Armi di distruzione di massa

Nel mondo in cui viviamo, sono in circolazione quasi 700 milioni di armi e altri 8 milioni vengono prodotte ogni anno. Ci sono aziende che le fabbricano, intermediari che le mettono in commercio, governi e privati che le acquistano e le vendono, persone che le utilizzano. E in fondo a questa catena, le vittime che ne muoiono, una al minuto. I dati sul traffico incontrollato di armi nel mondo sono sconvolgenti.

Occorre riflettere, innanzitutto, sui nomi degli stati che portano la responsabilità più grave di questa incontrollata proliferazione di armi nel mondo. Quasi il 90% proviene dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito. I paesi in via di sviluppo sono i primi destinatari di questo commercio: circa il 70% del valore di tutte le armi commercializzate al mondo. Dal 1999 al 2003 Usa, Regno Unito e Francia hanno ricavato dalla vendita di armi ad Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina più di quanto hanno destinato in aiuti a queste stesse aree.

Anche l’Italia fa la sua parte: figura al secondo posto dopo gli Usa nella classifica dei paesi esportatori di armi leggere nel mondo ed è al settimo posto per valore complessivo di armi esportate. Nel 2003, ha venduto 1,3 miliardi di euro di armamenti, con un incremento rispetto al 2002 che sfiora il 40%. In un periodo generalmente caratterizzato da una crisi generale dei mercati, un solo settore ha mostrato capacità di performance incredibili: quello delle armi. Sono state esportate verso la Cina armi per 127 milioni di euro: prima ancora che il presidente Ciampi a dicembre si recasse a Pechino e, in nome degli interessi commerciali, annunciasse il vergognoso sostegno dell’Italia all’eliminazione dell’embargo sulle armi alla Cina, il nostro paese già aveva violato quell’embargo e la legislazione italiana.

Sono scandalose anche le cifre sul business delle esportazioni mondiali autorizzate: intorno ai 28 miliardi di dollari ogni anno. Si tratta di risorse che potrebbero essere sufficienti a ridurre la mortalità infantile ed eliminare del tutto l’analfabetismo in Africa, Asia, Medio Oriente ed America Latina; invece vengono utilizzate per sostenere le politiche sbagliate di governi che preferiscono ingigantire il loro debito estero nella corsa agli armamenti, piuttosto che sostenere programmi virtuosi, e spesso meno costosi, di sviluppo economico e lotta alla povertà. Non ci sono dubbi: la proliferazione delle armi acuisce la povertà del mondo. La metà dei paesi spende più soldi per la difesa che per la salute. Il 42% degli stati con il più alto budget destinato alla difesa figurano in fondo alla classifica dell’indice di sviluppo umano.

Ma le statistiche più difficili da raccontare sono quelle che davvero contano. Riguardano le conseguenze finali di questo commercio della morte. Un essere umano ogni minuto, 1.300 ogni giorno, almeno 500.000 all’anno. Le conseguenze, in termini di vittime, sono equiparabili a quelle di due Tsunami ogni anno.

Il traffico di armi colpisce in modo diretto o indiretto soprattutto i più deboli: le donne e i bambini.

Per le donne, la presenza di un’arma tra le mura di casa è un fattore di rischio che aggrava a dismisura la portata della violenza domestica. In Francia e in Sudafrica una donna su tre che rimangono vittime di omicidio è uccisa dal proprio marito con un arma da fuoco; questo rapporto aumenta a due su tre negli Stati Uniti.

Le cifre sui minori accrescono la drammaticità del fenomeno. Non c’è solo l’imbarazzante dato dei 300 mila bambini soldato direttamente coinvolti in un conflitto, ma anche l’alto numero di minori che fa parte di bande criminali nelle tante periferie del mondo. In Brasile, ad esempio, le armi di piccolo calibro sono la prima causa di morte dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni: la gran parte delle pistole che vengono sequestrate giorno dopo giorno dalla polizia brasiliana proviene da una fabbrica italiana. Il nostro Made in Italy può davvero essere sempre un motivo di orgoglio nazionale?

Dalle gang di Rio de Janeiro e Los Angeles, alle guerre civili in Liberia e Indonesia; dalle crisi dei diritti umani in Sudan e Repubblica Democratica del Congo, alla violenza che ormai quasi non fa più notizia in Iraq e in Colombia. Siamo arrivati ad un punto critico: l’impatto della proliferazione incontrollata di armi ha conseguenze che sono diventate inaccettabili in termini di vite spezzate, di inasprimento del livello generale di violenza tra gli stati e all’interno degli stati, di opportunità perse nella lotta alla povertà e alle disuguaglianze su scala globale.

Eppure invertire questa tendenza non è impossibile. In Canada nel 1995 è stata inasprita la legge sul possesso delle armi: nell’arco di 8 anni, il tasso di omicidi contro le donne è sceso del 40%. In Australia, cinque anni dopo la modifica di un’analoga legge, la percentuale si è addirittura dimezzata. Anche a livello internazionale i risultati ottenuti dalla campagna contro le mine antipersona dimostrano che il cambiamento è possibile: il trattato di Ottawa del 1997 non ha ancora portato al definitivo superamento del problema, ma da allora più nessun paese commercia apertamente questo tipo di armi.

"Control Arms" è un ultimatum ai governi, che autorizzano formalmente fino al 90% dei traffici di armi nel mondo. "Control Arms" è un richiamo alla loro responsabilità di disinnescare ora, subito le autentiche armi di distruzione di massa che circolano indisturbate:

  • attraverso un controllo statale più rigoroso sui trasferimenti, la disponibilità e l’uso delle armi, nel rispetto del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario; a partire dall’introduzione in Italia di una legge specifica sugli intermediari di armi e l’adozione di norme più restrittive sull’esportazione di armi leggere;
  • attraverso il rafforzamento dei meccanismi di controllo a livello regionale, a partire dalla revisione del Codice di Condotta europeo sull’esportazione di armamenti;
  • attraverso soprattutto l’adozione di un trattato internazionale sul commercio delle armi entro il 2006.

I principi alla base di questo trattato sono semplici e alla portata dei governi e della comunità internazionale. Intervengono sia sulla domanda che sull’offerta di armi e si propongono di:

  1. impedire il trasferimento di armi che sarebbero utilizzate illegalmente per violare i diritti umani, influenzare negativamente la sicurezza regionale o lo sviluppo sostenibile;
  2. subordinare qualsiasi trasferimento di armi all’autorizzazione di uno stato attraverso un meccanismo di licenze e alla registrazione degli intermediari e dei trasportatori;
  3. interrompere le forniture a quegli stati che sono sotto embargo o non hanno direttamente fornito il loro consenso al trasferimento stesso;
  4. garantire - come avviene per gli alimenti prodotti a partire da OGM o i bagagli negli aeroporti - il funzionamento di un sistema globale di marcatura e tracciabilità di armi e munizioni.


Parliamo di un trattato che ripropone obblighi già presenti nel diritto internazionale: possono sembrare norme minime di buon senso, ma riaffermarle in un testo solenne e vincolante dal punto di vista giuridico può realmente salvare milioni di vite.

Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo hanno deciso di aderire a questa campagna. I governi di paesi come Brasile, Cambogia, Costa Rica, Finlandia, Kenya, Mali, Messico e da ultimo, a febbraio, il Regno Unito, hanno scelto di sostenere questa proposta. Amnesty International auspica che l’Italia faccia subito una scelta analoga.

da http://www.amnesty.it/

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