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Pietro Veronese
Cometa Biko |
Il leader nero brillò una sola notte. Con lui il Sudafrica sarebbe diverso
Non sapremo mai che cosa sarebbe stato il Sudafrica di Bantu Stephen Biko. Quale politica, quale diverso gruppo dirigente, quale altro ruolo avrebbe oggi il suo Paese se a quella stella che brillò nel deserto fosse stato concesso di essere più di una cometa, che attraversa il buio e scompare. Tale fu invece il destino di Steve Biko, nato nel 1946, cacciato nel '72 a causa del suo impegno politico dall'università per non-bianchi (non-Europeans), dove studiava medicina; bandito nel '73; arrestato nel '76; nuovamente imprigionato nel '77 e morto tra le mani dei suoi carcerieri il 12 settembre di quell'anno.
Il mondo sarebbe probabilmente un po' diverso se fosse ancora in vita: tutte le testimonianze che abbiamo su di lui concordano nell'affermare che la sua era una personalità straordinaria, e il suo carisma sapeva affascinare, mobilitare e guidare gli uomini. Di lui si disse che "mangiava la vita a palate" e lasciò, quasi come un testamento, queste chiare parole: "O sei vivo e fiero, o sei morto; e se sei morto, allora che t'importa?"
Dobbiamo pur dirlo in qualche modo: Steve Biko è stato ucciso due volte.
La prima fu nella stanza 619 della questura di Port Elizabeth. Era la stanza "usata dalla sezione che si occupava delle questioni dei neri", come ha detto il capo dei suoi assassini. Il racconto della tortura, agonia e morte di Biko ricorda la passione di Cristo; come Cristo, egli fu crocifisso. Ammanettato a una grata metallica con le braccia e la gambe divaricate, dopo essere stato pestato a morte. Probabilmente a quel punto era già in coma cerebrale. La seconda volta avvenne circa dieci anni dopo ed è ben più difficile da raccontare, perché se ne sa molto poco. Si era allora in pieno stato d'emergenza. L'apartheid agonizzante si aggrappava al potere usando gli ultimi appigli che gli restavano: le forze antisommossa, la polizia segreta, il pugno di ferro. I ghetti erano in rivolta e si combattevano in Sudafrica molte guerre parallele. La maggiore era ovviamente quella tra lo Stato segregazionista e i giovani "compagni" dei ghetti, di cui il mondo era quotidianamente informato.
C'era poi la guerra tra le formazioni legate all'African National Congress (allora si chiamavano United Democratic Front) e il partito etnico degli zulu, l'Inkhata. Questo secondo conflitto, molto meno illustrato dai media, riguardava soprattutto la provincia del Natal. La propaganda di regime cercava di presentarlo come un conflitto etnico, che preannunciava quel che sarebbe accaduto in Sudafrica se mai un giorno i neri avessero preso il potere. Oggi sappiamo che le cose non stavano affatto, o non solo, così. L'Inkhata aveva il sostegno attivo e clandestino dei servizi segreti e delle forze armate sudafricane, era una specie di longa manus del potere, e dietro il suo linguaggio politico moderato, liberista, democratico, era in realtà un'organizzazione militar-tribale alleata del regime razzista. Ci fu infine una guerra segreta, ignorata all'epoca, nascosta ancor oggi. Fu quella tra i militanti dell'African National Congress e i discepoli di Steve Biko, i seguaci del movimento chiamato Black Consciousness. La Black Consciousness era ideologicamente più radicale del "movimento democratico di massa" (altra espressione del tempo) che faceva riferimento al gruppo dirigente dell'Anc, all'epoca ancora clandestino oppure esiliato nel vicino Zambia. Ma naturalmente dava per scontata l'alleanza con gli altri "compagni" contro il regime dell'apartheid. Gli altri però non la pensavano così e mentre lottavano contro le forze antisommossa scatenarono una lotta senza quartiere contro quelli della Black Consciousness per il controllo politico e organizzativo del movimento. Di questa lotta si sono persi all'apparenza ricordi e testimonianze.
L'unico luogo nel quale sembra esserne rimasta traccia visibile è un libro bellissimo scritto da un bianco sudafricano: "Il mio cuore di traditore" (My Traitor's Heart) di Rian Malan. Fu, racconta Malan, una lotta mortale e vincente. Steve Biko è oggi nel pantheon dei martiri politici sudafricani, ma la sua eredità politica è inesistente, a malapena si riescono a ricostruire le sue idee, che furono sparse come cenere al vento nello stesso momento in cui si celebrava la sua memoria.
La meteora Steve Biko apparve nel firmamento dei neri sudafricani in un momento in cui esso era vuoto di stelle. L'apartheid trionfava. I dirigenti storici dell'African National Congress languivano dietro le sbarre di Robben Island. Quelli che erano riusciti a raggiungere l'esilio facevano una vita grama a Lusaka o in qualche altra capitale africana, sussidiati dai sovietici o da qualche altro Paese socialista. I rapporti col Sudafrica erano pressoché inesistenti, l'attività clandestina poca o nulla. Lo strapotente apparato repressivo dello Stato sembrava aver vinto la partita.
Fu allora che si fece avanti Steve Biko. Il suo messaggio era più quello di un predicatore che di un leader politico. Una specie di Martin Luther King sudafricano; ma un Luther King laico e di estrema sinistra. Non dimentichiamo che il movimento della Black Consciousness fu fondato nel 1969, anno di rivolta giovanile in tutto il mondo. Il suo scopo era semplice: restituire ai neri orgoglio, dignità, voglia di alzare il capo e di lottare. "Essere neri", scrisse Biko, "non dipende dalla pigmentazione della pelle. Essere neri è il riflesso di un atteggiamento mentale. La filosofia della Black Consciousness esprime l'orgoglio e la determinazione dei neri. Al cuore di questo modo di pensare c'è la presa di coscienza da parte dei neri che l'arma più potente nelle mani degli oppressori è la mente degli oppressi". Il primo corollario di questo insegnamento è anche il lascito più controverso di Steve Biko.
Egli sosteneva infatti che i neri dovevano spezzare ogni legame associativo con i bianchi, nel lavoro, in politica, in tutti i campi.
Il suo movimento, e questa era la differenza più vistosa con l'African National Congress, era aperto ai soli neri. Seconda conseguenza era il suo disprezzo per i bianchi liberal, coloro che pretendono "di avere l'anima di un nero dentro una pelle bianca. I liberal bianchi hanno sempre preteso di sapere loro che cosa fosse buono per i neri". Terzo punto, infine, la critica di ogni integrazione tra neri e bianchi nel movimento di liberazione: "L'unico risultato di questo tipo di integrazione è che i bianchi non fanno che parlare e i neri non fanno che ascoltare. Non è questa la soluzione: sarebbe come illudersi che lo schiavo possa lavorare di comune accordo con il figlio del padrone a rimuovere tutte le condizioni che hanno portato alla sua schiavitù. No: se prima i neri da soli, con le loro forze, non si saranno liberati del loro complesso di inferiorità, tutto il resto sarà inutile".
Questa parte del Biko-pensiero s'è lasciata dietro un alone di disagio tra i liberal di ieri e di oggi. C'è persino un sospetto di razzismo nelle sue affermazioni. ("Che c'entra il razzismo?", rispondeva Biko sarcastico, "si può essere razzisti solo se si ha il potere di soggiogare. Noi non facciamo che reagire a una situazione nella quale siamo noi le vittime di un sistema razzista. Nessuno si stupisce se i lavoratori non vogliono nel loro sindacato gli esponenti del padronato!").
I pochi sopravvissuti tra i suoi discepoli sono divisi: alcuni sostengono che nell'ultimo periodo della sua vita egli ammorbidì le sue posizioni, altri niente affatto. Persino le due donne della sua vita, la vedova Ntsiki e la sua compagna Mamphela Ramphele, oggi docente universitaria, hanno ricordi opposti. La professoressa Ramphele sostiene che Biko non fu mai "anti-bianchi". A favore della tesi più rassicurante c'è anche la testimonianza del giornalista liberal Donald Woods, che fu suo grande amico. Un'amicizia raccontata nel film di Richard Attenborough Grido di libertà.
Qualunque sia la verità, è innegabile che l'ideologia della Black Consciousness provocò il risveglio della gioventù dei ghetti. Fu in quel clima che insorse Soweto, la più grande città nera del mondo. La rivolta del '76 segna la svolta storica nella lunga marcia dei neri: da allora le cose non si sono più fermate, fino alla vittoria del 1994.
Questo è il vero lascito di un uomo che aveva dalla sua nient'altro che la parola e gli scritti, pubblicati quasi tutti in una rubrica di giornale intitolata I write what I like, scrivo quello che mi pare.
Nulla illustra meglio la distanza, la diversità tra Biko e il gruppo storico dell'African National Congress delle memorie di Nelson Mandela. Provate a guardare nell'indice dei nomi del libro del presidente sudafricano Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli). C'è tutto il Gotha del movimento di liberazione sudafricano; ma Steve Biko non è nominato nemmeno una volta. Certo, Biko divenne adulto, lottò e morì mentre Mandela era rinchiuso a Robben Island e i due non s'incontrarono mai. Ma anche nell'isolamento dell'Alcatraz sudafricana si sapeva bene che cos'era la Black Consciousness: i suoi militanti arrestati e condannati arrivavano anch'essi nel braccio dei politici, dove c'erano i "vecchi" dell'Anc, che avevano trent'anni più di loro. Mandela racconta un aneddoto illuminante. Un giorno va in Direzione, a parlare col maggiore che comandava la prigione. Mentre i due camminano, vedono un ragazzo che non aveva più di diciott'anni il quale, al passare del maggiore, non si alza in piedi né si toglie il cappello che aveva in capo."Prego, si tolga il cappello", fa il maggiore. Silenzio. "Si tolga il cappello!". Allora il ragazzo volge infine lo sguardo e fa: "E perché?". Il maggiore inghiotte e risponde: "È il regolamento". E l'altro: "Perché c'è questo regolamento? A che serve?".
Ecco in che cosa consisteva la Black Consciousness: nel coraggio di rispondere al proprio carceriere, di contestare il regolamento invece di subirlo. Ma la fine dell'aneddoto è ancora più rivelatrice. Il maggiore sospira e allontanandosi conclude: "Mandela, gli parli lei". Naturalmente Nelson prende le parti del nuovo arrivato, però l'episodio ci mostra il leader storico dell'Anc nel ruolo di imbarazzato intermediario tra il potere bianco e la nuova generazione di militanti. È evidente il disagio politico nel quale l'avvento della Black Consciousness gettava la vecchia leadership del movimento. Racconta Mandela che ci furono, dietro le mura del penitenziario, feroci lotte tra Anc, Bc e un terzo movimento, il Pan Africanist Congress.
Oggi la vedova di Biko accusa l'Anc, diventato ormai partito di governo, di ignorare la memoria del marito, omettendo di celebrarne gli anniversari e lasciando nell'abbandono la sua tomba. La via crucis di Steve Biko, dopo l'arresto il 18 agosto del 1977, durò 21 giorni. Con le percosse lo costringevano a stare perennemente in piedi, impedendogli di dormire. Lo interrogavano pestandolo con i pugni e i tubi di gomma o sbattendogli la testa contro il muro. Sperando nell'amnistia, i suoi cinque aguzzini, guidati dal loro capo di allora, il colonnello della Security Police Harold Snyman oggi in pensione, hanno raccontato tutto quello che gli fecero. Hanno detto che durante l'ennesimo interrogatorio Biko divenne furibondo e saltò loro addosso, allora furono costretti a placcarlo come un giocatore di rugby, ciò facendo gli fecero perdere l'equilibrio e cadendo Biko picchiò il capo contro lo spigolo della scrivania. "Poi lo incatenammo alla grata, nel caso al suo risveglio si fosse mostrato di nuovo aggressivo". Ma Biko non si risvegliò più. Spaventati, i poliziotti vollero trasferirlo a Pretoria, 700 chilometri di strada disagiata. Trovarono un medico compiacente il quale certificò che il detenuto poteva benissimo affrontare il trasferimento. Così per tutta una notte il corpo di Biko, seminudo, avvolto in una coperta, viaggiò abbandonato sul pavimento metallico di un cellulare, sbattendo il capo ad ogni buca. Questa fu la sua agonia. Quando le autorità carcerarie ammisero infine che era deceduto, il ministro dell'Interno James Kruger dichiarò tra gli applausi dei delegati al congresso del partito di governo: "La morte di Biko mi lascia freddo". I suoi stupidi assassini non hanno probabilmente ancora capito che, mentre moriva nelle loro mani, Steve Biko stava compiendo il suo capolavoro politico.
Lo aveva spiegato lui stesso in un'intervista pubblicata postuma. "O sei vivo e fiero, o sei morto; e se sei morto, allora che t'importa? Il metodo con il quale muori può essere di per sé un fatto politico. Così, se riesci a superare la paura personale della morte, già sei sulla buona strada. Lo stesso accade sotto interrogatorio. Durante il mio primo arresto il poliziotto mi diceva: "Ti ucciderò". Voleva intimidirmi. E io gli risposi: "Quanto tempo ci impiegherai?". Se mi picchiano, è a mio vantaggio. Lo posso usare. Perciò volevo che continuassero e facessero quello che potevano, così io avrei potuto usarlo. Io ero in posizione di forza, e loro nella posizione più debole. Il mio atteggiamento è: non lasciarli tranquilli mentre cercano di svolgere il loro programma. È una lotta: se hanno deciso di darmi una certa quantità di botte e non di più, la mia idea è costringerli a superare quel punto, in modo che la cosa diventi incontrollabile. Così dissi loro: "Sentite ragazzi, se volete fare le cose a modo vostro dovete legarmi mani e piedi in modo che io non possa reagire. Sappiate che se potrò reagire, lo farò. E temo che finirete per dovermi uccidere anche se non è nelle vostre intenzioni"".
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John Matshikiza
L'eredità di Steve Biko |
Steve Biko stava per compiere 23 anni quando espresse le aspirazioni e gli obiettivi dell'Organizzazione degli studenti sudafricani (Saso) nel suo primo congresso, che si svolse nella "sezione neri" dell'università del Natal, a Durban, nel dicembre del 1969.
Sembrava già consapevole delle pressioni dell'establishment razzista che trovavano esplicita espressione nei media in mano ai bianchi e metteva in evidenza che lui, così come l'organizzazione che presiedeva, non era razzista. La Saso doveva "far crescere il morale degli studenti non bianchi (sic) per aumentare la loro fiducia in se stessi", disse nel discorso. E aggiunse che la Saso aspirava ad "aumentare il grado di contatto non solo tra gli studenti non bianchi, ma anche tra questi e il resto della popolazione studentesca sudafricana, per far accettare gli studenti non bianchi come parte integrante della comunità studentesca sudafricana"
Si poteva pensare che stesse facendo di tutto per rendere chiaro il suo messaggio non razziale. Ma alla fine della sua breve vita, e anche in seguito, Biko è stato etichettato come "razzista nero". L'establishment razzista (e non dimentichiamo che una maggioranza crescente dell'elettorato bianco lo sostenne fino alla fine) aveva messo in piedi un'intera serie di leggi che escludevano i neri dalle istituzioni e dal diritto fondamentale all'istruzione. La dichiarazione di Biko rifletteva questa realtà, ma si spingeva al punto di offrire un ramoscello di ulivo: "Non è troppo tardi per farci salire a bordo e dirigerci insieme verso un mondo di nuove possibilità", diceva. Purtroppo le sue parole si sarebbero rivelate di poca utilità.
Alcuni mesi dopo, nel luglio 1970, fu evidente che Biko riteneva necessario aumentare leggermente la pressione. Attaccò violentemente sia i liberali sia i progressisti bianchi perché volevano condurre il dibattito politico: "I bianchi che parlano e i neri che ascoltano", ecco come Biko descriveva la situazione. "Vogliono rifuggire da ogni forma di 'estremismo'", scrisse, "condannando la 'supremazia bianca' come se fosse cattiva semplicemente come il 'Black Power!'". Il "potere nero", naturalmente, riguardava il conferimento di potere ai neri in un ambiente che glielo toglieva, e non il dominio dei neri. Ma ancora una volta questa cauta espressione della coscienza nera produsse sdegno anziché comprensione in settori troppo importanti della comunità bianca.
Nei suoi scritti Biko si spinse a esplorare perché i sudafricani neri avessero inizialmente accettato una posizione inferiore nella società sudafricana non solo fisicamente ma, soprattutto, psicologicamente, e perché dovessero reinventare il loro pensiero per superare questa condizione. Su questo verteva la sua idea di "coscienza nera". I suoi scritti affrontavano temi che, sia pur riferendosi sempre alla necessità di una liberazione nera, lasciavano aperta la porta a una società pluralistica in Sudafrica: quella che oggi chiamiamo "riconciliazione". La liberazione, diceva Biko, era uno stato della mente, necessario a tutti noi, neri e bianchi, chiunque fossimo.
Nei pochi anni della sua vita Biko fu denigrato sia dalla sinistra legale sia dalla destra conservatrice, così come dalla maggior parte di chi occupava il prudente spazio intermedio. Ma è davvero questo ciò che egli rappresentò? Soprattutto, è davvero questo il modo in cui dovremmo seppellire lo spirito altamente complesso e conflittuale di quel periodo cruciale di lotta, tra la fine degli anni sessanta e la fine degli ottanta, che poi vide l'alba precoce di un trionfo, per così dire, della lotta che tutti noi appoggiavamo?
Biko è una nota a piè di pagina della storia o è un eroe? Tutti sappiamo che è un martire, per il modo in cui fu fatto uccidere per le sue convinzioni. Ma come lo ricorderemo, oggi che possiamo valutarlo per quello che lui e noi davvero abbiamo fatto?
Qual è l'eredità del bantu Stephen Biko? Ci vorrà ancora molto tempo prima di poterlo stabilire con esattezza. Ma una parte di questa eredità è il suo coraggio fisico e intellettuale nel ricordarci che dobbiamo difenderci. E il fatto che dovette ripetere le stesse cose in continuazione, in una società ridotta al silenzio, è una prova della sua resistenza in un compito che sembrava impossibile: smuovere il blocco dell'apartheid.
Ma dovremmo anche chiederci in che modo l'eredità di Steve Biko sia rappresentata oggi in un Sudafrica trasformato. Ricordiamo davvero quello che egli sosteneva e siamo ancora pronti a pagare il prezzo delle libertà che espresse?
Ci si potrebbe chiedere cosa avrebbe fatto Biko del Nuovo Sudafrica se avesse avuto il privilegio di sopravvivere. Ma forse la sua eredità, se ogni tanto ci fermiamo a riflettere, è quella di obbligarci a mettere in discussione le scelte che compiamo nel definire la nostra identità.
Viva Steve!
Internazionale 457, 5 ottobre 2002
«Quando cerco di dormire, di notte, riesco a sognare solo in rosso»
diceva con triste angoscia una canzone di Peter Gabriel del 1980, intitolata “Biko”. La canzone non ci mise molto tempo a diventare un generico inno anti-razzista, nemico di ogni specie di intolleranza. La melodia disperata, le percussioni tradizionali africane - inevitabilmente e tragicamente legate alla schiavitù - introducono immediatamente l’ascoltatore nel clima frastornato di chi è costretto ad assistere ad una violenza inaudita, per un motivo umanamente incomprensibile. Di estrema attualità, quindi. Merito di un artista, quale Peter Gabriel è a tutti gli effetti, o riprovevole colpa di alcuni uomini? La risposta ci preme il petto. Sappiamo solo constatare con apparente rassegnazione, come fa la canzone, che «the man is dead», l’uomo è morto. La memoria è cattiva e la storia poco insegna, basta guardarsi intorno per notare le sciocche divisioni: uomini e donne, bianchi e neri, eterosessuali ed omosessuali, neoliberismo e terzo mondo, cristiani e mussulmani. Sta di fatto che sono ancora in molti e ancora in maggioranza a non volerne più sapere di fischi di bombe, torture gratuite, esecuzioni ingiustificate. E sono sempre quelli che più ne pagano le conseguenze. Ma quando ne scompare uno di loro poco conta: «Potete spegnere una candela, ma non potete spegnere un fuoco.»
Port Elizabeth weather fine
It was business as usual
In police room 619
Oh Biko, Biko, because Biko
Oh Biko, Biko, because Biko
Yihla Moja, Yihla Moja
-The man is dead
When I try to sleep at night
I can only dream in red
The outside world is black and white
With only one colour dead
Oh Biko, Biko, because Biko
Oh Biko, Biko, because Biko
Yihla Moja, Yihla Moja
-The man is dead
You can blow out a candle
But you can't blow out a fire
Once the flames begin to catch
The wind will blow it higher
Oh Biko, Biko, because Biko
Yihla Moja, Yihla Moja
-The man is dead
And the eyes of the world are
watching now
watching now
Potete spegnere una candela
ma non potete spegnere un fuoco,
una volta che le fiamme cominceranno ad attecchire,
Il vento le soffierà più in alto…
Oh Biko, Biko, perché Biko
Yihla Moja, Yihla Moja. L'uomo è morto.
E gli occhi del mondo,
ora, lo stanno guardando ora,
lo stanno guardando |