Paolo Pezzino *

La difficile giustizia

* presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, ex Insmli

Intervento in occasione della presentazione del libro M. De Paolis - P. Pezzino, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-2013) Viella, 2016 - Registrazione e trascrizione dell’incontro a cura di Laura Matelda Puppini

 

Il libro che presentiamo qui è il primo di una collana che è stata ed è finanziata dalla Regione Toscana non a caso, perché la Regione Toscana è, assieme all’Emilia, quella che ha avuto il maggior numero di morti civili in stragi naziste e fasciste, ed è quella che ha visto, probabilmente, il maggior numero di processi celebrati in merito ad episodi avvenuti sul suo territorio.

Questo è il primo volume di una serie pensata per presentare, valorizzare, ed anche diffondere i processi che Marco De Paolis ha portato avanti dal 2000 in poi prima come Procuratore capo presso il tribunale militare di La Spezia, poi, per un breve periodo, come Sostituto a Verona, ed infine come Procuratore capo presso il Tribunale militare di Roma. Sono processi in cui si trattano crimini molto gravi commessi nel nostro paese dal ’43 al ’45, che si sono celebrati però a partire dall’inizio di questo secolo, cioè con un ritardo che effettivamente è insolito. Ed è proprio detto ritardo che ci ha spinto ad intitolare questo primo volume, che è il volume generale e che affronta la tematica generale (gli altri nove volumi poi, sono relativi a singoli episodi ed è uscito il secondo relativo a Sant’Anna di Stazzema e il terzo relativo a Cefalonia che sarà l’unico volume dedicato ad un eccidio di italiani fuori dall’Italia) “La difficile giustizia”. Io sarei stato forse per un titolo ancora più forte: “L’impossibile” o “La negata” giustizia, però poi, riflettendoci, ci è sembrato che, comunque, quello che ha fatto Marco De Paolis è un gesto di giustizia, è un atto di giustizia. Perché celebrare i processi a distanza di tutto questo tempo, ha rappresentato, comunque, un risveglio del senso di diritto dello stato italiano nei confronti di vittime di crimini orribili, (che noi oggi definiremmo crimini contro l’umanità), che questa giustizia non avevano avuto. Certo una giustizia così ritardata è in parte una giustizia negata.

Ma avendo avuto modo anche di toccare con mano il vero e proprio affetto che le comunità colpite dalle stragi hanno nei confronti di Marco De Paolis per i processi che Marco ha istruito su quegli episodi, mi sono reso conto che per i parenti delle vittime o per i sopravvissuti, e ce ne sono ancora, questi processi hanno avuto un’importanza fondamentale. Hanno avuto l’importanza di accertare definitivamente, seppure a distanza di tutto questo tempo, quello che era avvenuto, il grave crimine che era stato commesso, e che lo stato italiano, fino a poco tempo fa, aveva negato. Perché, appunto, negare di fare le indagini, non portare avanti le indagini, insabbiare addirittura la documentazione che avrebbe consentito di portare avanti questi processi ben prima, come è stato fatto, è stata una negazione di giustizia.

E quindi io credo che, effettivamente, sia stato doveroso, non solo da un punto di vista morale, ma anche da un punto di vista giudiziario, (perché come Marco De Paolis ricorda sempre, l’azione penale è obbligatoria secondo la Costituzione), per il Magistrato militare, indagare su quegli episodi, quando è stato possibile, quando questa documentazione è venuta fuori, e cercare di trovare pure i responsabili ancora in vita di crimini che non cadono mai in prescrizione.

E casomai c’è da chiedersi se tutti i magistrati militari abbiano sentito lo stesso obbligo giuridico che il Procuratore De Paolis ed altri suoi colleghi hanno provato.

I volumi sono concepiti tutti con una parte storica ed una parte giuridica non a caso, perché, essendo episodi tutti avvenuti dal 1943 al 1945, la parte storica è indubbiamente importante. E poi c’è un’appendice documentaria relativa soprattutto all’aspetto giuridico e processuale.

Il primo volume ci è sembrato necessario per inquadrare il tema generale, perché noi ovviamente abbiamo come riferimento l’Italia. Ed in Italia un intero archivio, in cui erano stati depositati gli atti di circa settecento indagini compiute da carabinieri, polizia, dalla stessa magistratura, era sparito alla vista ed alla conoscenza. Quando detto archivio fu ritrovato, si parlò impropriamente di un “armadio della vergogna”, ma in realtà l’archivio non era finito in un armadio ma era in un mezzanino a Palazzo Cesi a Roma, ma il risultato, comunque, era sempre lo stesso. Si trattava di fascicoli che, nel 1960, erano stati illegittimamente archiviati dall’allora procuratore generale preso il tribunale supremo militare, Santacroce, con la dicitura: “Archiviazione provvisoria”, che è una figura giuridica inesistente nel codice di procedura penale.

Noi siamo convinti che in Italia vi sia stata una vicenda storica particolare, ma all’inizio del mio saggio, io ho voluto inquadrare il tema della punizione dei crimini di guerra all’interno del tema più generale della giustizia di transizione, cioè di quella giustizia che punisce coloro che si sono resi colpevoli di crimini, nella transizione da dittature a democrazie, transizione che spesso avviene a seguito di eventi traumatici, come appunto una guerra persa.  Ed è questo, esattamente, il caso della Germania e il caso dell’Italia.

Il caso Italia a fine guerra

Ricordiamoci che l’Italia, con l’armistizio, aveva firmato una resa incondizionata, anche se poi sia la dichiarazione di cobelligeranza del governo Badoglio nei confronti della Germania, sia la partecipazione dei patrioti partigiani italiani alle operazioni militari per la liberazione del paese dalle truppe tedesche, avevano fatto acquisire all’Italia un qualche credito morale nei confronti degli Alleati. E questo credito era stato rafforzato dalle decine di migliaia di morti che la guerra di liberazione ci era costata, non solo in termini di partigiani combattenti, ma di civili inermi uccisi per rappresaglia o per puro terrorismo, per fare terra bruciata attorno ai partigiani. Queste uccisioni, queste stragi, erano state commesse dalle truppe tedesche, spesso con la collaborazione degli alleati della Repubblica Sociale Italiana, aspetto che non bisogna mai dimenticare, perché non furono solo i tedeschi a compiere questi atti.

Così anche se questi crediti c’erano, è indubbio che poi, nel dopoguerra, gli Alleati consideravano l’Italia un paese sconfitto. E la consideravano non solo questo, ma anche un paese che aveva una responsabilità particolare in quello che era successo, sia per l’affinità ideologica tra il nazismo ed il fascismo, (anzi il fascismo era stato il primo ad elaborare questa nuova classe politica, questa nuova famiglia politica che noi chiamiamo con il nome di “fascismi”), sia per la collaborazione militare che i due paesi avevano avuto dal momento in cui l’Italia era entrata in guerra fino al momento dell‘armistizio.
E quindi se da un lato l’Italia era sì, dopo l’8 settembre, un paese occupato, e un paese che, come ho detto, scontava una occupazione durissima da parte dell’esercito tedesco, nello stesso tempo era un paese che veniva considerato, dagli Alleati, un paese responsabile della guerra, aggressore di altri paesi nel contesto europeo, che negli altri paesi aveva portato avanti una guerra con modalità non sempre corrispondenti a quello che il diritto internazionale prevedeva. Pertanto essa avrebbe dovuto essere chiamata a rispondere dei crimini commessi nei loro confronti prima dell’8 settembre 1943, di cui veniva accusata da altri paesi.

Questa duplice posizione dell’Italia, paese al tempo stesso vittima e responsabile del conflitto, segna chiaramente le incertezze ed i dubbi degli Alleati. Perché gli Alleati avevano incoraggiato molto la resistenza italiana, finché questa era considerata utile per la collaborazione militare nella campagna d’Italia. E qui ricordo i vari proclami del generale Alexander, soprattutto, nell’estate del ’44, con l’invito ai patrioti italiani a combattere ed insorgere, nel momento in cui, dopo la liberazione di Roma e la disfatta tedesca, sembrava possibile un’accelerazione nella fine della guerra in Italia. E quindi in particolare gli Inglesi sentivano in qualche misura l’obbligo di fare giustizia per le vittime che questa partecipazione degli italiani, come partigiani e patrioti alla guerra, sotto forma di guerra di Liberazione, aveva provocato.

Ma, dall’altro lato, l’Italia era sotto inchiesta in un organismo che era stato creato nel ’43: lo “United Nations Word Crime Commission, la Commissione Crimini di Guerra delle Nazioni Unite (Nazioni Unite qui si intende contro la Germania), che aveva il compito di stilare le liste di criminali di guerra da poter poi consegnare, dopo la fine del conflitto mondiale, a quei paesi dove quei crimini erano stati commessi, perché detti criminali venissero ricercati, individuati ed estradati in questi paesi, che avrebbero dovuto processarli.
Nei verbali dei lavori di questa Commissione, che io ho esaminato e dai quali prende spunto il mio saggio, l’Italia è ben presente con migliaia di suoi uomini, accusati soprattutto dalla Grecia, dalla Jugoslavia, dall’Etiopia, anche se relativamente a quest’ ultimo caso si aprì un contenzioso, perché in realtà i crimini commessi in Etiopia erano precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale, mentre la Commissione doveva analizzare solo i crimini commessi nel corso del secondo conflitto mondiale.

Poi, alla fine dei lavori, la Commissione comunque consentì all’Etiopia di presentare la documentazione relativa ai crimini commessi dagli italiani, e molti paesi, soprattutto Jugoslavia e Grecia, ma anche, per esempio, la Francia, chiesero all’Italia la consegna di membri dell’esercito e di membri della milizia che venivano accusati di crimini simili a quelli che i tedeschi avevano commesso in Italia contro i civili italiani.

Nel contesto di questa duplice veste di paese corresponsabile del conflitto e sconfitto e di paese occupato, si svolge la vicenda del governo italiano, il quale, se da un lato non viene autorizzato a processare direttamente i tedeschi responsabili di crimini, (questo almeno fino alla fine del ’46), dall’altro viene autorizzato a raccogliere documentazione da girare agli Alleati, perché possano essere gli Alleati ad indagare ed eventualmente a portare avanti i processi necessari. E proprio per questo viene decisa la creazione di una particolare Commissione presso la Procura Generale del Tribunale Militare Supremo, cioè presso quello stesso ufficio che poi, nel sessanta, archivierà tutta quella documentazione.
Questi documenti, che ovviamente il governo italiano raccoglieva tra le strutture periferiche dello Stato, in particolare dall’Arma dei Carabinieri che aveva registrato tutto quello che era successo nel corso dell’occupazione tedesca, venivano man mano concentrati presso detta Procura Generale, per essere poi messi a disposizione delle autorità alleate. Nacque così, in questo modo, quell’archivio che poi noi ritroveremo spostato, nel 1960, a Palazzo Cesi.
Quindi l’archivio nasce non con la volontà di nascondere, ma con la volontà di favorire le indagini degli Alleati.

Gli Alleati, nello specifico gli Inglesi, iniziano a processare i nazisti per i crimini commessi ma poi …

È anche vero, però, che gli stessi Alleati avevano cambiato più volte opinione su di noi, e non sapevano bene cosa fare degli italiani. Dico Alleati: ma in realtà il vero protagonista della politica giudiziaria in Italia fu la Gran Bretagna, che in un primo momento aveva deciso di celebrare un processo a tutti i generali che avevano operato in Italia, a partire dal maresciallo Kesselring, e giù giù, fino al grado di generale. Questo perché gli Alleati, nelle loro indagini, avevano scoperto che le violenze contro i civili non rappresentavano degli eccessi di reazione delle singole unità militari, ma erano violenze che, a partire perlomeno dalla primavera del 1944, erano state programmate ed in qualche misura autorizzate dal Comando Supremo della Wehrmacht, dal Feldmaresciallo Kesselring. Ed avevano trovato tutta una serie di misure che furono, poi, esattamente quelle applicate: raccolta di ostaggi, incendi di paesi, requisizioni. Ovviamente esse non parlavano esplicitamente di uccisioni di donne e bambini, però contenevano delle frasi che spingevano agli eccessi. Per esempio in quello che è considerato l’ordine principale del Feldmaresciallo Kesselring, datato 30 giugno 1944, c’è una clausola che dice: «Coprirò tutti quei comandanti che, nell’applicazione di queste misure, eccedano la moderazione che è propria dell’esercito tedesco».

Ora a parte che a noi oggi può far sorridere l’accenno alla moderazione dell’esercito tedesco, ma Kesselring poi la rivendicherà una volta liberato, e scriverà un libro nel quale rivendicherà di aver condotto la campagna con un’attenzione, una umanità nei confronti della popolazione che non era facile trovare nelle guerre, e concluderà dicendo che gli italiani avrebbero dovuto ringraziarlo, fargli un monumento; al che gli rispose Calamandrei con la famosa lapide, che conoscete tutti: «Lo avrai, camerata Kesselring, il monumento che pretendi da noi italiani, ma con che pietra si costruirà, a deciderlo tocca a noi… ecc. ecc.».

Gli Alleati si erano resi conto che in Italia si era svolta una campagna bellica organizzata dai massimi comandi tedeschi ed avevano, fino all’ estate del ’46, preventivato un grande processo a tutti i generali tedeschi che avevano operato in Italia, che era previsto così imponente per il numero degli imputati, per i difensori, per tutto l’apparato di traduzione, che aspettavano per iniziarlo solo che si concludesse il processo di Norimberga, per poter portare in Italia il sistema per la traduzione simultanea.
Per quanto riguarda, poi, i reati commessi dagli ufficiali con il grado da colonnello ingiù, gli Alleati erano propensi a concedere agli italiani, una volta che gli italiani avessero firmato il trattato di pace e quindi avessero raggiunto di nuovo una piena sovranità territoriale, la possibilità di poter processare gli ufficiali tedeschi per gli stessi episodi. Quindi ci doveva essere un grande processo rivolto ai generali, e vari processi che gli italiani avrebbero potuto portare avanti nei confronti dei responsabili sul campo di quegli episodi.

Ma poi nel ’47 la guerra fredda blocca tutto… Non si può più processare tedeschi. 

Ma la situazione cambiò ben presto. Gli Alleati fecero alcuni processi importanti, in particolare una Corte Militare Britannica processò effettivamente il Feldmaresciallo Kesselring, a Venezia, nel maggio del ’47, ed egli fu condannato a morte. Ma il processo a Kesselring rappresentò anche il momento di svolta. Già si era messa in disparte la volontà di fare un processo a tutti i generali: ma anche Kesselring, condannato a morte, venne immediatamente graziato per una presa di posizione molto forte di ambienti politici e militari britannici.

A favore di Kesselring intervenne Churchill, che però non era più primo ministro perché aveva perso le elezioni, ma che comunque era ancora una persona che contava. Egli scrisse una serie di telegrammi alle autorità inglesi implorandole di non portare avanti l’esecuzione di Kesselring, ed intervenne a suo favore anche  Alexander, che era stato il principale competitore militare di Kesselring nella campagna d’Italia, e che, nel giugno del ’44, quando Kesselring aveva emanato le sue misure terroristiche per combattere i partigiani, lo aveva ammonito che avrebbe pagato pesantemente la responsabilità dei suoi atti.
Ebbene: nel maggio del ’47 Alexander, che è governatore in Canada, scrive alle autorità britanniche che Kesselring era stato un competitore duro ma leale, aveva combattuto in maniera dura ma leale, e che, quindi, si augurava che non venisse condannato.
Così Kesselring fu graziato e condannato all’ergastolo, ed a metà degli anni cinquanta fu liberato.

Ma cos’era successo per giungere a tanto? Era successo che, nel frattempo, era scoppiata la ‘guerra fredda’, e quella parte della Germania occupata da Stati Uniti, Francia e Regno Unito, rappresentava una pedina importantissima nello scacchiere internazionale, era, diciamo, la terra di confine con il mondo dell’est, con il mondo al di là della Cortina di Ferro, che Churchill aveva denunciato esser calata in Europa. E non era più il caso, a quel punto, di ricordare il recentissimo passato della Germania di potenza totalitaria, che aveva elaborato un progetto di occupazione e di controllo di tutto lo spazio europeo su basi razziali, e che aveva provocato la tragedia della seconda guerra mondiale, nel corso della quale aveva condotto le operazioni belliche con una brutalità che non si era mai stata vista prima nelle guerre moderne. Ma a quel punto il passato andava messo subito in disparte, ed i tedeschi diventavano alleati fondamentali.

E c’è anche da dire che l’opinione pubblica tedesca reagiva molto male ai processi nei confronti dei presunti, per loro, criminali di guerra, perché era stato elaborato in Germania un quadro storico per cui la colpa di quello che era avvenuto era solo di Hitler, di qualche gerarca nazista, e di alcuni corpi speciali come le ‘SS’, mentre il mito della Wehrmacht, l’Esercito tedesco, che aveva combattuto in maniera patriottica, onorevole, era talmente forte in Germania, che spingeva i tedeschi ad autoassolversi nella maggior parte dei casi. Del resto bisogna tener presenti i milioni di morti che i tedeschi avevano avuto nel corso del secondo conflitto mondiale, per cui era importante, per il popolo tedesco, potersi raccontare che questi non erano morti per difendere o portare avanti un progetto criminale, ma che erano morti in difesa della propria Patria. Pertanto questi processi erano visti malissimo dai tedeschi.

Quindi con il ’47, i processi cessarono, ed i generali che erano stati condannati, fra cui il generale Max Simon, il comandante della XVI Divisione Panzergrenadier, quella che si era resa responsabile, tra l’altro anche degli eccidi di Sant’Anna di Stazzema e di Montesole, che era stato condannato a Padova contemporaneamente a Kesselring, vennero graziati e poi liberati dopo qualche anno, ponendo fine alla stagione della punizione. Perché si trattava allora di ricompattare il mondo occidentale nella nuova guerra, la ‘guerra fredda’.

Gli Italiani avrebbero potuto, però, istituire i processi ai tedeschi per le stragi italiche, ma …

E gli italiani? Gli italiani avrebbero potuto, a quel punto, portare avanti autonomamente i processi nei confronti degli ufficiali dal grado di colonnello ingiù, e avevano raccolto per questo motivo l’abbondante documentazione che era stata poi concentrata nell’Ufficio del Procuratore Generale presso il Tribunale Supremo. Ma non lo fecero. E non lo fecero, fondamentalmente, per due motivi: il primo motivo fu che il governo italiano si sentì in dovere, (anche se in realtà si trattava di un governo che non aveva più nessun rapporto con il governo dell’epoca fascista, cioè con quello responsabile della guerra), di difendere fino in fondo l’onorabilità della Forze Armate Italiane, che avevano operato nei vari contesti europei, in particolare in Jugoslavia ed in Grecia. E quindi rifiutarono in continuazione di consegnare a questi governi, in particolare alla Jugoslavia, (perché la Grecia smise ben presto di domandarli), i nominativi richiesti degli uomini, degli ufficiali ma anche del personale civile relativi a persone accusate di aver commesso crimini sul suo territorio. I governi italiani opposero un netto rifiuto, ed ad un certo punto elaborarono anche una strategia, per cui dissero: «Indagheremo noi su questi crimini presunti, e se ci sono stati effettivamente, faremo noi il processo ai responsabili».
Fu anche costituita una apposita commissione, la quale, poi, trovò che in una ventina di casi, secondo lei, effettivamente c’erano dei materiali, delle prove per poter portare avanti i processi, ma nessuno fu mai processato.

Quindi questo tema divenne meno importante, anche perché dopo la rottura tra Tito e Stalin, Tito smise di continuare a chiedere la consegna degli italiani considerati responsabili di crimini in territorio jugoslavo, e quindi il discorso decadde.
Ma nel momento in cui gli italiani si rifiutavano di consegnare propri uomini alla Jugoslavia ed alla Grecia, non potevano insistere per la consegna degli ufficiali tedeschi all’Italia perché venissero processati in Italia per i crimini che avevano commesso in Italia. Molti di questi uomini erano ancora prigionieri degli Alleati, e quindi si sarebbe potuto ottenerli da loro, tanto più che, ripeto, era stato concesso all’Italia il diritto di processarli, ma l’Italia, praticamente, non li richiese mai.

Così, dal momento in cui l’Italia avrebbe potuto portare avanti detti procedimenti giudiziari, (diciamo pressappoco dalla metà del 1947 al momento in cui tutta la documentazione che era stata raccolta fu archiviata illegalmente in Palazzo Cesi), i processi che furono portati avanti furono pochissimi, qualche decina, e per di più alcuni non giunsero neppure a dibattimento. Quelli più noti che tutti conosciamo sono quelli a Kappler ed altre SS per le Fosse Ardeatine, ed a Walter Reder per una serie di eccidi, compreso quello di Marzabotto.

Tra l’altro questi processi che furono condotti dalla Magistratura Militare Italiana, dimostrarono pure la presenza di una cultura giuridica dell’epoca molto diversa da quella di oggi, ma ne parlerà più diffusamente Marco.

Sul processo a Kappler e c. e sulla possibile liceità di una rappresaglia secondo alcuni

Prendiamo come esempio il processo a Kappler.  Kappler venne accusato della rappresaglia delle Fosse Ardeatine insieme a 5 o 6 ufficiali e sottoufficiali: ma non mi ricordo il numero esatto. Fra questi c’era, originariamente, anche Pribke, che però non era reperibile e quindi fu stralciato. Ebbene: Kappler fu condannato non per la rappresaglia in sé, perché, pur riconoscendo il tribunale che la rappresaglia (secondo alcune interpretazioni il diritto internazionale consentiva, comunque, di compiere rappresaglie) ma perché aveva ecceduto i limiti di moderazione imposti. Infatti la maggior parte delle interpretazioni del diritto internazionale non prevedeva che la rappresaglia comportasse l’uccisione fisica di persone.

Ma se per alcune correnti interpretative del diritto internazionale, questo era previsto, la rappresaglia doveva comunque avere alcune caratteristiche: per esempio poteva avvenire solo dopo aver ricercato i responsabili degli atti commessi e non averli reperiti, e ci doveva essere, soprattutto una proporzionalità tra rappresaglia e atto che si voleva punire con la stessa. Ma il tribunale militare di Roma ritenne che questa proporzionalità non c’era stata nel caso delle fosse Ardeatine, ma ritenne pure che, dato che Kappler era un SS (e ricordo che a Norimberga le SS erano state dichiarate un corpo criminale, e quindi la sola appartenenza alle SS doveva rappresentare un crimine) questo rappresentava una attenuante. Infatti il ragionamento che detto tribunale fece, fu che, essendo le SS state addestrate nel mito dell’obbedienza assoluta, Kappler, soggettivamente, non era in grado di rendersi conto che quello che gli veniva chiesto era un ordine chiaramente illegittimo e criminale.

Kappler quindi fu condannato per avere, di sua iniziativa, essendo nel frattempo morto durante la notte un altro tedesco, colpito nell’azione di guerra di via Rasella, aumentato di dieci il numero delle persone da uccidere alle fosse Ardeatine, cosa che, egli disse in tribunale, non gli era stata ordinata, e quindi fu una sua iniziativa individuale. E poi fu condannato per aver sbagliato i conti, perché, comunque, risultarono presenti cinque persone in più rispetto al rapporto 1 a 10, e Kappler fece uccidere anche loro.

Ciò dimostra che allora l’obbedienza veniva ancora considerata una virtù, e così tutti gli altri indagati, che erano sottoposti a Kappler, furono assolti per aver obbedito ad un ordine dato da chi li comandava. Paradossalmente se Pribke fosse stato anche lui catturato e processato allora, non avrebbe potuto, poi, essere processato nel 1994, quando fu ritrovato.

Quindi i processi furono pochi e furono condotti con un diritto che, a quei tempi, non era molto attento al tema della sicurezza dei civili e dei crimini su civili. Ed un motivo per cui gli italiani non fecero questi processi non fu solo quello di difendere i propri soldati ma perché l’Italia, poi, trovandosi all’interno del blocco occidentale, cominciò anch’essa a difendere la Germania, tant’ è che, quando, nel 1956, un magistrato chiese alle autorità italiane l’aiuto per una rogatoria relativa all’eccidio di Cefalonia, i due ministri competenti, e cioè il Ministro degli Esteri, Martino, ed il Ministro della Difesa, Taviani, si trovarono d’accordo nel dire di non procedere, perché era passato tanto tempo e quei processi non avevano più alcun senso: e lo dissero a 13 anni da quei fatti. E c’è tutto lo scambio di corrispondenza a dimostrarlo. Così bloccarono la richiesta della Magistratura e la rogatoria non andò avanti.

Nel 1960, tutto l’enorme materiale composto da 695 fascicoli con delle prove importanti, più altri 1400 in cui c’era soltanto l’indicazione del fatto, non su chi potesse averlo compiuto, furono archiviati illegalmente in palazzo Cesi e sembrava che il tema della punizione dei crimini di guerra fosse ormai diventato obsoleto nella generale dimenticanza ed oblio di quello che era successo in Europa nel corso della seconda guerra mondiale. Del resto eravamo in pieno miracolo economico, non solo in Italia ma anche in Germania, la gente aveva veramente voglia di voltare definitivamente pagina, rispetto a quello che era successo, e questo avvenne non solo per i crimini ma anche, per esempio, per le leggi razziali, di cui abbiamo appena ricordato l’ottantesimo dell’emanazione. Anch’esse furono assolutamente messe nel dimenticatoio e sembrava che questi documenti potessero avere un’importanza solo per un futuro studioso di storia che, dopo qualche decennio, fosse giunto a metterci le mani sopra.

Ma qui io finisco perché la seconda parte della storia è quella che invece vi racconterà Marco De Paolis.

Marco De Paolis *

La difficile giustizia


* Procuratore Militare della Repubblica presso il Tribunale Militare di La Spezia, poi, dal luglio del 2008 al gennaio del 2010, Sostituto Procuratore Militare presso la Procura Militare di Verona, e, successivamente, Sostituto Procuratore Generale Militare della Repubblica presso la Corte Militare d’Appello di Roma, nonchè Docente di Diritto Penale, Procedura Penale e Diritto Penale Militare presso l’Accademia Navale di Livorno e presso la Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri di Firenze

Intervento in occasione della presentazione del libro M. De Paolis - P. Pezzino, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-2013) Viella, 2016 - Registrazione e trascrizione dell’incontro a cura di Laura Matelda Puppini

 

Sono io che mi sono occupato dei crimini compiuti dai tedeschi verso italiani

In questo lungo percorso giudiziario, come in un crescendo rossiniano, mi sono sempre più meravigliato ed anche indignato, devo dire la verità, per quello che trovavo, per quello che leggevo, per quello con cui mi confrontavo. E questo è accaduto perchè ho vissuto, come magistrato penale, la cui funzione è quella  di accertare le responsabilità penali dei reati, una specie di paradosso, perchè da un lato si trattava di crimini particolarmente gravi, il massimo che si possa immaginare: stragi di civili, con  centinaia di bambini massacrati: Marzabotto e Montesole: 215 bambini sotto i dodici anni uccisi in pochi giorni, Sant’Anna di Stazzema: centodieci bambini uccisi ed oltre duecento donne; Oradour sur Glane: più di trecento bambini uccisi in un giorno soltanto, dall’altro, di fronte a queste cose inimmaginabili, vi era una quasi totale carenza di giustizia. Ora naturalmente io non sono, come posso dire, un illuso, un visionario, so benissimo che la giustizia terrena è qualcosa di irraggiungibile, però c’è anche un limite a questo.
Perché quando si ignora, mi verrebbe da dire deliberatamente, ma preferisco usare un termine più gentile: colposamente, in maniera del tutto superficiale le istanze di giustizia di centinaia di migliaia di persone, qualche dubbio viene, ed è legittimo.

E poiché non c’erano un caso solo o due di questo tipo, ma molti casi, mi sono trovato sistematicamente a confrontarmi con una sostanziale ingiustizia. Ed allora io ed altri abbiamo incominciato a riflettere ed ad approfondire alcuni temi. E i dubbi aumentavano quando ci trovavamo di fronte a riflessioni effettuate da ambienti estranei a quelli giudiziari. E faccio due esempi, per spiegarmi meglio.

Furono inchieste giornalistiche ad aprire la via

Questa stagione giudiziaria prende le mosse, sostanzialmente, da una inchiesta giornalistica. Noi infatti non abbiamo rincominciato ad accertare queste responsabilità grazie ad una efficiente, efficace, puntuale azione giudiziaria, ma perché dei solerti giornalisti hanno facilmente individuato un latitante, tale Erich Priebke, con una facilità ‘interessante: hanno raggiunto un criminale di guerra che viveva beatamente e spensieratamente in Argentina e lo hanno intervistato. Questa persona era un pericoloso criminale, responsabile, non da solo ma assieme ad altri, della morte di 335 innocenti, e viveva tranquillamente a Bariloche in Argentina. Solo allora la giustizia italiana si è ricordata che esisteva un mandato di cattura, sulla base del quale, questa persona veniva,  faticosamente, portata in Italia per essere giudicata.

E qui apro una piccola parentesi. Quando si parla di memoria c’è un bellissimo libro di Gherardo Colombo di qualche anno fa che si intitola, se non sbaglio, “Il vizio della memoria“, che andrebbe letto perché la memoria, su certe cose, su alcuni aspetti e fatti del nostro vivere, è un po’ ad intermittenza.

Ma il processo a Herich Priebke è stato un processo estremamente difficile, perché se qualcuno di voi torna indietro con la memoria ricorderà che ci furono due processi in primo grado: una sentenza annullata, una sentenza in primo grado che lo assolse, ritenendo esistesse la prescrizione, una sentenza di secondo grado che lo condannò a quindici anni di reclusione e poi due sentenze, una della Corte Unitaria d’appello e l’altra della Cassazione, che lo condannarono definitivamente all’ergastolo. Quindi questo susseguirsi è un aspetto che, anche nella fisiologia giudiziaria, fa pensare.

Ma adesso, tralasciando il processo Pribke, quello che è importante è che questa attività giudiziaria scaturì da una casuale attività giornalistica. Così come, in un certo senso, anche la mia attività giudiziaria dal 2002, quando fui nominato Procuratore Militare a La Spezia, a otto anni dalla scoperta del cosiddetto “armadio della vergogna”, cioè ad otto anni di distanza dal rinvenimento dei fascicoli sulle stragi naziste ‘archiviati’ in un mezzanino a Palazzo Cesi a Roma, incominciò con l’interrogatorio o, più correttamente, esaminando un giornalista tedesco che si chiama Udo Gumpel, e che spesso vedete anche in televisione, che aveva pure lui tranquillamente intervistato, senza problemi, quattro ex- appartenenti alla sedicesima  Divisione Reichsfürer SS, che erano responsabili delle stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto, i quali vivevano tranquillamente nelle loro abitazioni con figli, nipoti, mogli, nuore e parenti e che nessuno aveva mai disturbato per chieder loro conto dei loro misfatti. 

Peraltro si trattava anche di quattro persone i cui nominativi erano indicati nel primo rapporto sulla strage di Marzabotto, steso dai reparti investigativi della quinta Armata degli Stati Uniti d’America, che avevano compiuto le prime indagini nel ’44. Detti documenti sono a disposizione di tutti perché si trovano in un archivio pubblico, agli United Nations Archives a Washington. Eppure nessuno mai si era preso la briga di andarli a cercare. 
Ed ancora più interessante è che anche l’unico processo sui fatti di Cefalonia, celebrato nel 2013, quattordici anni dopo la scoperta dell’armadio della vergogna, non è nato dall’attività giudiziaria scaturita dalla scoperta delle carte in palazzo Cesi, ma sostanzialmente da un articolo di un’altra giornalista tedesca, che si chiama Cristiana Koll, che nel 2001 pubblicava un bellissimo servizio su un giornale tedesco sui fatti di Cefalonia, che però non determinava l’apertura di indagini in Italia, come avrebbe, evidentemente, dovuto essere, come sarebbe stato ragionevole fosse, ma in Germania, e solo poi a Roma di rimbalzo, parecchi anni dopo.
Infatti solo sette anni dopo si apriva in Italia un’indagine sull’accaduto, per poi chiudersi e riaprirsi una seconda volta ed infine concludersi nel 2013. 

Ecco, allora perché il titolo del libro. “La difficile giustizia"

Ecco perché il libro: “La difficile giustizia” ha questo titolo, che ha un senso. E chi avrà la bontà di leggerlo, non troverà delle valutazioni, ma troverà delle indicazioni e  delle informazioni. Perché non compete sicuramente a me fare, al di fuori dell’attività giudiziaria, delle valutazioni.
E così se qualcuno leggerà il libro troverà delle indicazioni, con i link, di atti parlamentari che riguardano queste vicende, e di lavori di commissioni parlamentari di inchiesta e di commissioni della magistratura militare che sono accessibili a tutti, e potrà verificare da solo le dichiarazioni che, nel 1999, nel 2000, nel 2001, nel 2003, (e quindi ben successivamente alla ‘scoperta dell’armadio’), sono state rilasciate da alcuni soggetti pubblici, dai miei colleghi o appartenenti al mondo delle istituzioni relativamente a questi fatti, informando le varie commissioni dell’impossibilità di procedere a queste indagini perché ormai era tutto prescritto e non vi era più la possibilità di individuare eventuali responsabili in vita.

A fronte di queste dichiarazioni vi segnalo che la Procura Militare di La Spezia, da me diretta dal 2002, tra il 2003 ed il 2008, ha celebrato 11 processi, che sono poi proseguiti, negli anni successivi. E dico 2008, perché in tale anno fu soppressa la Procura militare di La Spezia, ed il lavoro continuò sempre svolto dal sottoscritto prima presso la Procura Militare di Verona e poi presso quella di Roma. Bene: dal 2003 al 2013 vi sono state 57 condanne all’ergastolo in primo grado, quindi parecchi anni dopo il rilascio di queste dichiarazioni. E siccome quando si digita su internet il mio nome o quello di qualche altro magistrale militare che ha fatto queste indagini, si trova di tutto, come accade su internet, perfino qualcuno che mi ha definito un pericoloso comunista, un sovversivo ecc. ecc., segnalo che in Germania, nel 2009, è stato condannato all’ergastolo il Maggiore Josef Eduard Scheungraber per la strage di Falzano di Cortona di Arezzo, ed è stato condannato anche in Italia dal Tribunale militare di La Spezia per lo stesso fatto; che il tenente Siegfried Boettcher è stato rinviato a giudizio, nel 2005 per la strage di Civitella in Val di Chiana, e non si è proceduto a giudizio solo perché nel 2005  Boettcher è morto. E, successivamente, vi sono state le condanne a John Demjanjuk, a Monaco, per i crimini a Sobibor; a Reinhold Hanning, che è stato condannato nel 2016 a Detmold per i fatti di Auschwitz; ed a Jhoann Breyer, ed altri, tutti criminali tedeschi giudicati e condannati da tribunali tedeschi pochi anni fa. (2014- 2015- 2016).

Noi in Francia queste cose le impariamo a scuola. E in Italia?

Inoltre io sono rimasto molto colpito, tre o quattro anni fa, mentre aprivo un’indagine sulla stessa, dalla strage di Oradour sur Glane, che forse in Italia è poco conosciuta, anche se è la più grande strage di civili avvenuta in Europa da parte dei nazisti. Il 10 agosto del 1944, questo villaggio, che si trova in Francia, venne devastato da un Reggimento della Divisione Das Reich, la terza delle SS, Der Führer.  
In poche ore vennero uccisi 647 civili, fra cui 302 bambini, e in mezzo a questa carneficina finirono pure una quindicina di italiani: due famiglie alto- venete di migranti, con 7-8 bambini.

Anche in questo caso, ho aperto l’indagine grazie ad una notizia giornalistica, e, nell’atto di cercare chi nominare come mio collaboratore per tradurre la documentazione francese che riguardava detta strage, incontrai un giovane studente francese residente a Roma, e, nel colloquio preliminare, gli chiesi se conoscesse i fatti di cui trattavamo per capire se ne fosse informato. Ed egli, in maniera molto risentita, come fanno  i francesi quando si innervosiscono, mi rispose: «Ma certo, ci mancherebbe. Noi le studiamo a scuola queste cose!». Io vorrei sapere se uno studente italiano conosce due o tre delle stragi più importanti avvenute in Italia, a meno che non sia qualcuno che è nato nel paese, regione o provincia in cui hanno avuto luogo, e sono abbastanza sicuro che non troveremo una risposta del genere.

Informare e documentare, questi i nostri obiettivi

E questo è un altro degli aspetti che mi ha spronato a tentare un’iniziativa editoriale che definirei quasi un po’ didattica, perché cerca di dare un contributo alla formazione, all’educazione, all’istruzione dei giovani, e, contemporaneamente, (e questo penso sia l’aspetto più qualificante al di là di quello che noi possiamo scrivere in questi nostri libri), a pubblicare i principali atti processuali, che meglio di ogni altro commento possono far capire quello che è successo, quello che è avvenuto.
Quindi dato che noi sappiamo bene che gli atti giudiziari non sono facilmente reperibili perché spesso noi siamo vittime della burocrazia e delle normative, e non è facile avvicinarsi ai nostri archivi, ecco che con questa pubblicazione, soprattutto con la parte che proprone i link, abbiamo ritenuto di fornire uno strumento buono di conoscenza per le comunità, per i familiari, per i sopravvissuti che così possono rendersi conto da vicino di quello che ha riguardato la loro storia familiare, ma anche per gli studenti e gli appassionati di storia, che possono così più facilmente avvicinarsi a questo tipo di argomenti. E poi chissà … se qualcuno andrà a cliccare su quei link che abbiamo messo e vorrà fare un po’ di paragoni, può darsi che qualche idea e qualche considerazione migliore potranno scaturire.

Non a caso, e prima lo ha ricordato Paolo Pezzino, in maniera simbolica e significativa, tra i documenti che abbiamo pubblicato nel primo libro, io ho inserito il testo dell’art. 112 della costituzione, forse in un modo che qualcuno potrebbe ritenere un po’ provocatorio, ma quando si parla di leggi costituzionali, fondamento del nostro Stato, non si provoca mai nessuno, semmai si ricorda qualcosa che dovrebbe essere patrimonio culturale di tutti. E l’art. 112 della Costituzione stabilisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Un altro aspetto che ho voluto approfondire nella parte che mi ha riguardato, sono i principi della disciplina militare, cercando pure di evidenziare alcuni aspetti poco conosciuti di queste vicende, che poi vengono riportate nella migliore delle ipotesi in maniera parziale, spesso in maniera infedele ed addirittura travisata, deformando completamente la realtà, ed impedendo un corretto esercizio della memoria. 

Ordini criminosi od illegittimi: il dovere per il militare di disubbidire, dal 1978 in poi. Ma anche prima …       

Noi abbiamo una bellissima legge, la n. 382 dell’11 luglio 1978, che si chiama: ‘Norme di principio sulla disciplina militare‘, che gli amici in prima fila, ed anche in terza fila e più in là, conosceranno sicuramente, che stabilisce un principio molto importante per le nostre Forze Armate, e che è stata oggetto anche della mia prova di diritto penale militare al concorso in Magistratura Militare. Essa tratta il problema dell’obbedienza o disobbedienza agli ordini illegittimi. E in quella legge si fa riferimento non solo all’obbligo per il militare di non eseguire gli ordini illegittimi, ed a maggior ragione gli ordini criminosi, ma si indica, pure, che egli deve, poi, farsi parte attiva per evitare che questi ordini possano raggiungere lo scopo illecito o criminale. E quindi, facendo tesoro di quello che avevo studiato all’ università ed anche durante il mio servizio militare, mi sono reso conto che questi principi sull’obbligo di disobbedire per il militare all’ordine palesemente criminoso erano un qualcosa che era, sostanzialmente, la spina dorsale di questi fatti. 

Invece, nella pseudocultura, nel sottobosco culturale che sta sotto questi argomenti, ci si trincera spesso e volentieri dietro il paravento dell’ordine, per cui sotto le armi od ancora meglio in guerra tutto è possibile perché tutti devono eseguire gli ordini. Ma nel regolamento di disciplina militare precedente a quello attuale, si diceva che, e mi corregga se sbaglio, generale, una delle qualità della disciplina era che l’obbedienza doveva essere cieca. Pensate che diversità rispetto al mondo attuale. Ma in realtà così non era, perché qualsiasi comandante sa che non può esigere l’esecuzione di crimini dai propri sottoposti, a meno che non possa contare su di un manipolo di criminali.

E se qualcuno avesse ancora qualche dubbio su questo, io ricordo sempre una bellissima osservazione che fece Paolo Pezzino. Io e Paolo Pezzino ci siamo conosciuti perché nominai Paolo Pezzino consulente tecnico della Procura Militare di La Spezia nei primi grandi processi che svolsi: Sant’ Anna di Stazzema e Marzabotto. Nel corso del primo dibattimento sul caso di Sant’ Anna di Stazzema, con riferimento alle direttive criminali di Kesselring, quelle che ha menzionato poco fa, egli disse che se tutti i comandanti tedeschi in Italia avessero eseguito le direttive di Kesselring così come furono eseguite dai comandanti della sedicesima Divisione SS, noi in Italia non avremmo avuto 25.000 morti da crimini di guerra, ma avremmo avuto milioni di morti.  Perché grazie al cielo, la stragrande maggioranza dei comandanti militari tedeschi in Italia non erano criminali. Questo rende evidente la criminosità di quello che è successo.

Per massacrare donne e bambini occorre un tasso di criminalità non di poco conto. Infatti non si può eseguire un ordine del genere se non si è criminali o completamente dementi. Per poter massacrare più di 4000 soldati italiani a Cefalonia, c’è voluta la costituzione di due gruppi di combattimento appositi, che sono venuti a prendere il posto di quelli che non riuscivano a fare i macellai.

Ecco questi sono alcuni degli argomenti su cui, tra i tanti, ho cercato di riflettere

Ecco questi sono alcuni degli argomenti su cui, tra i tanti, ho cercato di riflettere, e che penso possano essere utili, attuali, perché purtroppo la guerra ha la stessa ‘sostanza’ in qualsiasi epoca. Quindi quello su cui abbiamo riflettuto in queste indagini, in questi processi, è qualcosa che può sicuramente servire ai nostri giovani, ai nostri ragazzi, ai nostri militari che, grazie al cielo, crescono in un ambiente culturale, spirituale, di valori completamente diversi.
Ma noi però dobbiamo conoscerli questi valori ed anche questi disvalori, e, scusate la presunzione, ma con questi processi c’è la possibilità di fare un po’ di chiarezza. Un caso per tutti. È stato nominato qui il caso delle ‘fosse Ardeatine’. C’è voluta la Corte di Cassazione nel 1999, 55 anni dopo i fatti, per stabilire che l’azione di via Rasella non era un attentato ma era una azione di guerra, a fronte della quale non vi era la possibilità giuridica di eseguire quella che impropriamente viene chiamata una rappresaglia, perché le rappresaglie non hanno un contenuto penale, tanto che si parla di rappresaglia in maniera impropria, perché le rappresaglie riguardano i rapporti fra Stati, non le reazioni a comportamenti individuali.

Fra l’altro, ricordo a me stesso: come una rappresaglia si sarebbe potuta realizzare contro il proprio stesso popolo? La cosiddetta ‘Repubblica Sociale’ e i tedeschi che occupavano l’Italia avrebbero fatto una rappresaglia contro i propri sudditi? Semmai avrebbero dovuto prendere dei sudditi che erano nel territorio controllato dal Re, ed allora quella sarebbe stata una rappresaglia. Basterebbe questo aspetto, per esempio, per far riflettere come siamo, in questo caso come in altri, fuori da ogni regola del diritto.  

Pertanto lo scopo di queste nostre riflessioni è quello di cercare di dare dei punti fermi, nell’ottica storica, a chi fa il mestiere dello storico, ed è quello di rendere note delle cose su cui, nella migliore delle ipotesi, è caduta la prescrizione culturale o la prescrizione intellettuale, a chi, come me, fa un mestiere diverso, un mestiere di ‘luce’. Ciò è reso ancor più necessario dal fatto che il pericolo di travisamento o oblio potrebbe derivare anche da internet, che è una cosa bellissima, ma diffonde anche molto rapidamente delle pseudo notizie o peggio ancora delle informazioni non vere, non veritiere, inverificabili. Questo pertanto è il senso della pubblicazione, quello di cercare di far conoscere, in qualche maniera, quello che è avvenuto nelle aule giudiziarie di qualche tribunale militare. Dal dopoguerra ad oggi i processi che abbiamo celebrato senza grande notorietà, senza grande diffusione mediatica, a La Spezia e poi, successivamente, a Verona ed a Roma, sono stati quelli con il maggior numero di parti civili che si siano viste dal dopoguerra ad oggi. Questo per il semplice fatto che stiamo parlando di fatti che hanno interessato centinaia di migliaia di famiglie italiane. Certamente sono fatti vecchi, ma nel nostro ordinamento, così come negli ordinamenti giuridici dei paesi civili, esiste l’imprescrittibilità dei fatti più gravi, dei reati più gravi.
E io ricordo sempre, quando qualcuno mette in discussione, in maniera che io reputo insolente, l’opportunità o la doverosità di compiere questi processi anche a distanza di tempo, che, a parte l’obbligo previsto dall’articolo 112 della costituzione, il lutto, il danno per la parte civile non va mai in prescrizione: si è orfani per sempre.

E sinceramente, quando nell’aprile del 2002, praticamente il giorno successivo alla mia presa di possesso del mio ufficio presso la Procura Militare di la Spezia, in televisione guardai il servizio di Udo Gumpel su quei quattro ex appartenenti alle SS che si diceva alla televisione avessero massacrato centinaia di italiani, e sentii che rispondevano tranquillamente alle sue domande, perchè nessuno, sino ad allora, li aveva mai disturbati per chiedere loro conto delle proprie azioni,  ho capito che c’era qualcosa che non andava, che c’era qualcosa che non poteva assolutamente esser tollerato, perché, diversamente, avrebbe messo in discussione la mia stessa funzione.
E quindi ho trovato assolutamente naturale svolgere semplicemente il mio dovere. E questo, benché fosse qualcosa di straordinario, nel senso che usciva dall’ordinarietà dell’inattività precedente, ed era qualcosa che andava, in qualche maniera, illustrato anche con un linguaggio accessibile a tutti, anche a tutti coloro che non riuscivano a seguire i processi, anche perché, tra l’altro, erano processi che erano poco pubblicizzati.

Pensate che all’ultimo processo che abbiamo svolto, quello per la strage di Cefalonia al tribunale militare di Roma, laddove abbiamo ascoltato decine di testimonianze di sopravvissuti della Divisione Aqui, in aula c’erano pochissimi uditori, poco più di qualche parente, nel momento in cui si ricostruiva, anche in maniera difforme da quella che si legge in molti libri di pseudostoria, quello che era successo a Cefalonia. E questa è una cosa che mi ha lasciato molto perplesso. Quindi nessuna presunzione di chiarire ‘misteri d’Italia’, ma, sinceramente, un tentativo di fare memoria di quello che è stato e di quello che dovrebbe essere da tutti conosciuto. Mi fermo qui e vi ringrazio per la vostra attenzione».