente la sua
conversione di fede."
Queste deduzioni filosofiche formulate da Douglass riguardo
all'essenza del cristianesimo (la concretizzazione del pensiero
cristiano in atti cristiani) saranno confutate dalla condotta
successiva del padrone. Per gli oppressi, per lo schiavo, la
religione determina un effetto positivo: è un rimedio
necessario che aiuta a sopportare le sofferenze e al tempo
stesso determina una rappresentazione capovolta del mondo,
proiezione dei bisogni reali e dei desideri reali in un regno
soprannaturale. La conversione del proprietario di schiavi,
così come appare nella condotta del capitano Auld, è di
natura completamente differente. La religione per lui, è una
semplice ideologia che può sussistere in piena contraddizione
con la sua condotta reale e quotidiana. Egli deve lavorare
incessantemente per mantenere in piedi tale contraddizione,
la sua vita stessa è basata sulla rigida separazione
tra vita reale e vita spirituale. Perché se prende i
precetti del cristianesimo integralmente, se li applica alla
sua vita quotidiana, egli arriva a negare la sua esistenza
in quanto oppressore dell'umanità. Auld formula egli
stesso tutto ciò molto chiaramente dicendo: "Tu
capirai, ragazzo, che sebbene io mi sia disfatto dei miei peccati,
non mi sono disfatto del mio buon senso. Io sorveglierò i
miei schiavi e andrò ugualmente in paradiso."
Almeno ad un livello inconscio egli deve avere una qualche
consapevolezza di questa contraddizione nel suo spirito di
proprietario di schiavi. Ciò è indicato dal fatto
che Auld aggrava lui stesso le sue contraddizioni. Più si
intensifica il suo impegno religioso e più la sua crudeltà infierisce
contro gli schiavi: "Se la religione aveva
qualche effetto su di lui, era di rendere lui più crudele e le sue azioni
più spietate e più detestabili." La dicotomia
tra la sua vita religiosa e la sua vita reale diventa prevedibilmente
sempre più profonda. La sua pratica eccessiva della
religione sembra essere una scusa e un'espiazione per le sofferenze
più acute che infligge ai suoi schiavi. L'ardore e la
lunghezza delle preghiere e degli inni giustificano l'ardore
e la lunghezza della flagellazione, giustificano l'affamamento
puro e semplice degli schiavi.
Che cosa possiamo concludere da questa analisi del rapporto
tra il proprietario di schiavi e la religione? Come io ho esposto
nella prima conferenza, la società occidentale e particolarmente
l'epoca del dominio della borghesia è stata caratterizzata
da un divario tra la teoria e la pratica, particolarmente tra
la teoria della libertà sul piano concettuale e la
mancanza di libertà nel mondo reale.
Il fatto che nelle istituzioni fondamentali del paese sia dichiarato
che tutti gli uomini sono creati uguali e il fatto che l'inuguaglianza
politica non è mai stata estirpata non può essere
considerato come indipendente dall'indifferenza relativa con
la quale padron Auld discute del divario che separa le sue
idee religiose dai suoi precetti quotidiani. I termini con
cui si esprime il proprietario di schiavi ci rivelano la brutalità che è sottesa
non solamente a questa situazione particolare ma a quella della
società in generale. Noi dobbiamo ricorrere agli esempi
estremi per mettere a nudo le significazioni nascoste anche
negli esempi più sottili.
La comprensione di Douglass delle contraddizioni tra le idee
religiose e la condotta del suo padrone lo condusse ad adottare
un atteggiamento critico verso la pertinenza della religione
stessa. "Il capitano Auld poteva pregare.
Io avrei ben voluto pregare; ma nascevano dei dubbi, in parte
perché avevo
dimenticato i mezzi della grazia, ed in parte a causa della
religione ipocrita che prevaleva dappertutto; si svegliò allora
nel mio spirito una sfiducia verso ogni tipo di religione e
la convinzione che i preti erano vani e ingannatori."
La volta scorsa, noi abbiamo citato la maniera con cui Marx
interpreta il ruolo svolto dalla religione nella società.
Io vorrei sottolineare altre osservazioni che concernono la
religione espresse in Per la critica della
filosofia del diritto di Hegel (Introduzione). Io penso che l'analisi marxista della
religione ci aiuta a comprendere lo stato di Frederick Douglass
quando egli inizia ad allontanarsi dalla fede. Cito un passo
di quest'opera:
"La miseria religiosa esprime tanto la
miseria reale quanto la protesta contro questa miseria reale.
La religione è il
gemito dell'oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore,
e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità.
Essa è l'oppio del popolo. [...]
La soppressione della religione in quanto
felicità illusoria
del popolo è il presupposto della sua vera felicità.
La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria
condizione è la necessità di rinunciare a una
condizione che ha bisogno di illusioni."
Douglass fa l'esperienza, che Marx formula teoricamente, nella
dimensione esistenziale. Egli vede attraverso il velo dell'illusione
osservando la condotta piuttosto schizofrenica del suo padrone
verso la religione e la vita quotidiana. Non è privo
di significato il fatto che questa scoperta si palesa, come
ho già indicato, nel momento in cui le sue sofferenze
fisiche diventano praticamente insopportabili. Noi possiamo
dedurne che vedendo con chiarezza l'ipocrisia del suo padrone
egli raggiunge la coscienza del sé, la conoscenza del
suo essere. Il padrone diventa uno specchio della sua passata
evasione nella religione. Vivendo in un relativo conforto egli
aveva il lusso di pensare con categorie metafisiche. Ma ora
diviene necessario che egli affronti la necessità assoluta
di combattere, di distruggere la sua sofferenza. "La
religione - dice Marx - è soltanto
il sole illusorio che si muove attorno all'uomo, fino a che
questi non si muove attorno a se stesso."
Frederick Douglass trova il coraggio di resistere al domatore
di schiavi presso cui viene mandato per essere addomesticato,
fiaccato; domatore di schiavi che è infinitamente più brutale
dei suoi padroni anteriori; egli trova questo coraggio quando
si sente capace di liberarsi della sua fede religiosa. Egli
dice in questa occasione: "Le mie mani
non erano più legate
dalla mia religione."
Così constatiamo che il ruolo della religione - durante
l'epoca della schiavitù non è omogeneo; è estremamente
complesso. La sua funzione passa continuamente da un estremo
all'altro. Una sola formula non è sufficiente. Abbiamo
visto la volta precedente come la religione svolgesse un ruolo
positivo; sveleremo ora i suoi aspetti nocivi, in quanto essa
sopprimerà lo schiavo nella persona del proprietario
di schiavi, fornirà una costrizione interiore e spesso
sarà necessario superarla perché si possa produrre
un capovolgimento reale. I dirigenti religiosi delle rivolte
di schiavi trovarono l'ispirazione nella religione, in essa
trovarono il coraggio. F. Douglass, in questo momento della
sua esistenza, come innumerevoli altri, vede chiaramente la
necessità di eliminare le illusioni al fine di trasformare
il mondo reale, al fine di arrivare al suo completo impegno
nella resistenza all'oppressione.
Sono d'accordo con Marx sulla necessità del trionfo
sulla religione per scoprirne le ragioni d'essere, cioè il
fatto che il gemito dell'essere oppresso, per diventare una
protesta efficace contro l'oppressione, deve essere articolato
e operante in un contesto politico.
Ciò non ostante non nego che in una certa misura la
natura illusoria della religione non possa essere superata
nell'ambito della religione stessa. Ho dato come esempi quelli
di Nat Turner, Denmark Vesey, Gabriel Prosser. Al riguardo,
qualcuno ha attirato la mia attenzione sul fatto che non ho
nominato nessuna donna in questi esempi. Io non sono stata
sufficientemente attenta. Ciò che Harriet Tubman, Sojourner
Truth e numerose altre hanno realizzato non potrà mai
essere sufficientemente considerato.
Vorrei ora terminare la discussione sulla religione che riprenderemo,
può darsi, in un altro momento; esaminando la vita di
Douglass. Vorrei invece continuare a sviluppare la nozione
di alienazione e la maniera in cui lo schiavo fa esperienza
del mondo e della storia. Abbiamo detto che la formulazione
estrema dell'alienazione di uno schiavo è la sua esistenza,
considerata come capitale, denaro, proprietà. Vorrei
avere il tempo di leggere una citazione relativamente lunga
perché mi sembra che essa riassuma nel suo aspetto concreto
la nozione di alienazione.
"Io non sono, pensai, che lo zimbello
di un potere che non tiene alcun conto del mio benessere o
della mia felicità.
Per una legge che io non so comprendere, ma alla quale non
posso né sfuggire né resistere, io sono strappato
senza pietà dal focolare di una tenera nonna e costretto
ad andare nel dominio di un vecchio padrone misterioso; di
nuovo mi si trasporta, di là, presso un padrone a Baltimore
e al momento in cui mi sono formato dei nuovi legami e ho cominciato
a sperare che nessun altro colpo così rude si sarebbe
abbattuto su di me, una discussione tra due fratelli mi costringe
ad essere mandato a St. Michaels; e ora, da questo ultimo posto,
parto a piedi per arrivare alla casa di un altro padrone, dove,
da quanto ho potuto capire, sarò domato come un giovane
animale selvaggio, perché accetti il giogo di una schiavitù amara
per tutta la vita."
Per lo schiavo il mondo appare come una rete ostile di circostanze
in cui si impiglia continuamente a suo completo svantaggio.
La storia è percepita come un fascio di avvenimenti
casuali, di fatti accidentali che molto al di là del
suo potere agiscono in una direzione che è abitualmente
nefasta alla sua vita personale. Una discussione banale tra
due fratelli è sufficiente a rovinare e mutilare la
vita dello schiavo - Frederick è condotto alla piantagione
del suo vero padrone che è infinitamente più sadico
del fratello con il quale aveva vissuto, e ciò in seguito
ad un disaccordo futile.
Ieri uno studente bianco è venuto nel mio Istituto e
ha domandato delucidazioni sullo orientamento del corso. Ha
domandato se intendevo o meno limitarlo alle esperienze filosofiche
dello schiavo, dell'uomo nero nella società o se intendessi
anche parlare delle "persone". A parte il fatto che gli schiavi
e i neri sono persone, io penso a qualcosa di cui voi dovreste
avere coscienza - e ciò non è senza collegamento
con quanto dicevo precedentemente sull'argomento dell'alienazione.
Gli oppressi sono costretti ad attaccarsi ogni giorno a problemi
immediati, problemi che però hanno una formulazione
filosofica e che riguardano tutti gli uomini. A mio avviso,
la maggior parte delle persone che vivono oggi nella società occidentale
sono alienate da sé stesse, e in rapporto alla società.
Fornirne una dimostrazione oggettiva richiede una discussione
lunga e, se voi volete, potremo riprendere il punto in un corso
di discussioni. Ma il punto è che gli schiavi, i
neri, i chicanos e i bianchi oppressi sono più consapevoli
dell'alienazione. Non tanto nella sua formulazione filosofica,
quanto nella sua proiezione quotidiana. Lo schiavo per esempio
fa esperienza di questa alienazione sotto la forma della ostilità continua
che subisce dal suo ambiente quotidiano. Durante l'epoca della
schiavitù penso che era generalmente ammesso che lo
schiavo era asservito e che il bianco era libero, che lo schiavo
era un non-umano o un sub-umano, e che l'uomo bianco era ciò che
di più alto fosse apparso nell'umanità. Consideriamo
di nuovo l'esempio estremo dell'uomo bianco nella società schiavista:
il domatore di schiavi. C'è qualcosa che possiamo chiamare
il concetto di domatore di schiavi e che possiamo definire
seguendo il comportamento reale di Covey, il domatore, appunto,
sotto la cui autorità F. Douglass visse per un anno.
Ora, che cosa possiamo dire del concetto di domatore di schiavi?
La sua esistenza è la condizione sine qua non della
schiavitù, un fatto indispensabile alla perpetuazione
della servitù. Nello stesso tempo, il domatore di schiavi
si trova sull'orlo estremo dell'asservimento, sull'ultima barriera
tra la schiavitù e la liberazione fisica. Egli possiede
la funzione di fiaccare gli schiavi insolenti, coloro che rifiutano
di accettare per loro stessi la definizione che la società vuole
loro imporre. Egli deve rompere, distruggere, fa realtà umana
nello schiavo prima che questi riesca a capovolgere l'equilibrio
del sistema schiavista. Il suo strumento è la violenza.
Egli fa violenza al corpo per spezzare la volontà. Non
solamente l'uso continuato della frusta, ma il lavoro, la fatica,
troppo dura persino per un animale da soma, erano le manifestazioni
di questa violenza: "Io ero frustato,
a colpi di verga o di nerbo di bue ogni settimana. Le ossa
doloranti e la schiena piagata erano miei compagni ad ogni
istante. La sferza così frequentemente
impiegata era considerata da Mr. Covey meno efficace di un
lavoro sfiancante e prolungato quale strumento per spezzare
il mio coraggio. Mi faceva lavorare senza respiro fino al limite
delle forze. Dall'alba alla notte inoltrata ero al lavoro nei
campi o nei boschi."
Uno degli insegnamenti che possiamo apprendere dal metodo dialettico è che
nel processo di funzionamento del mondo l'uomo subisce dei
cambiamenti che sono in rapporto con i suoi stessi atti. Cioè l'uomo
non può compiere un qualsiasi compito nel mondo senza
essere infettato da questo atto. Ora, cosa significa ciò per
Covey, il domatore di schiavi? Il suo compito è di mutilare
l'umanità dello schiavo. La questione che noi dobbiamo
porci è di sapere se può compiere questa funzione
senza mutilare parimenti la sua propria umanità. Noi
dobbiamo dedurre dalla risposta a questa domanda a che punto
sia arrivata l'umanità dell'uomo bianco in generale
nel corso dell'epoca dello schiavismo. Non abbiamo bisogno
di librarci in speculazioni metafisiche inutili per rispondere
a questa domanda. Douglass lo dice chiaramente quando chiama
il domatore di schiavi col suo nome:"Il suo atteggiamento
abituale consisteva nel non avvicinarsi mai in una maniera
aperta, diretta e virile nel luogo ove lavoravano i suoi uomini.
Nessun ladro fu così abile nei suoi stratagemmi
come Covey. Egli scivolava e saltava su fossati e rigagnoli,
si nascondeva dietro tronchi e cespugli e usava tanto l'astuzia
del serpente che io e Bill Smith tra di noi lo chiamavamo solo
col nome di "serpente".
Chi è non umano qui? Chi si abbassa fino al fondo? Oltre
all'immagine biblica del serpente, figurazione del male, l'immagine
del serpente, la sua stessa abitudine di strisciare sul suolo è simbolo
rivelatore. Allo scopo di condurre gli schiavi a 'lavorare,'
il domatore stesso, mentre è costretto a mentire, è inumano
ed è costretto ad essere inumano. Egli rappresenta tutte
le connotazioni del lavoro stesso che sta svolgendo. Potrei
dire che egli ne è più profondamente infettato
dello schiavo stesso perché lo schiavo vede ciò che
accade - si rende conto che esiste un potere esterno che agisce
verso la soppressione dell'esistenza umana fondamentale dello
schiavo.
Egli lo vede, lo percepisce, lo intende in ogni azione del
domatore di schiavi.
Quest'ultimo, invece, non ha coscienza del cambiamento che
sta subendo lui stesso in seguito alle sue azioni sadiche:
"...in Mr. Covey, l'astuzia era naturale.
Tutto ciò che
egli possedeva in fatto di ideologia o di religione lo adattava
a questa tendenza alla ambiguità. Egli non sembrava
aver coscienza di ciò che questa abitudine comportava
di indegno, di basso e di spregevole."
Questa tendenza inconscia all 'annullamento del sé non
si limitava al domatore di schiavi, a coloro che si tenevano
sui confini della schiavitù per mantenerne i confini
stessi. Queste caratteristiche risultano direttamente dal sistema
stesso e potevano essere attribuite ai padroni di schiavi in
generale. Ciò è indicato in questi due passi:
"Per quanto vile e spregevole, tutto ciò è in
armonia con il carattere proprio della vita di un proprietario
di schiavi". Riferendosi al carattere naturale della furbizia
di Mr. Covey e della sua inclinazione alla menzogna, F. Douglass
scrive:
"In lui ciò costituiva un elemento essenziale del
sistema di relazioni tra padrone e schiavo."
Continuiamo a discutere di questa relazione, tra padrone e
schiavo, e dei suoi riflessi sul padrone. Come abbiamo detto,
si crede che il padrone sia libero, che lo schiavo non lo sia,
che sia dipendente. La libertà e l'indipendenza del
padrone se la consideriamo filosoficamente, é un mito. È uno
di quel miti che, come dicevo nella prima conferenza, dobbiamo
smascheare per arrivare alla sostanza reale che ne é stata
l'origine. Come poteva il padrone essere indipendente, dato
che l'istituzione della schiavitù gli forniva la ricchezza,
gli riforniva i mezzi della sua sussistenza? Il padrone dipendeva
dallo schiavo, ne dipendeva per vivere. Nella Fenomenologia
dello spirito, Hegel discute la relazione dialettica che
esiste tra lo schiavo e il padrone. Egli enuncia tra le altre
cose che il padrone, se prende coscienza della sua condizione,
deve rendersi conto che la propria indipendenza è basata
sulla sua dipendenza nei riguardi dello schiavo.
Tale enunciato può sembrare contraddittorio, ma la dialettica è basata
sulla scoperta delle contraddizioni dei fenomeni, contraddizioni
che possono rendere conto della loro esistenza. La realtà è imbevuta
di contraddizioni. Senza tali contraddizioni, non ci sarebbe
dinamica, processo, attività. Non vorrei partire per
una tangente teorica sull'argomento della dialettica, ritorniamo
così allo schiavo ed al padrone e vediamone la relazione
dialettica che esiste nella realtà. L'indipendenza
del padrone è basata, diciamo, sulla dipendenza nei
riguardi dello schiavo. Se lo schiavo non fosse lì a
coltivare la terra, a costruirgli i suoi domini, a servirgli
i pasti, il padrone non sarebbe libero dai bisogni della vita.
Se esso dovesse fare tutte le cose che lo schiavo fa per lui,
sarebbe nello stesso stato di servitù dello schiavo.
Lo schiavo rappresenta la zona-tampone, ed in tale senso lo
schiavo è in un certo qual modo un padrone - egli detiene
un potere sui mezzi di sostentamento del padrone: se egli non
lavora più, se cessa di obbedire agli ordini, il mezzo
che ha il padrone di sopperire ai suoi bisogni viene a mancare.
Così, a questo livello noi possiamo enunciare quanto
segue, sperando che sia chiaro: il padrone è costantemente
sul punto di diventare lo schiavo e lo schiavo possiede il
modo concreto e reale di metterlo in questa posizione, di diventare
lui il padrone.
Io non vorrei che tutto ciò apparisse come un gioco
di parole in campo filosofico. Talvolta leggendo Hegel si ha
l'impressione che l'autore giochi con il nostro pensiero: le
cose sono ciò che sono, ma sono costantemente sul punto
di diventare altro da ciò che sono, sempre sul punto
di diventare la propria contraddizione.
Penso di poter dimostrare la veridicità dell'espressione:
il padrone è costantemente sul punto di diventare lo
schiavo, mentre lo schiavo è sul punto di diventare
il padrone. Consideriamo il punto cruciale della Vita
e l'epoca di F. Douglass. Si trova al capitolo XVII, L'ultima
flagellazione.
F. Douglass arriva all'esperienza straziante di dover lavorare
fino a crollare fisicamente. A quel punto egli è spezzato,
sul piano morale, non ha più volontà. Covey,
rifiutando di accettare la malattia come una scusa valida per
l'astensione dal lavoro, lo batte fino a farlo giacere inerte
al suolo. F. Douglass decide di ritornare dal suo padrone precedente,
ma non trovando nemmeno in lui alcuna comprensione ritorna
sui suoi passi. Fortunatamente è domenica quando arriva
nella casa del domatore, e Covey, per via della sua devozione,
non lo batte - o come Sandy, uno schiavo che ha aiutato F.
Douglass, ci vorrebbe far credere, Covey non lo batte grazie
ad un'erba che gli è stata data. In ogni caso Covey
non riprende il ruolo di domatore prima della fine del giorno
del Signore. Istintivamente, inconsciamente F. Douglass si
difende quando il domatore di schiavi tenta di batterlo.
"Io non so, ma in ogni caso ero deciso
a lottare e, cosa ancora più importante, a lottare duro.
La frenesia del combattimento si era impadronita di me, e mi
ritrovai con le dita fortemente serrate alla gola del tiranno,
incurante delle conseguenze, come se non avessimo potuto essere
uguali davanti alla legge. Avevo dimenticato anche il colore
della pelle."
Quale è la reazione di Covey? Si potrebbe credere che,
dato che dopo tutto è il padrone, ed è bianco,
non avrà fatica ad avere la meglio su di un ragazzo
di sedici anni. Il domatore di schiavi, che aveva la reputazione
di essere capace di addomesticare gli schiavi ribelli di tutta
la regione, trema e chiede aiuto. "Era
terrorizzato, soffiava ed ansimava, sembrava incapace di reagire
con parole o con atti." Egli si rivolge invano ad uno schiavo su cui non ha
autorità, chiedendogli di venirgli in aiuto. Tenta finalmente
di ordinare alla sua schiava personale di vincere Frederick.
Ella si rifiuta ed egli viene ridotto all'impotenza.
Dobbiamo chiederci cosa accade in questo passo.
Covey è certamente abbastanza forte fisicamente per
vincere Frederick. Perché non riesce a venire a capo
di questa resistenza inattesa? Tale atto di resistenza manifesta
mette in crisi la sua propria identità. Egli non è più riconosciuto
come padrone, e lo schiavo non si riconosce più come
tale. I ruoli sono invertiti. Ecco un esempio concreto della
proposizione che ho precedentemente enunciato - il padrone è sempre
sul punto di diventare lo schiavo e lo schiavo è sempre
sul punto di diventare il padrone. Nel passo accade proprio
questo. Covey riconosce implicitamente il fatto che dipende
dallo schiavo non solo in senso materiale, per la produzione
della ricchezza, ma anche per l'affermazione della propria
identità.
Il fatto che si rivolga a tutti gli schiavi presenti, per essere
aiutato a vincere Frederick, indica che egli dipende da questa
affermazione della sua autorità - essi la rifiutano
tutti ed egli si trova abbandonato, nel vuoto, alienato da
se stesso. Ciò ha per effetto di far franare tutta la
forza fisica che gli era necessaria per vincere la battaglia.
Dopo aver chiaramente perso la partita, privato della base
sostanziale per la propria identità ed il proprio ruolo,
egli si sforza di riaffermare la sua autorità con la
seguente affermazione, impotente e falsa: "
Ora,
pezzo di canaglia, va' al lavoro; io non ti avrei frustato
così forte se
tu non mi avessi resistito". La verità era che non mi
aveva battuto affatto. Nella mischia non aveva fatto colare
nemmeno una goccia del mio sangue, io avevo versato il suo."
Covey non tenterà mai più di frustarlo. F. Douglass
descrive questo avvenimento come la svolta decisiva nella sua
vita di schiavo.
La settimana prossima analizzeremo questo
incidente dal punto di vista del cambiamento che si è prodotto
in lui, nello schiavo. Egli non è più il "
cattivo",
la cui natura subisce un cambiamento in seguito agli atti compiuti.
Occupandoci in questa sede della libertà e delle prospettive
della liberazione, tenteremo di farne un'analisi approfondita
nella prossima conferenza.
(1) Frederick Douglass (1817 - 1895), schiavo,
evase nel 1838. Completò la
sua istruzione e partecipò attivamente alla campagna
antischiavista
(2) Frantz Fanon (1925 - 1961), martinicano
(Antille), medico, teorico della liberazione contro il colonialismo
e autore (1961) de I dannati della terra.
W.E.B. Dubois, studioso afroamericano e
attivista politico, fu la persona che rese il termine panafricanismo
popolare, convocando nel 1919 il
primo di cinque Congressi panafricani.