Nel 1993 era successo con gli americani. Lo choc popolare aveva costretto Bill Clinton a ritirare le truppe. Oggi non è andata così. Gli etiopici hanno arrestato venti maschi somali, rastrellati a caso nel quartiere di Yagshid. Venti uomini vivi in cambio di un cadavere preso a calci dalla folla? Ai mercanti del porto è sembrato che il nemico cedesse. L'errore l'hanno capito l'altra notte. Nel quartier generale dell'esercito governativo è entrata la salma dell'occupante, avvolta in un lenzuolo bianco. Dal carcere sono usciti venti sacchetti di nylon blu, riempiti con i pezzi degli ostaggi, irriconoscibili, mescolati alla rinfusa. È scattata così l'ultima vendetta etiope contro il popolo somalo, scudo per la nuova resa dei conti tribale. Un ordine semplice: consumare una strage senza limiti, decimare la capitale, seminare il terrore e la disperazione in ogni zolla del Paese. Per questo Hawo Ali ora deve nascondersi da tutti. Il 4 novembre è stato il volto dell'insurrezione ispirata dai fondamentalisti, decisi a innescare una rivoluzione nazionalista. Ha fallito. Ora, per tutti, è solo il colpevole del più crudele massacro del Corno d'Africa dall'inizio della guerra civile in Somalia. È un bambino, ma ha capito. Rifiuta la razione di mais. La sua patria è un altoforno in fiamme, il destino ha spento la sua stella. Dieci chilometri a nord, poco sotto lo stadio di Mogadiscio, tocca a Fortun Abdullahi Ali Afrah assistere alla catastrofe. Un proiettile le è esploso negli occhi. Ha sedici anni, nessuno ha il coraggio di portarla in un ospedale. La madre al mattino la depone su una sedia, in mezzo alla strada. Se non può vedere, che almeno senta quello che succede a chi può camminare. La città è un misterioso, imprevedibile, deserto campo di battaglia. Tra le macerie, squarci e spazi aperti dai bombardamenti sono vuoti. Negozi, mercati, scuole, uffici, università e porto sono chiusi. Ciò che resta della popolazione passa il giorno barricato nelle buche scavate sotto il pavimento delle case. Sono quasi tutti maschi, rimasti a difendere le proprietà. Chi deve uscire in cerca di acqua e di cibo, corre ricurvo tra auto bruciate e muri crollati. Cadaveri e feriti vengono lasciati dove cadono. Un'aria spessa, bollente e polverosa, stende su tutto una nebbia affumicata. Negli ultimi giorni non si spara più solo di notte. Civili in fuga dalla Somalia Tra spari e silenzio. Gli insorti combattono in campo aperto. Ore di battaglia intensa cedono a lunghe pause di silenzio. Il terrore dirada gli scontri. Soldati etiopici e squadre fedeli al governo rastrellano però senza sosta, edificio per edificio. Circondano un quartiere e chi è all'interno è perduto. Ufficialmente danno la caccia ai terroristi vicini alle Corti islamiche, in fuga da gennaio. I superstiti raccontano invece un'altra storia. I militari armati dal presidente provvisorio, Abdullahi Yusuf del clan darod, da mesi non vedono un soldo.Il mattatoio. Alla fame, come la gente, aggrediscono e rapinano chi non confessa di sostenere la jihad. Chi ammette è giustiziato sul posto, quindi mutilato. Chi resiste viene decapitato. Membra umane sono state appese in una macelleria, come lezione collettiva. Centinaia le donne stuprate davanti ai parenti. Il primo ministro, Ali Gedi del clan hawiya, è stato costretto a dimettersi e a rifugiarsi in Kenya. La capitale torna nelle mani dei "signori della guerra", dei darod che garantiscono a Yusuf il controllo di porto e aeroporto: mezzo milione di dollari al giorno, in contanti. Sindaco e capo della polizia impongono il loro dazio a chi scappa. Per i bambini sotto i 12 anni la tariffa è doppia. I ribelli, non solo fondamentalisti, si preparano ad una lunga resistenza. Nel quartiere "Mar Nero", attorno al grande mercato e a Wahara Adde, si scavano trincee e cunicoli sotto le macerie. Dopo 14 conferenze di pace, a quasi un anno dall'invasione etiope e dai bombardamenti Usa, giustificati con la necessità di fermare l'avanzata di Al Qaida in Africa, la Somalia precipita in un massacro dominato dall'anarchia. Dieci, cento, mille conflitti Centinaia di conflitti coperti dal marchio globale di una guerra civile che dura da 17 anni: vendette tra clan, tribù e famiglie; lotte di potere tra generali e criminali che hanno spodestato Siad Barre; contese tra le bande che alimentano il più fiorente mercato africano di armi, droga e scorie nucleari; guerra santa dei fondamentalisti islamici, finanziati dal mondo arabo attraverso l'Eritrea; invasione colonialista dell'Etiopia, appoggiata dagli Usa per assicurarsi il controllo di petrolio e uranio; infine Somaliland e Puntland che reclamano indipendenza, l'irredentismo che riesplode nell'Ogaden, la resistenza nazionalista che spinge il nord contro il centro e questo contro il sud. In mezzo al caos, i caschi verdi dell'Unione africana. Avrebbero dovuto essere 8 mila. Meno di duemila ugandesi invecchiano assediati nelle caserme. Sabato notte i ribelli islamisti hanno obbedito all'appello di uno dei loro capi, Abu Mansur. Il quartiere generale di Mogadiscio è stato bombardato. Una capitale devastata attende l'ultimo atto della propria tragedia: l'esplosione degli attentati contro i contingenti stranieri, qui come ad Addis Abeba, o nel resto del Corno d'Africa. Per questo una folla sterminata, che aveva fin qui sopportato povertà e dolore come nessun altro, ora scappa. Vede che la criminalità rapace, l'indifferenza e l'idiozia della comunità internazionale, hanno sostituito il fondamentalismo degli islamisti, rinvigorito dall'intervento degli Usa. Il popolo in fuga non tenta solo di sottrarsi alla morte: non accetta di essere testimone passivo dalla propria autodistruzione, come un cuore sul fondo dell'abisso. Un fiume di scheletri neri, apatici e muti, emerge da quartieri isolati dal mondo. Nella capitale il cibo sta finendo e manca l'acqua potabile. I mercati, con la scusa di tagliare il sostegno popolare alle milizie shabaab, sono stati devastati e chiusi dall'esercito. Donne, bambini e vecchi scappano a piedi. I carretti, trainati da asini, sono colmi di materassi, stracci, pentole. Il racket dei miserabili vende posti su stipati pullmini, schiacciati dalla folla che si arrampica sui tetti. La popolazione si perde tra cammelli, capre, mucche, galline e cani, pure in fuga dalle esplosioni. Lungo i bordi dell'unica pista allagata, che collega Mogadiscio con il Sud, si affittano alberi per ripararsi dalla pioggia torrenziale. Le donne si fermano nelle pozzanghere per riempire di un liquido fangoso taniche gialle barattate con ciotole di riso. Si cucina, ci si lava, con la melma. Per accendere il fuoco i pochi maschi abbattono piante di cinnamomi e cespugli. Nei canali si ammassano le carcasse degli animali morti. Per mangiare si spara a branchi di scimmie grigie che, al tramonto, raggiungono la strada adescate con banane verdi. Bande di ragazzi si appropriano delle buche più profonde, le spianano e vi si stendono davanti. Chiedono cibo ai veicoli che scelgono di passarci sopra. I malati, oltrepassata la piazza K7 (sigla che indica la distanza dal centro di Mogadiscio), si fermano appena possono. Verso Lafole, i pozzi di Elasha e fino ad Afgoy, una distesa compatta di ramaglie, coperte con vestiti consumati e letame, protegge i reduci dagli orrori. Cinquanta, forse centomila ripari pieni di fori.
La malaria in agguato Non si muore solo per l'assenza di cibo, o avvelenati dall'acqua infetta. Fanno strage la malaria, il colera, la tubercolosi e la bilarziosi. Non esistono latrine. Centinaia i feriti da proiettili vaganti, schegge, mine. Makagedi Wasuge è stata centrata alla gola mentre fuggiva con il figlio in abbraccio. Era nato da sei giorni. Lo ha perduto e chiede agli amici di ucciderla. Poche, generiche, le medicine. Nei campi di rifugiati a Lafole, Alabaray e all'Università di Agricoltura, opera un solo medico. Abdulrahman Abdi Haline, ortopedico, distribuisce sedativi a quasi ottantamila persone. Ne ha poche scatole, manda i vecchi a raccogliere certe erbe tra le dune. Ribelli vicini alle Corti islamiche e giovani insorti vengono curati clandestinamente. La massa è corrosa dall'odio contro l'Etiopia e contro "un governo agli ordini di Bush" che non controlla più nemmeno Villa Somalia, la propria sede dopo l'originaria a Baidoa. Fadumo, un anno fa, avrebbe impiccato chi le aveva imposto il velo integrale e chiuso caffè, cinema, radio e discoteche. Da questa mattina è volontaria tra i giacigli degli insorti. Fascia le ferite di chi, nel nome di Allah, le ha sgozzato il padre e un fratello. Tra la capitale e Afgoy la tendopoli misura ormai cinquanta chilometri. Negli ultimi dieci giorni i fuggiti all'inferno di Mogadiscio sono stati oltre 250 mila. Mezzo milione da gennaio, un milione negli ultimi due anni. Un milione di esseri umani che hanno perso tutto, privi di un luogo dove vivere. Da fine ottobre i civili uccisi sono circa 500, duemila i feriti. Quattromila le vittime della guerra nel 2007, oltre 10 mila i feriti. Solo in novembre, ogni giorno, a Mogadiscio sono morti 25 abitanti. Quasi sempre madri con i figli. Si avvicinano ai mercati in cerca di cibo, vengono freddati dai cecchini. Ieri sera è capitato anche a Madina Elmi, famosa come "general". Ai tempi di Aidid era la donna dei "signori della guerra" che taglieggiavano gli innocenti. Pentita, ha dedicato la vita alla pace. È stata colpita alla schiena mentre distribuiva pomodori agli orfani, ammassati poco fuori città. "Se la comunità internazionale non si sbriga - dice Tahlil Mahamud - tra un mese non avremo più sabbia per seppellire i cadaveri". È il capo di 2200 rifugiati, nascosti tra i cespugli che la stagione delle piogge fa rifiorire di giallo in un deserto rosso. Nelle ultime due settimane le 422 famiglie del suo clan hanno ricevuto 5 chili di riso e 10 di mais. I convogli umanitari sono al centro di un fuoco incrociato. L'esercito governativo li blocca per impedire i rifornimenti di cibo agli insorti. I fuggitivi li assaltano per una manciata di farina. I ribelli li rapinano per barattare cibo con armi. Sospesa tra guerra santa, conflitto civile, battaglia tribale e insurrezione patriottica, la Somalia è sconvolta dal compimento della più temuta catastrofe umanitaria del mondo. Il futuro, la prevedibilità degli eventi, si estendono ad un paio di ore. "Non vogliamo il ritorno delle Corti islamiche - dice il vecchio Sheikh Osman Hamsow-Abd vicino alla moschea di Al Idayha, nella capitale - ma i responsabili di questa carneficina se ne devono andare". Nelle ultime ore gli sfollati sono sempre più deboli. Mogadiscio si svuota. Per accorciare la marcia i più vecchi passano dalla spiaggia affacciata sull'oceano indiano. Camminano fino a Merca, cento chilometri a sud. Questa notte tre anziani sono morti sulla riva. I corpi, secchi come conchiglie spezzate, giacciono accanto ad una scuola mobile, allestita sotto una tenda per i figli dei rifugiati. I bambini, accanto, continuano a giocare a pallone prendendo a calci una sfera di alghe. In una capanna, costruita con i carapaci delle testuggini giganti, è riunita la "polizia". Affitta scorte alle organizzazioni non governative che tentano di fronteggiare l'emergenza. Ora stanno concordando le tariffe, come fossero taxi. Ma la polizia, in Somalia, non esiste. Milizie claniche controllano porzioni di territorio. Se cambia la zona, cambia la scorta, composta da poveracci alla fame, in ciabatte, con il kalashnikov in mano. Tutto dipende da chi possiede più armi. Un terrorista delle Corti può finire a spalleggiare un "signore della guerra", passando dai ribelli all'esercito governativo, o viceversa. Si cambia casacca per una cesta di manghi, nessuno ci bada. Al riparo dei gusci di tartaruga i capi attendono l'annuncio del nome del nuovo primo ministro. Sarà un hawiya, Nur Hassan Hussein, della famiglia Abgal. Domani decideranno a chi passa la sicurezza e chi tocca fuggire. "Per parlare di riconciliazione - dice il sultano Moaim Adnan Osman - è necessario che un nuovo governo dialoghi con l'opposizione, coinvolgendo tutti i clan, aprendo ai moderati delle Corti islamiche ed emarginando i fondamentalisti. Gli invasori etiopici, i loro amici della Cia, se ne devono andare, consentendo l'invio delle forze di pace africane delle Nazioni Unite. Solo così, con il sostegno di Unione europea e Lega araba, potremo arrivare al disarmo, all'elezione di istituzioni autorevoli e alla ricostruzione del Paese". Sembra un sogno, tutti lo raccontano come automi, nessuno ci crede. Chiudere i mercati e il porto di Mogadiscio significa scegliere di annientare la propria gente. Sparare sulla folla in fuga vuol dire rendere insuperabile l'odio tra Somalia ed Etiopia, tra mondo islamico e Occidente. Hassan Mursal lo sa. Per questo ieri mattina è partito. Ha un bastone, un camicione bianco e rigido come fosse di calce. Ad Afgoy dice di cercare la famiglia di suo fratello, scomparsa da aprile. Perché è rimasto solo, perché va verso sud, dove pensa di arrivare digiuno e a piedi scalzi, cosa deve annunciare ai nipoti? Non risponde alle domande. Alza le spalle, come andasse di fretta ad un appuntamento. Tutti, qui, capiscono che saranno i loro corpi, la loro carne, a dare infine un senso fisico all'essenza del destino. Dietro ad Hassan inizia a muoversi un popolo. Non sa dove andare: ma forse, scappando in massa dall'orrore, protestando con il sacrificio estremo di se stesso, rifiutandosi di morire, sta trovando la sua strada. Repubblica, novembre 2007
Altissimo il numero degli sfollati a causa degli scontri. Duecentomila persone hanno abbandonato Mogadiscio MOGADISCIO – Antonietta, una delle pochissime donne cristiane di Mogadiscio, piange disperatamente. Ha dovuto lasciare la sua casa semidiroccata nel quartiere Wardigley ed è scappata anche lei verso Afgoi, a una trentina di chilometri dalla capitale, una volta centro agricolo orgoglio della Somalia. Le banane di Afgoi riempivano i banchi dei mercati di tutta Europa. Oggi, dopo 16 anni di guerra civile, la città è solo un ammasso di profughi sventurati. Antonietta si è accampata assieme alle due figlie poco fuori Mogadiscio, in uno dei 50 campi spontanei spuntati lungo la strada. Ha costruito lei stessa una misera capanna di frasche intrecciate. Teme di essere assassinata o, se le va bene, stuprata. «Non ho niente da magiare; l'acqua è inquinata; non ho soldi neanche per scappare. Se entro ad Afgoi mi sbattono nel campo profughi e allora, poiché sono cristiana, nessuno mi darà nulla. Spero che qui passi un camion nell'Onu e mi lasci qualcosa», urla con la voce rotta dalle lacrime. Almeno duecentomila persone sono fuggite da Mogadiscio. Da una decina di giorni fa, per l'ennesima volta, la capitale somala è sconvolta violenti scontri. L'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati (Unhcr) denuncia: «In Somalia gli sfollati sono ormai un milione, su sette milioni di abitanti». Afgoi scoppia, non ci sono le strutture per accogliere chi scappa e gli aiuti non arrivano. I bombardamenti indiscriminati, i conflitti a fuoco e i duelli violentissimi a colpi di cannone e di mortaio scoppiati a Mogadiscio tra soldati etiopici, alleati alle truppe lealiste, e ribelli che si oppongono al Governo Federale di Transizione (ora in Somalia chiamati con il termine arabo muqawamah, cioè resistenza), hanno causato almeno duecento morti. Interi quartieri sono ormai diventati fantasma. Porte e finestre delle poche abitazioni rimaste in piedi sono sbarrate. La paura che sui tetti siano annidati i cecchini spinge l'autista dell'auto noleggiata dal Corriere a correre a più non posso. L'ospedale di Medina è pieno di feriti che accusano gli etiopi di ferocia, anche se qualche intervistato spiega che non è proprio così: «Non so chi mi ha ferito - racconta Abdi con il braccio spappolato da un proiettile – mi sono trovato in mezzo alla battaglia». Gruppi di sfollati si sono accampati sulla strada di Daynile, sobborgo sudoccidentale della città, poco lontano dall'ospedale gestito fino alla settimana scorsa dalla sezione francese di Medici senza Frontiere. «Non hanno acqua né cibo – aveva spiegato Matthew Cleary, il capo progetto poche ore prima di lasciare la struttura che aveva messo in piedi un paio di mesi fa -. Non ci sono lastrine e si rischia un'epidemia di tifo e colera». Matthew avrebbe voluto restare nel suo ospedale, ma l’ordine da Parigi è stato tassativo: «La sicurezza è precaria: dovete rientrare». Corriere della Sera, 20 novembre 2007 |