Jack Orlando

Eldridge Cleaver. O l’urgenza della rivoluzione


Lee Lockwood; Conversazione con Eldridge Cleaver. Intervista al leader delle Pantere Nere; Pgreco; milano 2021; 10,00 €;126 pp.

Nel 1969 Eldridge Cleaver, ex bandito, ex galeotto, ex giornalista e ministro delle informazioni del Black Panther Party, è in esilio ad Algeri.
La repressione statale di quella stagione costringe tanti tra leader e militanti alla scelta tra galera (o morte) ed esilio. Poco dopo di lui, è toccato alla comunista Angela Davis, cui oggi si tributano le copertine di riviste liberal patinate, come prima toccò al meno celebre Robert Williams, reo di predicare e praticare l’autodifesa armata contro le bande del KKK.
Dopo una parentesi cubana, è l’Algeria rivoluzionaria a fare da cornice all’intervista con il giornalista Lee Lockwood, dove si ripercorrono le fasi salienti della formazione dell’uomo che, dopo Huey Newton e Malcolm X, ha più influenzato il BPP ed il pensiero radicale nero.
La biografia di Cleaver è avvincente ma non eccezionale, nel senso di evento fuori dal comune, anzi è un’altra storia paradigmatica di tanti giovani proletari neri del tempo con alle spalle un’infanzia di ribellismo e marginalità, una gioventù divisa tra piccola criminalità e carcere ed un accesso all’età adulta coinciso con la presa di coscienza dentro le patrie galere. È qui che si avvicina ai musulmani neri, al marxismo, alle attività della cellula del partito comunista, sempre qui inizia a scrivere e diventa scrittore di successo con il libro Soul on ice e le corrispondenze per la rivista Ramparts fino all’ingresso nei vertici del Partito delle Pantere Nere.
Una strada battuta da tanti e tante suoi coetanei ma con in più una dose rilevante di carisma, determinazione e capacità politica.
Negli anni in cui è dirigente del BPP, il fondatore Newton è prigioniero politico ed è Cleaver a gestire l’organizzazione, è non solo volto pubblico in marce e comizi, ma ideologo, formatore ed organizzatore. Il partito creato nel 1966 da due soli giovani diventa in pochi anni una forza nazionale proprio mentre è tra le mani di Cleaver, fino alla sua latitanza, ed è probabilmente più a lui che al mitico Newton che finisce per assomigliare.
La carriera di quello che è un idolo per la gioventù ribelle americana dei ‘60 finirà poi in un’involuzione politica e umana drammatica, nulla di strano visto che si inscrive nella tragica parabola delle Pantere che da prima forza rivoluzionaria afroamericana, possibile avanguardia di un movimento rivoluzionario generale, finisce, pressata dalla repressione e dal terrore di Stato, nello scissionismo e nella guerra fratricida, per approdare ad una marginalità assoluta e grottesca.
Ma il Cleaver “algerino” dell’intervista è ancora alle prese con un movimento in forze, ed è nel pieno del suo dinamismo teorico.
Proprio in questa lunga intervista espone in chiaro il suo pensiero: una marxismo eretico, che parte dalla questione razziale per superarla in favore di un pensiero socialista rivoluzionario che fa propri i precedenti storici delle rivoluzioni russa, cinese e cubana pur senza assumerli a modello ideale, che dialoga con le esperienze di lotta anticoloniale che incendiano metà del globo e abbraccia la prospettiva della guerra di liberazione, ma che nemmeno rigetta, pure dentro un convinto ed esplicito anti imperialismo, la tradizione politica e culturale americana.
Difficile dare una collocazione netta ad una tale concezione della rivoluzione e lo stesso Cleaver rifiuta di farsi incasellare: è un socialista, certo, ma è un americano che conosce l’umanità e la storia del suo paese e sa che non è possibile impiantare bello e buono un modello sviluppato in tutt’altro contesto, che ne cerca quindi un’applicazione originale e “localizzata”, un socialismo Yankee-Doodle-Dandy in grado di trasformare gli Stati Uniti anche riprendendo pezzi della loro Storia, mettendo sì all’ordine del giorno l’abolizione della proprietà privata ma rimanendo ancorato alla centralità dell’individuo nell’architettura sociale.
E se suona strano un leader afroamericano, in lotta con il razzismo e l’impero degli USA, riprendere miti patriottici è perché la pelle nera, nel processo di soggettivazione politica è diventata il punto d’osservazione da cui muovere l’offensiva. Semplicemente:

Quello di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti è un Fronte di Liberazione Nordamericano che non sia né un’organizzazione nera né un’organizzazione bianca, né un’organizzazione messicana né un’organizzazione portoricana. Dovrebbe essere solo un organo di collegamento tra le forze rivoluzionarie di tutte le comunità, per consentire a quest’ultime di svolgere la loro attività disciplinatamente ed in maniera coordinata. Chi è un vero rivoluzionario supera tutti questi limiti comunitari e parla a nome di tutta l’umanità […]
Il popolo più oppresso in un dato contesto sociale ha buone probabilità di essere il popolo più rivoluzionario. Nell’area che è la più oppressa è probabile che ci siano più rivendicazioni da fare. Il che significa che in quell’area c’è più gente disperata, ed un bisogno più urgente di soluzioni e una maggiore probabilità che in quell’area si producano dei rivoluzionari ed un’ideologia rivoluzionaria. Noi diciamo che la popolazione nera è la più oppressa d’America e quindi i neri hanno motivi d’agire più validi di altri. Ma non sto dicendo che non ci siano altri oppressi. In realtà l’uomo più oppresso è l’indiano americano. Ma siccome in America ci sono più neri che indiani, sembra che ci sia più da fare nelle aree nere.1

Il punto centrale del discorso è che il soggetto afroamericano si trova in una posizione di combattimento avanzato: sottoposto alla dominazione razziale che ne fa una colonia interna, lo lega agli altri movimenti di liberazione nazionale del sud del mondo; inserito nei circuiti dello sfruttamento capitalista si trova a muoversi nelle stesse contraddizioni di classe della working class, ed essendo presente negli Stati Uniti, capofila del dominio del capitale e dell’imperialismo globale, si trova nella posizione per cui, prendendo il potere, decapiterebbe il più grande ostacolo all’autodeterminazione dell’umanità.
Quello che Cleaver sottolinea è un pensiero profondamente radicato nella contingenza storica. E nella recente riscoperta delle Pantere Nere è fondamentale tenere a mente questo: la contingenza di un mondo in guerra, dove sono concrete e possibili alleanze internazionali non solo con altri movimenti ma con altri Stati che incarnano la possibilità di una costruzione politica e sociale alternativa e nemica al capitalismo imperialista di cui gli USA sono i capofila. Non è un caso che la presidenza algerina riconoscerà al BPP lo status di movimento di liberazione nazionale, ed a Cleaver il ruolo di “ambasciatore” degli afroamericani, dopo aver chiuso i rapporti diplomatici con la Casa Bianca.
È al crocevia di questa esperienza, dove si intrecciano classe, razza, colonia, impero, che emergono le pantere e per comprendere la profondità e l’intelligenza di quell’esperimento bisogna comprendere come fossero figlie di quel contesto; un unicum magari non irripetibile in assoluto ma certamente fuori dai radar dell’oggi.
A voler riprendere i nodi lasciati in sospeso dalle Pantere allora, è bene leggere e analizzare i loro documenti, i pensieri e i discorsi, fuori dalla mitizzazione e dal feticismo, cogliendo in primo luogo i nessi tra strategia e contingenza, tra prassi e teoria, qui sta la vera ricchezza, l’attualità, del BPP, ben più che nei berretti e nelle carabine.
La questione non è la ricerca di un supereroe da adorare e di cui nutrire nostalgia, ma di un precedente che ponga la questione dell’urgenza e della possibilità rivoluzionaria.
Perché, in fondo, come dice lo stesso Cleaver:

Capisci, io le cose le vedo così, come se l’oppressore stesse facendo perdere alla gente un mucchio di tempo. Per me è a questo che si riduce la cosa, perché ci sono altre cose che mi piacerebbe fare. Invece sono gli altri che interferiscono nelle tue faccende, e tu sai che non puoi fare quello che vuoi, perché se non badi a quello che succede intorno a te, puoi statene là seduto sotto un albero, capisci, a leggere delle poesie e a fumarti una sigaretta di marijuana e a parlare alla tua metà, e arrivano due o tre porci e ti portano nella camera a gaso ti sparano addosso o ti rompono la testa. Così devi alzarti da sotto l’albero, ricordando che quello che vuoi fare è tornare sotto quell’albero appena puoi, e allora è meglio tirarsi su e schiarirsi le idee, rimandare il “viaggio” ad un altro momento ed occuparti solo dei porci, e solo dopo potrai dire di tornare a farti i fatti tuoi.2

1 Lee Lockwood; Conversazione con Elridge Cleaver. Intervista al leader delle Pantere Nere; Pgreco; milano 2021; pp. 107-109

2 Ivi pp. 125-126.

 

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