Bruno Trentin
Giuseppe Di Vittorio e i fatti di Ungheria del 1956
intervento al Convegno "Giuseppe Di Vittorio e i fatti di Ungheria del 1956"
Roma 12.10.2006
Non è la prima volta che mi accade di rievocare la figura di Giuseppe Di Vittorio, e il suo ruolo in un anno - il 1956 - che rappresenta uno spartiacque nella storia del movimento operaio internazionale. Ma parlarne oggi, in modo non rituale o puramente celebrativo, per me significa riaprire una riflessione critica a tutto campo sulla vicenda del PCI e della sinistra italiana nel dopoguerra. Qui mi limito solo a segnalare questa esigenza, che pure avverto da molto tempo.
Non credo di andare fuori tema, dunque, se mi chiedo fino a che punto la sinistra italiana abbia realmente metabolizzato la crisi di una vecchia cultura politica e dei suoi frutti più avvelenati, come la fatale subalternità corporativa delle lotte sociali, il primato del partito, l’impossibilità per il sindacato di esprimersi come soggetto politico. La domanda è giustificata, se si getta uno sguardo sui tormentati avvenimenti degli ultimi quindici anni.
Penso al sovraccarico di dispute astratte che hanno stressato la discussione sulla forma e sul nome del partito: del lavoro, o socialista, o riformista, o democratico. E alle difficoltà, invece, incontrate dalla costruzione di un nuovo soggetto unitario in grado di concorrere alla definizione di uno schieramento federato, in Italia e in Europa, delle forze progressiste.
Penso al modo in cui è stata vissuta quella che chiamo la “fatica del progetto”, spesso vista come una specie di “onere improprio” gravante su una politica identificata - appunto - con il primato dei partiti e l’arte del governo.
A dire il vero, nessuno nega la necessità del progetto. Sono i suoi eventuali obiettivi vincolanti a infastidire quanti concepiscono l’“autonomia del politico” come la prerogativa esclusiva di una classe dirigente che decide pragmaticamente in base agli umori dominanti nella società civile.
Penso, infine, all’imbarazzo che persiste nei confronti di un passato che non andava rimosso o cancellato, ma rivisitato e superato laicamente, almeno prima di dedicarsi con frenesia ai cambi di nome. E prima che si allentassero i legami con quel mondo del lavoro subordinato che è sempre stato la ragion d’essere fondamentale di qualunque forza di sinistra. Un mondo in incessante e radicale trasformazione, certamente, ma non in via di dissolvimento dopo il crollo del comunismo sovietico.
Ecco perché, oggi, ricordo Di Vittorio. Perché, con la sua concezione dell’autonomia del sindacato, del sindacato come soggetto politico, ha saputo indicare una prospettiva riformatrice in cui proposta e iniziativa di massa erano unite da un nesso inscindibile, capace di vagliare la validità e la coerenza di ogni singola scelta politica in un processo democratico che sfuggisse alle insidie del trasformismo, del leaderismo e del consenso passivo verso i “capi”.
L’autocritica seguita alla sconfitta della Fiom alla Fiat nel 1955 ne è una testimonianza limpida. “Anche se la colpa è al 99% del padrone, se c’è un 1% che ci riguarda - disse al Direttivo della CGIL - è su questo che io voglio lavorare”. E quel 1% non era piccola cosa. Si trattava di riappropriarsi dei problemi della condizione operaia anche attraverso nuove forme di democrazia e rappresentanza sindacale.
Questa linea si affermò dopo uno scontro aspro che investì l’insieme del gruppo dirigente della CGIL, incontrando l’opposizione più dura in Lombardia, in alcune zone del Mezzogiorno e nella Fiom nazionale, alla cui direzione subentrarono Agostino Novella e Vittorio Foa. E si affermò nonostante l’ostilità manifesta del gruppo dirigente del PCI, diffidente nei confronti di una svolta che sostanzialmente sconfessava la sua posizione ufficiale. Posizione che attribuiva la sconfitta alla Fiat all’offensiva padronale e alla debolezza delle strutture politiche e sindacali di Torino.
Il dissenso tra Di Vittorio e Togliatti esplose in tutta la sua crudezza con i “fatti di Budapest” del 1956, come pudicamente vengono ancora chiamati. Su quel dissenso e su quei fatti sono stati versati fiumi di inchiostro. Anch’io ho cercato di darne una testimonianza diretta in uno scritto che, insieme a un ampio saggio di Adriano Guerra, è stato pubblicato alcuni anni fa (nel volume Di Vittorio e l’ombra di Stalin). Ne riprendo solo alcuni passaggi.
La posizione critica assunta dalla CGIL nei confronti dei “fatti di Poznan”, dove i lavoratori polacchi in sciopero subirono una brutale repressione poliziesca (giugno 1956). Era la prima clamorosa prova della frattura tra potere e società apertasi nel “socialismo realizzato”. Il PCI e la sinistra italiana tacquero. La Federazione Sindacale Mondiale (FSM) cercò di isolare la CGIL dai sindacati parastatali dei paesi del blocco sovietico. Solo il nuovo sindacato polacco ringraziò Di Vittorio e la CGIL per aver difeso le ragioni della protesta operaia.
La ferma condanna (condivisa sia da Di Vittorio che da Fernando Santi) dell’intervento armato dell’URSS nella capitale ungherese: ”La Segreteria della CGIL di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria…ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari" (documento del 26 ottobre 1956).
L’attacco a Di Vittorio da parte della Direzione del PCI, e l’aggressione faziosa, in particolare, di Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Paolo Bufalini e Mario Alicata. Solo Luigi Longo si distinse per la sua volontà di dialogo. E la figura di Longo va profondamente riconsiderata, contro molte caricature che ne sono state fatte. Penso alla sua analisi lucida e rispettosa dell’esperienza e dell’eredità togliattiana, che però non ne ignorava i limiti e le contraddizioni; ai primi contatti avviati (attraverso Giorgio Napolitano) con la SPD di Willy Brandt; all’apertura di un dialogo con le forze di sinistra che combattevano lo stalinismo (che andrà avanti fino alla partecipazione “autorizzata” - mia e di Rosario Villari - al Convegno internazionale di Venezia sull’opposizione nei paesi dell’est, promosso dal Manifesto nei giorni immediatamente precedenti la cosiddetta “Biennale del dissenso” del novembre 1977. Partecipazione bollata da Armando Cossutta come antisovietica…).
L’attacco alla CGIL (che si sviluppò in tutte le sezioni del PCI), per riprendere il filo del discorso, vide il suo culmine in una lettera di Togliatti, nella quale informava il Comitato centrale del Pcus dell’esistenza nel PCI di “gruppi” che sostenevano l’insurrezione di Budapest. Nella lettera, inoltre, si sottolineava che tali gruppi esigevano che l’intera direzione del partito venisse sostituita, con Di Vittorio nuovo segretario.
Questa denuncia di carattere delatorio (nessun gruppo, come Togliatti sapeva bene, aveva avanzato la candidatura di Di Vittorio alla segreteria del PCI, né Di Vittorio l’avrebbe mai avallata), tendeva evidentemente a delegittimare il leader della CGIL fra i sovietici e, attraverso il loro intervento, nella FSM.
La successiva dichiarazione di Di Vittorio (5 novembre 1956), volta a ridurre l’area del conflitto con Togliatti, ribadì comunque la validità della presa di posizione della segreteria confederale sui fatti d’Ungheria. E riaffermò la natura autonoma e unitaria della CGIL (proprio mentre si profilava una rottura dei rapporti fra PCI e Psi), e il suo diritto a esprimersi - al pari dei partiti - sulla tragedia che incombeva sul movimento comunista.
Bisognerà attendere qualche decennio per l’ammissione di quella tragedia da parte del PCI, prima con un’intervista ad Alessandro Natta di Ugo Baduel su l’Unità (ottobre 1986), e, successivamente con la partecipazione di Piero Fassino ai funerali simbolici di Imre Nagy a Parigi.
La CGIL, in ogni caso, ne tirò tutte le conseguenze. Innanzitutto rompendo con i sindacati di regime ungheresi, poi - constatata l’irriformabilità della FSM - scegliendo la strada dell’autonomia. Una strada che porterà all’avvio di rapporti sistematici con gli esponenti dell’opposizione in diversi paesi dell’orbita sovietica, fino all’aperto sostegno dato a Solidarnosc (movimento pur discutibile e complesso) ben prima del colpo di stato del generale Jaruzelski.
La rottura operata dalla CGIL nel 1956, tuttavia, non fu un fulmine a ciel sereno. Essa maturò dopo un lungo processo d’incubazione, scandito da una serie di altri fatti: le lotte per il Piano del lavoro; il programma di riforme elaborate anche mediante un confronto vivo con settori importanti della cultura economica e sociale italiana; il grande e articolato movimento di massa nelle campagne; gli scioperi alla rovescio per ottenere la costruzione di nuove centrali elettriche nel Sud; il rilancio dell’azione rivendicativa contro le forme più odiose di sfruttamento e di limitazione della libertà sindacale nell’industria del Nord; la battaglia per imporre una politica di riconversione dell’industria bellica. Insomma: un enorme patrimonio programmatico e rivendicativo, che rispecchiava l’autonomia - anche culturale - raggiunta dalla CGIL nel corso degli anni cinquanta. Una tensione progettuale e una capacità di lotta che mettevano oggettivamente in questione il monopolio dei partiti della sinistra non solo sulla politica internazionale, ma anche sulla politica economica e sul grande tema dei diritti individuali.
Penso, ancora, alla lungimiranza di Di Vittorio quando lanciò il grande obiettivo dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Penso al dibattito sul “Piano Vanoni” (concepito come risposta al Piano del lavoro): occasione di un altro attacco del PCI all’approccio critico ma costruttivo della CGIL (Amendola se ne lamentò fortemente sia al C.C. del partito sia in Parlamento), volto sempre alla ricerca di un interlocutore, fuori da una logica di opposizione subalterna. Lo stesso avvenne durante il confronto, duro ma dialogante, con Pietro Campilli, Presidente della Cassa per il Mezzogiorno. Per non parlare delle divergenze sul “Piano Pieraccini”, che aveva tra i suoi ispiratori intellettuali del rango di Giorgio Ruffolo, su cui i deputati sindacalisti della CGIL si astennero, nonostante il voto contrario del PCI. Mentre nel 1970 fu il PCI ad astenersi sullo Statuto dei diritti dei lavoratori, che, su impulso di Giacomo Brodolini e Gino Giugni, sanzionava con una legge dello stato le conquiste dell”autunno caldo”.
Ora, quali sono state le ragioni di fondo - politiche e culturali - alla base di questo rapporto conflittuale tra la CGIL e il PCI, fra un grande leader sindacale come Di Vittorio e un grande leader politico come Togliatti, protagonista della costruzione della democrazia italiana e dell’inclusione - nel suo alveo - delle classi lavoratrici?
Un peso notevole, a mio avviso, lo hanno sicuramente avuto preoccupazioni di natura tattica, per cui ogni presunta “deviazione collaborazionista” della CGIL andava contrastata, in quanto rischiava di incrinare l’assunto secondo cui senza il PCI l’Italia non poteva essere governata.
Ma il motivo essenziale, come già accennato, ha le sue radici in un retroterra ideologico e teorico che risale agli albori del movimento socialista. Sta in quel corpus dottrinario della seconda e terza Internazionale che stabiliva una naturale - e rigida - divisione dei compiti fra sindacato e partito. Fra il sindacato - braccio del movimento sociale, e il partito - avanguardia (dei “colti”) che interpreta i veri bisogni dei lavoratori, anche quando essi non ne hanno piena coscienza (la rude razza pagana che sa soltanto chiedere più soldi e se ne infischia dell’assetto istituzionale dell’impresa, della società e dello stato).
È vero che all’VIII Congresso del PCI la formula del sindacato come “cinghia di trasmissione” del partito fu formalmente bandita. Ma certo non fu bandito il principio del primato del partito nei confronti di un sindacato visto - nella migliore delle ipotesi- come apprendistato della politica, quasi ontologicamente inadatto a rappresentare un interesse generale. E sto parlando di un sindacato, la CGIL, che è stato un caso unico in Europa: una confederazione di categorie e di Camere del lavoro.
Sono questi dogmi che hanno reso i partiti sempre più delle organizzazioni autoreferenziali, e che, attraverso la cosiddetta “delega salariale” al sindacato, li hanno allontanati da un’indagine viva e profonda dei mutamenti della società civile, indispensabile per ogni strategia politica.
Di Vittorio ha il merito storico di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale, che spingeva obiettivamente il sindacalismo confederale in una dimensione politica: le riforme di struttura, le libertà e i diritti del lavoro, l’ampliamento della rappresentanza ai disoccupati e ai sottoccupati.
Sono dunque inaccettabili le vulgate che lo relegano nella cerchia dei capipopolo e dei tribuni dall’oratoria trascinante, o che vedono in lui soltanto il grande bracciante autodidatta, ignorando la sua statura - politica e culturale - di grande riformatore, affermatasi quando il PCI era ancora assai lontano dal percepire l’esperienza catastrofica del “socialismo reale”.
Per un rinnovamento democratico (veramente democratico) delle forze socialiste, allora, occorre anche combattere questa mummificazione della figura di Di Vittorio, e, facendo tesoro della sua lezione, occorre contrastare con fermezza tutte quelle derive culturali che tendono a riproporre una separazione concettuale tra lotta sociale e sedicente “vera politica”.
Questa separazione ha avuto e ha tuttora delle implicazioni rilevanti per la stessa autonomia sindacale, su cui ha pesato, qualche volta drammaticamente, la gerarchia politica e culturale che i partiti hanno sempre teso a esercitare sulle scelte e sulla condotta del sindacato.
Lo testimonia anche una lettura attenta dei giornali di sinistra degli ultimi tre decenni, da cui si evince una vistosa divaricazione fra la cronaca politica e le lotte sociali e del lavoro. Un dato che rispecchia un collegamento fra partiti e società segnato da una forte sottovalutazione degli specifici e mutevoli contenuti del conflitto sociale, e delle implicazioni che essi possono avere sulla configurazione della stessa forma-partito. Si rifletta, in proposito, sulla parabola delle vecchie sezioni di massa, strutture separate dal resto dell’organizzazione del partito operaio, con il compito di seguire indifferentemente sindacato, cooperazione e artigianato.
Senza dimenticare, inoltre, che la pretesa di guidare politicamente (ancorché “in ultima istanza”) le lotte sociali prescindendo dalle loro concrete finalità, e prescindendo dalla forza come dalle forme di rappresentanza del sindacato, è stata utilizzata come un formidabile pretesto dai movimenti extraparlamentari e dai gruppi estremisti per delegittimare il sindacalismo confederale, e tentare di ricacciarlo nel tunnel della disgregazione corporativa e del ribellismo sociale.
Si rifletta, infine, su un paradosso, attestato dalla stessa letteratura sulla storia del movimento operaio italiano: mentre nei paesi anglosassoni e in Francia, dove esiste ancora una robusta tradizione corporativa e un rapporto subordinato del sindacato con la politica, la letteratura sul movimento operaio non conosce, in generale, una scissione fra cultura espressa dai movimenti sociali e politologia delle élites, in Italia, nell’Italia delle cooperative e delle Camere del lavoro, questa scissione è assai marcata.
E così, mentre abbiamo una letteratura sulla storia del movimento sindacale (soprattutto della CGIL) di altissimo livello, abbiamo una letteratura sulla storia dei partiti che ha adottato parametri e spettri di analisi molto diversi, che hanno fondamentalmente trascurato l’impatto delle lotte sociali (e dei loro contenuti) sul sistema politico e sulla vita delle istituzioni. Due storiografie parallele che non si incontrano mai e che rispecchiano una cultura divisa.
In conclusione, occorre riconsiderare la storia della CGIL di Di Vittorio dal 1945 ad oggi sotto un duplice punto di vista: quello dell’impegno per la ricostruzione, faticosa e contrastata, di un sindacalismo non corporativo, non subordinato ai partiti ma capace di dialogare con loro in ragione della sua autonomia politica e culturale; e quello dell’impegno per la piena affermazione del valore dell’unità sindacale, nella consapevolezza della portata che il processo unitario può avere per lo sviluppo della comunità nazionale e per la difesa creativa della Costituzione repubblicana.
Questo vuol dire rimettere Giuseppe Di Vittorio al suo posto nella storia politica e sociale dell’Italia.