Pepe Carvalho
- Si mangia copiosamente, argentinamente - risponde Alma. - Marx ha detto che si conosce un paese solo quando si è mangiato il suo pane e si è bevuto il suo vino. - Marxista? - Sezione gastronomica. E un altro grande scrittore di gialli, Andrea Camilleri (che di vita s'intende non poco) ha chiamato Montalbano il suo personaggio secondo voi perchè? (Sui legami Montalbán - Camilleri: www.vigata.org)
i libri con Pepe Carvalho:
Lo scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán si è messo, per El Pais, nei panni di Pepe Carvalho, l'ormai celeberrimo investigatore dei suoi romanzi. In questa intervista, a rispondere in modo così laconico alle nostre lunghe domande, è in realtà - lo confessiamo - lo scrittore. Ma è come se parlasse il "suo" detective. Stiamolo a sentire. A chi si sente più vicino, al Bogart di Casablanca o al Bogart del Falcone maltese e del Grande sonno?
In qualsiasi lavoro l’invidia e il sempre valido motto latino mors tua vita mea creano inevitabilmente antipatie, conflitti e discussioni. Questo è tanto più vero in letteratura. La storia è piena dei cosiddetti “nemici di penna” che si sono scambiati insulti più o meno fantasiosi e coloriti: Robert Louis Stevenson definì Walt Withman «un grosso cane a pelo lungo, che appena sciolto il guinzaglio, dissotterra tutte le spiagge del mondo e ulula alla luna»; H.G. Wells accusò George Bernard Shaw di essere «Un bambino idiota che strilla in ospedale». Gli esempi potrebbero essere centinaia, con duelli anche ultraterreni tra vivi e morti. Così non è stato invece fra Andrea Camilleri, il padre del commissario Montalbano, e Manuel Vázquez Montalbán, creatore dell’investigatore privato gourmet Pepe Carvalho. Anzi, le affinità erano evidenti anche ben prima di conoscersi nel 1998 a Mantova in occasione della seconda edizione di Festivaletteratura. Camilleri, recentemente insignito del Premio Pepe Carvalho 2014, ha chiamato il protagonista della sua serie di gialli di clamoroso successo proprio Montalbano, cognome assai diffuso in Sicilia ma soprattutto in omaggio allo scrittore catalano. Ne nacque infatti un intenso rapporto di amicizia letteraria. Da quel primo incontro, testimoniato dall’intervista fatta dallo scrittore siciliano al collega, Skira ha tratto un libricino pubblicato nella collana di mini saggi SMS diretta da Eileen Romano: Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán (Skira, 2014). CAMILLERI: «Io non avevo alcuna esigenza di conoscere Montalbán. So benissimo che nel 99% dei casi, quando si conosce uno scrittore amato, si hanno delle delusioni terribili. Quindi, non dovendolo sposare, ed essendo già sposato, perché dovevo conoscere personalmente Vázquez Montalbán? Bastavano i suoi libri che aspettavo con ansia. Senonché mi è capitato che dovevamo incontrarci a Mantova al festival della letteratura, dove io lo avrei intervistato: tutti e due avevamo detto di sì, all’insaputa l’uno dell’altro. Senonché c’è stato un invito gentilissimo di D’Alema, che avrebbe fatto da moderatore. Credo che sia stata da parte mia la curiosità di vederlo in quelle vesti a spingermi ad accettare l’invito. Ecco, quella è stata la prima conoscenza». MONTALBÁN: «La prima notizia dell’esistenza di Camilleri è stata una notizia giornalistica. La mia traduttrice l’aveva letto, e anch’io ho cominciato a leggerlo. Poi, l’incontro è stato sotto gli occhi del “padrino” D’Alema, la parola padrino è innocentemente pronunciata, non c’è un secondo fine. E avevo una grande curiosità di conoscere D’Alema come critico letterario. E lui ha fatto una critica letteraria di un mio romanzo O Cesare o niente, e ha dato una curiosa interpretazione, molto gramsciana, del partito come Il Principe: questo è stato un motivo di conversazione con Camilleri, questa lettura molto particolare di D’Alema. Camilleri, che è un uomo molto generoso - una generosità che non è normale in uno scrittore, e che, da narciso, lui dissimula molto bene - ha dimostrato una grande conoscenza della mia opera. È vero che la nostra è stata un’amicizia vera, condizionata dalle letture, dagli incontri, e per questo per me è un piacere essere qui e rinnovare la possibilità di parlare in pubblico con Camilleri». In questo godibilissimo dialogo i due si intrattengono sui più disparati argomenti: dalla letteratura alla politica, dalla cucina al calcio, in un costante confronto fra le loro due creature di cui è inutile nascondere le somiglianze. Amano il cibo e la letteratura, anche se Montalbano non brucia i libri come fa l’investigatore galiziano, ed entrambi hanno un rapporto complicato con le donne. Pepe Carvalho, poi come tutti gli investigatori, è un personaggio di frontiera: «non è un personaggio socialmente identificabile, è un outsider, e questa condizione gli permette di intraprendere un viaggio di indagine, come se fosse nient’altro che un punto di vista, quasi un percorso tecnico». A questo proposito Montalbán cita Leonardo Sciascia, modello anche di Camilleri, che in Breve storia del romanzo poliziesco attribuiva un aspetto metafisico al racconto poliziesco: «in un certo senso il romanzo poliziesco presuppone una metafisica, l’esistenza di Dio, della grazia, di un mondo al di là del fisico. L’incorruttibilità, l’infallibilità dell’investigatore, il suo ascetismo, il fatto che non rappresenta la legge ufficiale ma la legge in assoluto, la sua capacità di leggere il delitto nel cuore umano oltre che nelle cose, cioè negli indizi, lo investono di metafisica luce». È evidente il rammarico di non essere una mosca per poter assistere tra un registratore, alcuni sorsi di birra e immancabili boccate di fumo, a questo interessantissimo scambio di opinioni tra due mostri sacri del genere come Andrea Camilleri e Manuel Vázquez Montalbán. grazie a: http://www.flaneri.com, 07.07.2014
Spesso accade, in particolare in Italia, che gli intellettuali non siano molto interessati al calcio, che viene considerato come una forma di subcultura. Manuel Vázquez Montalbán, al contrario, lo vive molto intensamente, soprattutto per la sua passione per il Barça. Manuel Vázquez Montalbán: «Nell’ambito della divisione che i francesi fecero negli anni Sessanta tra cultura e subcultura, il calcio potrebbe considerarsi come subcultura, ma allo stesso tempo implica una serie di elementi che sono culturali: la conoscenza di una materia concreta, una partecipazione individuale e sociale, un patrimonio e una coscienza rispetto a questa materia. Inoltre esiste un’attribuzione di ruoli, che implica un rito, una liturgia. Durante un lungo periodo l’approccio degli intellettuali rispetto al calcio è stato duplice: quelli più avanguardisti hanno trattato il tema da un punto di vista soggettivo, cioè trasferendovi dei valori mitologici e simbolici. Nel caso spagnolo c’è una poesia di Alberti dedicata a Platko, un portiere del Barça, caricata di simbologia mitica, ma anche i futuristi italiani per esempio si dedicavano alla boxe». Anche in Spagna però il calcio non diventa un fenomeno culturale di massa fino alla seconda parte degli anni Cinquanta. MVM: «In quell’epoca un settore degli intellettuali più giovani, quelli che avevano già vissuto sotto l’influenza dei nuovi media – la radio, e in un secondo momento, la televisione – e che si erano formati culturalmente anche attraverso il cinema e la musica pop, si rese conto che si tratta di un fenomeno interessante sotto molti punti di vista». È famosa la frase di Vázquez Montalbán secondo cui il Barça rappresenta «l’esercito simbolico e disarmato della Catalogna», che testimonia la particolarità del caso catalano. MVM: «Qui esiste un valore aggiunto che è insolito: il club per una serie di circostanze storiche irripetibili diventa un simbolo politico, già da prima di Franco, con la dittatura di Primo de Rivera [il creatore della Falange, al potere tra il 1923 ed il 1930, NDR]. Durante la Seconda Repubblica, poi, le uniche due squadre spagnole che si impegnano in una tournée mondiale per raccogliere fondi in solidarietà con la Repubblica sono il Bilbao e il Barça e molti dei giocatori rimangono in esilio. Pertanto, esistono elementi che rendono obbligatoria una lettura diversa di ciò che significava il calcio, e non solo spiegandolo con panem et circenses, o pan y toros, nella variante spagnola». Di fatto però nella penisola iberica, come anche in America Latina, non esiste una specie di vergogna che hanno gli uomini di cultura ad occuparsi di calcio. MVM: «Anche in Spagna non è che ci sia stata una dedizione costante. Una volta un italiano vincolato al PCI mi spiegò che era tifoso della Juventus perché era la squadra di Togliatti e questo è un fatto presente nella memoria segreta del PCI. Comunque sia, inizia a presentarsi un fattore curioso: fino a qualche tempo fa il legame calcio-intellettuali-società poteva essere un vincolo ludico, ironico, sarcastico o innocente, in cui si dedicava una parte dell’innocenza all’essere tifoso di una squadra di calcio. Ora però si è complicato molto, perché di fatto con la crisi di identificazione delle società attuali le squadre di calcio si sono convertite quasi in referenti politico-religiosi, e costituiscono praticamente l’unica possibilità di partecipazione di massa, di integrazione, di vincolo, anche dell’uso della violenza sociale. Per tutto questo non si tratta più di un fatto tanto innocente, come in passato». Il calcio è diventato ormai un’industria molto importante e anche per questo alcuni valori sono passati in secondo piano. MVM: «È molto complicato: l’esempio italiano con Berlusconi che porta tutta la sua telegenia e il suo ruolo di dirigente calcistico in campo politico è lampante. Davanti al club di calcio c’è ormai un tipo di parvenu dell’economia, soprattutto gente che viene dal mondo della speculazione immobiliaria, uno dei settori di investimento che permette di fare soldi più velocemente e con meno scrupoli, e che poi vuole una affermazione sociale [era il caso anche di Josep Lluís Núñez, presidente del Barça dell’epoca che, per disgrazia dei catalani, riuscì a farsi eleggere e rimanere al potere per ben 19 anni, NDR]. Il modo migliore per ottenerla è investire tempo e denaro nella presidenza dei club di calcio, ed è chiaro che la conseguenza siano poi dei dirigenti impresentabili». Nel caso specifico di Manuel Vázquez Montalbán l’“innamoramento” con il FC Barcelona risale alla sua infanzia, in una città in cui erano ancora profonde le ferite della guerra da poco conclusa e su cui incombeva, più che nel resto dello stato, l’incubo del franchismo. Lo scrittore, nato nel 1939 nella parte bassa del Raval, il Barrio Chino ovvero il “quartiere cinese”, successiva ambientazione delle peripezie di Pepe Carvalho, appartiene a classi popolari e di immigrazione: il padre, comunista galiziano, era arrivato a Barcellona all’inizio della Repubblica, mentre la madre, anarchica, era nata nella stessa città da genitori del sud, di Murcia. MVM: «A quel tempo, subito dopo la Guerra Civile, essere del Barça era quasi come assumere un segno di identità: significava far parte della Catalogna. Questa riflessione non si produce lucidamente, è automatica, così come accetti il cibo del paese o alcuni valori simbolici, o più tardi la lingua. Inoltre io divento tifoso del Barça ed inizio ad essere un animale logico abbandonando lo stato pre-logico, proprio nell’epoca in cui il Barça vive uno dei suoi più grandi momenti, con l’arrivo di Laszi Kubala». Fu grazie soprattutto a questo campione, tra i più emblematici della sua storia, che il club blaugrana conobbe uno dei migliori periodi sportivi. Spinto dalle difficili condizioni di vita sotto i regimi socialisti Kubala alla fine degli anni Quaranta era fuggito attraversando illegalmente la frontiera della natìa Ungheria lasciandosi alle spalle anche l’adottiva Cecoslovacchia (la madre era slovacca), paesi in cui aveva iniziato la sua carriera. Nei lunghi mesi di forzata inattività, in cui si era allenato anche in Italia con la Pro Patria di Busto Arsizio, il Barça era riuscito a fargli firmare un contratto. Anche se riuscì a schierarlo solo successivamente, a partire dal debutto ufficiale nell’aprile del 1951, dando inizio a quella storica squadra conosciuta come “el Barça de les cinc copes”. MVM: «Solo allora si inizia a parlare e a capire meglio il significato del club: una delle tendenze di Franco dopo aver vinto la guerra fu eliminare il Barça, tanto che durante il conflitto venne fucilato anche il presidente del club». Si tratta di Josep Sunyol, deputato alle Cortes (il parlamento spagnolo) per il partito catalano Esquerra Republicana, che in viaggio verso Madrid entrò inavvertitamente nella zona franchista: venne fatto prigioniero e fucilato senza processo il 12 agosto del 1936. MVM: «Per le radici ideologiche di sinistra della mia famiglia, che aveva subito rappresaglie dal franchismo, questo club si fa dunque ancora più simpatico, perché significa la trasgressione. Che è allo stesso tempo una falsa trasgressione, perché è anche un club molto forte e potente per il sostegno, anche economico, che significa la sua massa sociale. In realtà, è una contraddizione anche al valore simbolico, visto che tutte le dirigenze fino alla presidenza di Montal, all’inizio degli anni Settanta, sono di destra, filtrate dal franchismo, che non poteva non controllare per lo meno indirettamente il Barça. Pertanto sono presenti molti elementi di simpatia politica, di rappresentazione simbolica, di identificazione etnica che hanno fanno sì che io diventassi tifoso allora». Il calcio ben presto diventa un importante pretesto nella disputa politica tra il centralismo spagnolo e la ribelle identità catalana, con lo stadio che si trasforma nell’unico luogo in cui i catalani possono esprimere liberamente l’appartenenza alla propria nazione. MVM: «Si sa che una vittoria del Real Madrid significava quella dello stato spagnolo, di Franco. Mentre se vinceva il FC Barcelona vinceva la diversità. Allora era molto chiaro: il franchismo giocava ad identificarsi con il Madrid, perché andava bene al franchismo, e non al club della capitale. In un’epoca di isolamento politico, ipocrita perché di nascosto si aiutava Franco in quanto sentinella del sud contro il comunismo ma ufficialmente non si trattava con lui, il Real Madrid si converte in un ambasciatore simbolico della dittatura. Nell’epica spagnola di fronte al mondo quella squadra, vincitrice delle prime cinque Coppe dei Campioni [dal 1956 al 1960, NDR], arriva come un regalo per il regime». In un certo senso questi significati esistono ancora. MVM: «Il fattore politico è ancora presente: molti sono tifosi del Barça perché posseggono questo riflesso condizionato, secondo cui quando vince il Barça lo fa l’intera Catalogna, così come quando perde sono in molti a gioirne nel resto dello stato. È un fatto che si è quasi incorporato alla memoria genetica dei catalani, allo stesso modo in cui gli animali sviluppano tutta una serie di condotte che gli vengono dal loro codice genetico» Ma per i giovani nati dopo il ’75 che non hanno conosciuto i tempi bui della dittatura è sicuramente diverso. MVM: «Per loro significa una militanza etnica, un segnale di identificazione e di differenza, far parte di una tribù urbana. Entriamo qui in un fattore completamente diverso, cioè sentirsi riconosciuti per appartenere ad una tribù concreta inserita in una causa generale, che poi sarebbe la vittoria del club. Ciò crea tutta una serie di riti: da quello violento a quello identificativo, all’attesa della domenica come l’ottavo giorno della settimana, quello della liberazione. Questo è un fenomeno completamente diverso, che forma ormai parte dell’incomunicabilità e della solitudine sociale e di massa contemporanea». I tempi cambiano non solo sugli spalti, ma anche sul campo di calcio: l’uruguayano Eduardo Galeano, un altro grande intellettuale di lingua spagnola malato di Fútbol, nel suo libro “Splendori e miserie del gioco del calcio” si paragona ad un mendicante del bel calcio che se ne va ramingo per gli stadi del mondo chiedendo con il cappello in mano «una bella giocata, per amor di Dio». MVM: «Da quelle parti si vivono le emozioni in maniera diversa. L’intellettuale in America Latina ha capito la bellezza del calcio e la trasmette in modo straordinario: gli scritti di Galeano ma anche di Valdano ne costituiscono un esempio. Tra l’altro proprio Valdano mi raccontava della distinzione che aveva fatto Menotti tra un calcio di destra, meschino, repressivo, opportunista che ricerca l’efficacia e che rinuncia al sogno e alla memoria (quello di Bilardo ad esempio) ed uno di sinistra, che viene accusato di essere romantico. Purtroppo, diceva, che il romanticismo prevalga sulla forza sarà sempre difficile. Questo pensiero era di Menotti, una persona militante di sinistra, con la contraddizione di essere stato il selezionatore della nazionale all’epoca della dittatura militare. Valdano mi ha spiegato cose interessanti su quest’argomento: di come Menotti aveva parlato ai giocatori prima della finale dei mondiali del ’78, dicendo che giocavano per la gente e non per la giunta militare e che per questo non stavano difendendo la dittatura ma la libertà». Nonostante le sue particolarità, comunque, il Barça non si può definire un club di sinistra. MVM: «Per il senso storico che ha avuto è stato un club la cui simbologia del collettivo era antifranchista. Ora è un club di calcio che conserva il carattere simbolico rappresentativo di una nazionalità, ma la composizione sociale del suo pubblico è normale, interclassista». Ormai i giocatori non sembrano molto attaccati ai club e per questo è sempre più difficile che leghino il proprio destino ad una sola squadra. MVM: «Con la globalizzazione del mercato calcistico, uno degli ultimi che mancavano a questo fenomeno, ogni squadra diventa una legione straniera. Nel caso del Barça siccome il pubblico conserva la memoria genetica di cui parlavamo secondo cui la squadra deve essere rappresentativa, ha fatto pressione mostrando i fazzoletti per tutta la stagione fino a quando l’allenatore Robson non si è deciso a schierare più elementi cresciuti nel club, la cosiddetta “Quinta del Mini” [la generazione del Mini Estadi, struttura in cui giocano le squadre minori, composta da Iván De la Peña, Roger, Òscar, Celades, NDR]. Il pubblico ha bisogno di questi giocatori per continuare a conservare il sogno che il Barça és més que un club. Perché non accetterà mai una squadra solo di stranieri, o forse lo farebbe solo se vincesse tutto». È interessante capire come scatta la molla dell’irrazionalità. MVM: «Qualsiasi relazione amorosa, ed il calcio ne è un esempio, si basa sull’autoinganno, perché se fossimo sempre totalmente lucidi esisterebbero solo relazioni sessuali. Sul campo di calcio accade lo stesso: hai bisogno dell’autoinganno, di mentire a te stesso, perché altrimenti la relazione analizzata oggettivamente e da lontano sarebbe stupida. Invece non lo è, perché è necessaria, perché implica soddisfazione. Per cui dovremmo analizzare le necessità reali e fino a che punto siamo schiavi di necessità artificiali, il che è molto complicato. Abbiamo visto che alcune società che volevano l’uomo nuovo, totale, hanno continuato ad utilizzare il calcio come strumento di alienazione: ad esempio ai tempi dell’URSS o nei paesi del socialismo reale si creavano riferimenti simbolici che in teoria erano artificiali, allo stesso modo in cui in Cecoslovacchia una vittoria sull’Unione Sovietica era vista come una vittoria sull’invasore. Ma non solo in quei paesi: le Olimpiadi ad esempio erano diventate uno strumento in più della Guerra Fredda». In una recente intervista, Manuel Vázquez Montalbán spiegava come il Barça ed il calcio rappresentano per lui una specie di religione. MVM: «Si trattava di un piccolo scherzo, che comunque risponde alla verità. Nel ’62 su una rivista italiana che si chiamava Ulisse c’era un articolo di Pier Paolo Pasolini che diceva che l’irrazionalismo era un aspetto troppo importante per lasciarlo in esclusiva alla borghesia. Tutti hanno una certa necessità di essere irrazionali, nelle piccole cose: il filtro della ragione funziona nella maggior parte dei casi, dipende dalla tua capacità di autocontrollo, ma poi esistono alcuni elementi che non controlli e che sono irrazionali. Io preferisco avere una religione minore ed un Dio minore come è il Barça e non essere religioso in politica o in amore per esempio: più importante è la religione infatti, più è pericolosa». Ci chiediamo se anche Pepe Carvalho sia tifoso del Barça. MVM: «No, lui è agnostico anche in campo calcistico» - tiene a precisare. 1997 grazie a: http://blog.futbologia.org |