Questa inchiesta fu pubblicata su l'Europeo nel gennaio 1977 ed il direttore del giornale, Gianluigi Melega, fu licenziato in tronco. Sui finanziamenti attuali alla Chiesa cattolica v. qui. Questo immenso patrimonio s'è accumulato attraverso un processo secolare di sedimentazione e, più recentemente, con l'afflusso di lasciti e donazioni da parte di cittadini italiani, autorizzati una volta dal re, ora dal presidente della Repubblica. Spesso la Santa Sede non tiene in gran conto le condizioni cui sono sottoposte le donazioni. Una volta che il bene è nelle sue mani ne dispone a piacimento. Spesso l'orfanotrofio o l'asilo voluto dal pio defunto autore della donazione viene, dopo pochi anni, trasferito altrove o semplicemente lasciato andare in malora. Ci sono casi in cui (per esempio due palazzi di via Sant'Andrea delle Fratte donati alla veneranda confraternita del Santissimo rosario di Besazio, diocesi di Lugano, con «l'onere di una messa quotidiana nella cappella del Santissimo rosario a Besazio, un anniversario, due doti per nubendo o monacande di scudi romani trenta con vesti bianche per scudi romani cinque»), l'acquirente (sempre nel caso in esame si tratta della "Milena immobiliare srl" che ha comprato nel '74 i due stabili per soli 160 milioni, praticamente un regalo) oltre alle case s'è preso anche l'onere di far celebrare le messe in Svizzera e di trovare le vesti bianche per le monacande, conteggiando anche il valore attuale dello "scudo romano". Probabilmente la "Milena", a sua volta, dopo aver ristrutturato i palazzi, venderà, insieme agli appartamenti, anche quote di messe e di vesti bianche. La gestione del patrimonio della Santa Sede gode di una rendita di posizione rispetto a quello dello Stato italiano. Non è sottoposto a controlli, non ha bisogno di autorizzazioni. Il papa ha nominato con un chirografo del 13 maggio del '69 il cardinale Jean Villot, attuale segretario di Stato, presidente del patrimonio della Sede Apostolica. Villot, a sua volta, rilascia una procura negoziale a un monsignore di sua fiducia. Segue una specie di catena di firme autenticate: quella del "notare attuario delegato", della segreteria di Stato pontificia, della nunziatura apostolica, per finire alla Farnesina sul tavolo del ministro degli Esteri [il quale] formalizza il tutto, senza entrare nel merito. Tra i moltissimi, abbiamo scelto i casi più clamorosi che dimostrano ciò che abbiamo detto più sopra a proposito dei recenti movimenti che interessano il patrimonio immobiliare romano della Santa Sede. Il 4 dicembre del 1970, la Santa Sede vende alla Banca d'Italia il palazzo Antonelli di via Quattro Novembre (a cento metri dal Quirinale e dirimpetto alla sede principale della stessa Banca d'Italia) per un miliardo e mezzo. Questo fabbricato era arrivato alla Santa Sede per un "legato della contessa Maria Emma Garcia della Palmira vedova Antonelli" nel 1932. Lo stabile era già occupato dalla Banca d'Italia che pagava 44 milioni l'anno alla Santa Sede per affitto. Tutto l'isolato è alto sei piani, 1.350 metri quadrati di superficie. Questa operazione non è costata una lira di tasse né alla Banca d'Italia né tantomeno alla Santa Sede. In precedenza la Banca d'Italia s'era già affacciata in zona acquistando un palazzo di sette piani con ingresso su via Parma e via della Consulta (i lavori di restauro sono iniziati da poco). La compravendita avvenne per soli 240 milioni: l'altro contraente era la "Immobiliare Paco spa" che due anni prima aveva acquistato lo stesso stabile per 200 milioni dalla Congregazione delle suore scolastiche del Terz'Ordine di San Francesco d'Assisi di Cristo Re. A loro volta, le suore lo avevano avuto in donazione nel 1957 dalla Casa generalizia dell'Ordine dei frati minori francescani. Questi frati detengono un record: sono stati gli unici colpiti da un sequestro per lavori abusivi in un enorme stabile di loro proprietà in piazza della Pigna 24, in pieno centro storico. Ristrutturazione L'esempio era già stato dato dalla Banca Nazionale del Lavoro il 14 luglio del 1962, quando dal Pontificio Collegio Beda, per 355 milioni comperò un fantastico palazzo di sette piani all'angolo fra via del Basilico e via San Nicola da Tolentino, proprio di quinta a via Veneto. La banca fu fortunata: il palazzone aveva già ottenuto una licenza di restauro che gli stessi religiosi avevano già iniziato a compiere. Ancor oggi c'è una parte degli uffici della sede centrale della banca (che, a mano a mano, si impossessò di tutto l'isolato all'intorno). C'è però anche un'inchiesta penale che si trascina: i lavori superarono i limiti concessi dalla licenza e il Comune ha chiesto (ma non ha ancora ottenuto) un risarcimento di alcuni miliardi. Un altro affare con la Santa Sede lo ha fatto il Banco di Roma che, il 25 giugno del '71, ha comprato per 550 milioni un grande palazzo di sei piani a via dell'Umiltà (cento metri da piazza Venezia e adiacente alla sede centrale del Banco). Gli inquilini sono stati in parte sfrattati, in parte allontanati con una buonuscita. I lavori di ristrutturazione sono cominciati proprio in questi giorni. Anche questo mezzo miliardo abbondante è entrato nelle casse del Vaticano assolutamente indenne. Il 28 gennaio di quest'anno un'altra banca, il Credito Artigiano di Milano, ha acquistato dalla Santa Sede (che questa volta è comparsa dietro il nome di "Luoghi Pii dei catecumeni e neofiti di Roma", ente presieduto dal vicario di Roma, Ugo Poletti) un grazioso palazzetto in via Selci 88 (a cento metri dal Colosseo) per 500 milioni. Ne farà la sua sede, nonostante i divieti del piano regolatore. Particolare curioso: i due ettari di terreno adiacenti e una parte dello stesso fabbricato sono andati invece, lo stesso giorno, a una società di Milano, la "Nibbio spa", per altri 650 milioni. È una società collegata al Credito Artigiano. Anche qui sono cominciati i lavori di restauro la cui licenza era stata concessa fin dal 1975, cioè prima della stessa vendita. Cosa diavolo ne faranno di quel terreno? E invece la "Intereuropea Assicurazioni" che per un miliardo si assicura, nell'ottobre del '73, palazzo Alberini (un piccolo capolavoro di Giulio Romano, allievo di Raffaello) in via Banco Santo Spirito, di fronte al Castel Sant'Angelo, e un vecchio fabbricato adiacente in vicolo San Gelso. Palazzo Alberini era l'antica dimora del "Pontificio collegio portoghese". I lavori di restauro sono stati però sospesi e il palazzo sequestrato per ordine del pretore Adalberto Albamente per "abusi edilizi". La "Intereuropea" (di cui uno dei consiglieri è l'ex-ministro socialdemocratico Giuseppe Lupis) aveva addirittura chiesto l'applicazione della legge Tupini e la demolizione del fabbricato considerato un gioiello architettonico. A onor del vero la Santa Sede s'era opposta a tanto scempio. In cerca non di una sede ma di buoni investimenti, ecco che l'Italcasse si affaccia in Vaticano e, attraverso la Socogen, mette le mani sull'ex-Collegio Internazionale dei Cappuccini compresa la chiesa di San Lorenzo da Brindisi. Un immenso quadrilatero delimitato da via Boncompagni, via Puglia, via Sicilia e via Romagna (siamo alle spalle di via Veneto). I Cappuccini l'avevano venduto alla Socogen di Milano il 29 aprile del '70 per 5 miliardi e 700 milioni. Dopo i lavori il collegio è scomparso e della chiesa resta solo l'involucro. Qui verrà un super residence con piscina, alloggi, biblioteche, sale riunioni. Sull'area dell'ex-collegio è in via di ultimazione un monumento di uffici, abitazioni, studi professionali e negozi. Negli scantinati si possono ancora vedere i resti delle antiche mura romane inglobate nel calcestruzzo. Per capire di chi è la Socogen basta ricordare che il presidente è un tale cavaliere del lavoro Alessandro Alexandri, presidente anche dell'asilo Santa Rita e console onorario di Malta, Questo ben di dio è stato comperato dall'Italcasse il 5 aprile del '73 per la bellezza di 24 miliardi. A rappresentare, l'Italcasse nell'affare c'è andato Giuseppe Arcaini in persona. Un altro residence (superlusso, due milioni al metro quadrato è il suo prezzo di vendita, la Socogen questa volta si limita a compiere i lavori di restauro), è spuntato nella famosissima ed esclusiva via dell'Orso della Roma dei Borgia. È un palazzo rinascimentale donato nel 1945 alle suore Orsoline di Somasca per venire «in aiuto alle opere di religione e beneficenza». Il 28 febbraio del '73 le suore si liberano del palazzo per poco meno di 400 milioni. È la "Senofonte srl", controllata però dalla fantomatica "Satafinco Trust et placement reg." di Vaduz, la nuova proprietaria. Amministratore della "Senofonte" è l'avvocato Tommaso Addario, condirettore generale dell'Italcasse e braccio destro di Giuseppe Arcaini. Tommaso Addano, dimissionario dopo l'operazione, ricompare nel maggio di quest'anno e con 840 milioni in contanti diventa il legittimo proprietario degli otto migliori appartamenti del complesso. Forse l'affare è stato meno buono del previsto: dopo l'intervento del collettivo extraparlamentare di Tor di Nona ("L'asino che vola", autore degli ormai famosi murales) il residence di via dell'Orso è stato messo sotto sequestro per lavori «eseguiti in difformità delle licenze» (i dodici appartamenti previsti erano diventati ventiquattro). L' 11 dicembre del '74, la Santa Sede vende sei ettari e mezzo, più una villa detta "I tre colli", che ospitava la sede della "Loyola University", in via della Camilluccia 180 (è la via delle ville più chic nella zona nord di Roma), alla "Minerva spa" di Roma per un miliardo e mezzo. La "Minerva", al momento dell'operazione era controllata da due fiduciarie della Banca Nazionale del Lavoro e della Banque Nationale de Paris. Ora su quei sei ettari c'è il residence "Tre colli". Amministratore unico è il dottor Claudio Reichlin di Milano, segretario del consiglio d'amministrazione della Ras, dell'Assicuratrice Italiana, del Lloyd Siciliano. Come una ciliegia sulla torta, le stesse due banche hanno comperato il 30 giugno del '75, attraverso la "Fioranna srl", per 290 milioni, anche un terreno confinante di poco più di un ettaro. Anche questi due miliardi sono finiti nelle casse del Vaticano, senza colpo ferire. Il residence più esclusivo di Roma si chiama "Residence Aldrovandi". Si affaccia sullo zoo di Roma ed è nel cuore dell'angolo più sofisticato del quartiere Parioli. Fino a qualche anno fa era il liceo Cabrini delle suore missionarie del Sacro cuore di Gesù. Lo vendettero, o meglio lo regalarono, alla Immobiliare Aldrovandi spa di Napoli per 250 milioni, una sciocchezza per 2.500 metri quadri di terreno, compreso l'edificio del vecchio collegio. L'Immobiliare Aldrovandi ha anche acquisito la prelazione sul resto della proprietà delle monache che, dietro il residence, confina con le tre strade più eleganti della città. Le pie missionarie hanno reinvestito il capitale e, aggiungendoci altri 80 milioni, si sono trasferite in un villino di via Cortina d'Ampezzo 269, altra zona residenziale che corre parallela alla via Camilluccia e di cui abbiamo già parlato. In cima a via Veneto è scomparsa un'altra scuola, l'Assunzione, collegio per le ragazze della buona borghesia prebellica. Per un po' l'edificio ha ospitato il Collegio pontificio francese. Ora ci si può specchiare nel ferro e vetrocemento del lussuoso Jolly Hotel. L'Italjolly comperò tutto il blocco nel 1967 per un miliardo e 145 milioni. Doveva costruire un albergo, ma non di lusso. Naturalmente, il vincolo è stato disatteso. Donazioni Le suore d'Egitto di via Cicerone (cioè le francescane missionarie del cuore immacolato di Maria), il 28 maggio del '71 abbandonarono un'altra scuola, a due passi da piazza Cavour, al suo destino. La "Residence Cicerone spa" acquistò il caseggiato e il terreno delle suore per un miliardo e 100 milioni. Demolì il tutto e ricostruì un albergo di prima categoria. Per 4 miliardi e mezzo l'albergo (undici piani per 2.500 metri quadrati), passò alla "Genghini spa". In realtà rivendette a se stessa, poiché la Residence Cicerone era fin dall'inizio controllata da Mario Genghini, presidente dell'Immobiliare, attraverso la società di comodo "Socan Holding" del Lussemburgo. Un classico rigiro di coperture fiscali. Un altro convento s'è trasformato in albergo dopo un passaggio intermedio fra enti ecclesiastici. Di proprietà della Curia generalizia dell'Istituto della Sacra Famiglia di Nazareth, il convento di via Machiavelli 22 (siamo accanto a Santa Maria Maggiore) fu "donato" alla Procura generale dell'Istituto dello Spirito Santo. Il valore della donazione (cento milioni) raddoppiò il mese successivo quando l'istituto lo rivendette alla "Machiavelli srl" il cui amministratore era Francesco Fina. La questura concesse all'albergo la licenza di esercizio limitatamente all'Anno Santo. Curioso, l'albergo fu inaugurato senza nemmeno le regolari licenze di costruzione. La Casa generalizia della Congregazione delle suore di Nostra Signora della Carità del Buon Pastore, l'8 novembre del '72 vendette per 400 milioni un terreno di due ettari all'inizio della via Aurelia, già munito di licenza, alla "Aurelia Palace spa", che aveva come azionista di maggioranza la "Primalux Holding", società anonima del Lussemburgo. Da due anni però ha cambiato nome: si chiama "Midas Hotel" spa, presieduta da Aldo De Luca. Abche la "Midas" è controllata da una società lussemburghese che, guarda caso, si chiama anch'essa "Midas". Tutto ciò per ammirare, da due anni, un albergo enorme, il più vicino in linea d'aria all'aeroporto di Fiumicino. Una donazione alla Procura generale dell'Istituto dello Spirito Santo (un terreno di due ettari e mezzo in via Aurelia Antica 162) è finita per 915 milioni nel corso del '73 all'"Immobiliare Consea spa" con sede a Roma in via Lovanio 2. A quest'indirizzo troviamo un ospite illustre: le "Condotte d'acqua", società in parte controllata dall'Iri, azionista della "Consea", insieme all'olandese "Four Seasons Hotels Administration". Ora su quel terreno c'è un cantiere. Doveva esserci già un albergo, ma tutto è ancora sotto sequestro. Un esempio della sorte riservata alle donazioni è dato da un terreno di 101 ettari piovuto dal cielo nel 1969 alle Opere di Religione. Il terreno, che corre accanto al raccordo anulare vicino alla località chiamata "Magliana", fu venduto, appena due anni dopo, dalle stesse "Opere" alla società "Alitalia" per 2 miliardi 119.981.500 lire. Che fossero stati, invece, tre milioni e mezzo di dollari? Buoni affari con la Santa Sede li ha combinati anche il costruttore Alvaro Marchini il quale, il 2 ottobre del '65, ha acquistato dalla "Provincia Italiana della Congregazione dei Servi della Carità" (Opera don Guanella di Como), due palazzi a un passo dal Colosseo, uno in via Celimontana 16 e l'altro in via dei Santi Quattro Coronati, attraverso la sua società "Pomar Immobiliare spa". Il prezzo fu incredibile: 50 milioni per tutt'e due. Gli "Ibemesi" (che sono poi i frati minori irlandesi) il 31 ottobre del '68 vendettero, invece, il solo diritto di superficie del sottosuolo del giardino del convento di Sant'Isidoro, tra via Crispi, via Ludovisi, via degli Artisti (siamo a un passo da via Veneto), alla "Edilcrispi spa". Adesso, sotto il giardino, c'è un parcheggio sotterraneo di quattro piani per una superficie utile di 17.700 metri quadri. Il presidente della "Edilcrispi" è Pellegrino De Strobel che risulta, fra l'altro, vicepresidente della "Vianini" il cui capitale, quotato in borsa, è controllato per il quaranta per cento dall' "Istituto per le Opere di Religione", la grande finanziaria vaticana. Solo che, di questo quaranta per cento, una parte è di proprietà della "Immobiliare Tirrena spa", nata nel 1928. Ha un capitale di 2 miliardi e settecento milioni. Il novanta per cento è sempre delle "Opere di Religione". Il resto è della fantomatica "Etablissement Herold" di Vaduz. La "Tirrena" denuncia nell'ultimo bilancio proprietà di terreni per 9 miliardi e 100 milioni, fabbricati per 5 miliardi e 600 milioni. La "Vianini", naturalmente, è socia di maggioranza della "Edilcrispi": il socio di minoranza è, altra sorpresa, la "Ambrolat Anstalt" di Vaduz, amministrata dal console svizzero a Vaduz. Ai frati ibemesi andrà, in canoni trimestrali, un miliardo e 600 milioni. Dalla parte opposta di via Ludovisi, attraversato l'incrocio con via Veneto, ritroviamo la Socogen che acquista dalla Curia generalizia dell'istituto delle suore del Santo Bambino di Roma, il 15 dicembre del 1972, un palazzo di cinque piani (più un altro corpo secondario con giardino) in via Boncompagni 8. La Socogen sborsa 700 milioni e sei mesi dopo rivende il tutto alla "Immobiliare Rattazzi spa" di Milano per 2 miliardi e 650 milioni. I lavori di ristrutturazione del vecchio stabile sono in corso. Cosa ne uscirà è ancora un mistero. Il 15 febbraio del 1972 sparisce la "Congregazione dei frati della Carità" detta anche "dei frati bigi". Tutti i beni dei frati rientrano nelle capaci braccia della Santa Sede. Tutto l'ex-convento dei "bigi" tra via Emanuele Filiberto, viale Manzoni, via Tasso (siamo esattamente a metà strada fra il Colosseo e San Giovanni), viene venduto il 2 maggio del '75 alla "Edif Immobiliare sri" di Roma, per 1 miliardo e 50 milioni. La "Edif" sta trasformando tutto in uffici. Peccato però che la "Edif" esiste solo sulla carta: è una società ombra controllata per il novantanove per cento dalla "Costruzione Franconetti Sas", il cui socio accomandante è al novanta per cento la "Modem Building Corporation" di Panama. Ha cambiato bandiera anche un enorme quadrilatero tra via Lanza, largo Visconti Venosta, via Cavour e via Sforza. Era dell'Istituto delle figlie del Sacro Cuore di Gesù, che il 21 dicembre del '73 lo vendettero, diviso in tre lotti, ad altrettante società collegate: la "Iniziativa Immobiliare romana spa", la "Iniziativa Immobiliare Cavour spa" e la "Fondiaria Giovanni Lanza spa". Le tre società appartengono per il novantotto per cento alla Banca di Credito e Commercio di Lugano. Le suore intascarono 1 miliardo e 400 milioni. I lavori di trasformazione della vecchia scuola sono ancora in corso. Sono imponenti, c'è dietro un mutuo dell'Iccrea di 4 miliardi, acceso nel maggio di quest'anno. Presa dall'ansia di reinvestire il suo patrimonio, la Santa Sede in periodi successivi si disfa persino dell'intero complesso di via della Dataria (fra il Quirinale e Fontana di Trevi) che, per una parte, era riconosciuto dai Patti Lateranensi come extraterritoriale. Il 24 ottobre del '72 la "Edilappia '77 srl" se ne aggiudica una fetta per soli 200 milioni. L'"Edilappia" dei tre fratelli Tonelli (un ingegnere, un architetto, un avvocato) ha trasformato tutto in studi e appartamenti. Le vendite sono già iniziate. Due mesi più tardi, la Santa Sede in pratica regala una seconda fetta della Dataria alla società "I Muschi", costituita a bella posta. Con soli 17 milioni, la piccola società si assicura uno degli angoli più caratteristici di Roma: piazza Scanderbeg. Lì vivono ancora gli antichi inquilini, ma "I Muschi" non hanno fretta, considerando anche l'insignificante immobilizzo di capitale. La terza fetta della Dataria parte il 29 ottobre del '73. È una fetta piuttosto grossa che occupa l'angolo della via omonima con via San Vincenzo che scende verso Fontana di Trevi. Anche questo è un regalo piovuto nelle tasche della "Dataria di Roberto Palea & C. sas" di Torino per soli 170 milioni. Anche la "Dataria" ha ristrutturato e ha messo in vendita appartamenti e uffici di lusso. Solo due mesi dopo l'operazione si completa con la vendita del pezzo forte. L'acquirente è l'Ansa, l'agenzia nazionale di notizie che per 650 milioni in contanti e 825 di mutuo entra nel corpo principale dell'antico palazzo extraterritoriale (3.900 metri quadri per quattro piani). L'interno, questa volta, non è stato ristrutturato. Per questa transazione, trattandosi di "immobile situato in Stato estero", è stata pagata solo la tassa fissa di duemila lire. Nomi di comodo Per soli 280 milioni, il 26 giugno del '74 la Santa Sede vende un palazzo di quattro piani con giardino in via di Priscilla 12-14, in faccia al parco di Villa Ada e attiguo all'ingresso delle catacombe di Santa Priscilla. Chi compra è la "Delta Tau '74 srl", centomila lire di capitale, del conte Piero Spalletti. La "Delta Tau '74" nasce per questa specifica operazione insieme a due sorelline: la "Tau Delta '74" e la "Delta Sigma '74". Per ora, il conte Spalletti si limita a riscuotere affitti per dieci milioni l'anno. Le suore francescane dell'Immacolata concezione di Belle Prairie abbandonano nel luglio del '70 la sede della congregazione in via Dandolo (siamo nel centro di Trastevere) angolo via Fabrizi. Alle suore subentra per 600 milioni la "Villa delle Mimose srl" (l'amministratore è di nuovo Francesco Fina, già incontrato con la "Machiavelli srl"). Tra i soci di minoranza si trova la "Cespelminis Holding", società anonima di Ginevra, 500 milioni di capitale. Il fabbricato è stato raso al suolo. La licenza era stata concessa per la costruzione di «civili abitazioni non di lusso». Invece alla fine del '74 si poteva ammirare un palazzo di nove piani, 27 appartamenti, altrettanti box, sei ascensori, impianti termici e di condizionamento, una piscina. Le "Maestre Pie Venerini", ente religioso di "educazione e istruzione", il 24 luglio del '70 vende per 225 milioni, un prezzo veramente irrisorio, due fabbricati, uno in via del Teatro Pace, e l'altro in via del Governo Vecchio 62 (palazzo seicentesco, vincolato dalle Belle Arti), alla "Restauri Centro Storico" srl. La "Rcs" ha subito rivenduto il primo palazzo e ha presentato i progetti di trasformazione del secondo. Come mai le pie maestre hanno praticato un prezzo così ridicolmente basso? La risposta è agevole. La "Rcs" non è altro che una diversa etichetta dell'Immobiliare, unica azionista e, com'è noto, all'epoca controllata interamente dal Vaticano. A proposito di questa "Restauri Centro Storico" è necessaria una breve parentesi: ci si era sempre chiesti come mai l'Immobiliare trascurasse il centro storico della città. Si potevano vedere i cantieri con le tabelle dei "Beni Stabili", di altre società importanti, ma l'Immobiliare non figurava mai. Ora il mistero non è più tale: all'interno delle mura Aureliane, l'Immobiliare preferisce farsi chiamare "Restauri Centro Storico". Così ha modificato le antiche strutture di via di Grottapinta 41, via di Monterò 15, via Giulia, via dei Cimatori, via in Caterina 83, vicolo delle Palle. I suoi clienti preferiti restano sempre o enti morali, o opere pie ed ecclesiastiche. Infine, abbiamo pescato, per un caso, alcuni esempi di società ombra gestite direttamente da enti ecclesiastici e dal Vaticano. La società agricola immobiliare "Cafaggiolo srl", che apparteneva fino al maggio del '76 alla comunità dei Cistercensi riformati (sono i noti Trappisti), è passata alle stesse "fiduciarie" del residence "Tre colli" di cui abbiamo parlato più sopra: la "Servizio Italia" e la "Saf". La sede, in via San Nicola da Tolentino, dice tutto: è la stessa sede della Banca Nazionale del Lavoro. La "Cafaggiolo" possiede un palazzo in via San Nicola dei Cesarmi 5 (adiacente a piazza Argentina, due passi da piazza Venezia), un magazzino in via Monteverde 240 (è il deposito delle cioccolate e del centerbe dei Trappisti?), un terreno in località "La mamma", mezzo ettaro sulla via Laurentina dove poi hanno eretto la nuova casa generalizia. Altre società di questo tipo sono la "Pro Juventute", la "Pro Infantia", la "Pro Orfanis", la "Pro Castris". La Pro Juventute srl è nata nel 1950, con sede in via della Conciliazione 10, capitale 900 mila lire, ed è amministrata da Luigi Mennini, un grosso personaggio del mondo degli affari vaticani. Appena nata, la "Pro Juventute" si mise in moto. Comperò dai "Canonici regolari premostratensi" (come a dire che il Vaticano vendette a se stesso) un immenso palazzo di cinque piani vincolato dalle Belle Arti in via Urbana 157, ai piedi di Santa Maria Maggiore. Prezzo pattuito: 52 milioni e mezzo. Oggi però questa società risulta debitrice nei confronti della Santa Sede di 63 milioni. La "Pro Infantia" è nata sempre nel 1950, stesso indirizzo, stessa sede, stesso amministratore. Non risulta però aver fatto affari nella città di Roma. La "Pro Orfanis" nacque un anno più tardi. Anche questa è stata costituita per intraprendere affari immobiliari. Fra i suoi soci ce n'è uno illustre: le Opere di Religione. Aveva un ettaro di terreno alla Pineta Sacchetti (siamo sul Monte Mario) che è passato all'Inpdai negli anni '60, quale nuovo azionista. L'ultima è la "Opus pro Castris srl", anche questa nata nel '55, stessi dati caratteristici, che acquistò subito un villino di 4 piani in via Monte Nevoso 8, nel quartiere di Montesacro. Lo pagò dieci milioni. L'amministratrice di questo villino, destinato a «opere di religione», è suor Maria Giuseppa Cinotti di Campobasso. Tre anni fa fu deciso di donare il villino alle "suore della Sacra Famiglia di Bordeaux . Ma ancora le suore non si sono decise. Forse perché in attesa della nuova legislazione concordataria. Queste sono vere e proprie mimetizzazioni societarie. Qui ci troviamo di fronte a beni vaticani gestiti però da società che sono di fatto e di diritto, italiane. Dovrebbero essere sottoposte alle nostre leggi, al nostro fisco. Ma sono "srl" di comodo con tutti i vantaggi che ne seguono. Queste cinque le abbiamo trovate per caso tra le duecentomila società registrate presso il tribunale di Roma quante altre se ne nascondono? Ecco l'interessante quadro che presenta la Santa Sede nell'esposizione dei suoi beni immobiliari, solo prendendo in esame la città di Roma, anche se è vero che soprattutto nella capitale questo particolare aspetto delle ricchezze vaticane s'è, negli anni, concentrato. Le guarentigie racchiuse negli articoli del Concordato e nella legge di attuazione del febbraio 1929 garantiscono a questo patrimonio un invidiabile regime di evasione fiscale legalizzata. E questo sarebbe pure stato ammissibile quando la Chiesa giustificava il riconoscimento di questo particolare status giuridico con il fatto che, altrimenti non avrebbe potuto mantenere comunità religiose, ordini, monasteri e conventi che, di per sé, non producono alcun reddito e che al contrario, hanno come "scopo sociale" le beneficenze, le assistenze ai poveri, agli ammalati. Ma dal momento che la Santa Sede rimette in movimento questo ingente patrimonio e lo ricicla con transazioni vere o fittizie a puri scopi speculativi, la pace fiscale accordata al potere regnante dentro le mura leonine non ha più senso. Le pie suore impegnate in improduttivi servizi di misericordia meritano forse la tregua fiscale. Ma non le pie suore che smistano impunemente cifre che, male che vada, sono dell'ordine di miliardi. A questo punto seguono ben 7 pagine del settimanale fitte fitte di tutte le proprietà terriere ed immobiliari del Vaticano. L'Osservatore Romano si scaglia frontalmente contro Ojetti, ma Melega non si lascia intimidire e continua con l'inchiesta con un secondo articolo dal titolo: I mercanti di San Pietro ed i conti delle finanza vaticana Sarà perché è uscita alla vigilia del terzo incontro fra il sindaco [di Roma] Giulio Carlo Argan e Paolo VI, sarà perché ha scosso un Parlamento poco attento agli slalom governativi sulle materie fiscali della nuova carta concordataria, sarà perché i radicali ne hanno fatto oggetto di interpellanze e mozioni, fatto sta che l'inchiesta sul patrimonio immobiliare del Vaticano pubblicata dall'Europeo ha provocato una serie di reazioni interessanti: il comune di Roma ha annunciato di voler censire tutti i beni vaticani presenti nella capitale; il Parlamento ha aperto gli occhi sulla "bozza" del nuovo Concordato; L'Osservatore Romano ha preso la penna e, in due fitte colonne di piombo sulla prima pagina del numero del 6 gennaio, ha chiarito il pensiero della curia in merito a quei servizi giornalistici che si permettono di alzare un timido velo sugli affari ecclesiastici: il nostro lavoro - secondo il giornale vaticano - era disinformato, falso, anticulturale, confusionario, irresponsabile, scandalistico, anticlericale, goffo.Per evitare una inutile polemica verbale, andiamo alla sostanza. Le accuse dell'Osservatore sono: di aver confuso i beni immobiliari della Santa Sede garantiti dal Trattato del 1929 come "extraterritoriali" con tutti gli altri; di aver surrettiziamente detto che il Vaticano ha, in ultima analisi, il controllo sui beni degli enti ecclesiastici; di aver sostenuto che Vaticano ed enti religiosi godono di incredibili privilegi fiscali. Non c'è dubbio che una cosa sono i beni immobiliari che, inseriti nel Trattato, godono del privilegio della "extraterritorialità", e una cosa siano tutti gli altri beni della Santa Sede e degli enti ecclesiastici. Nell'inchiesta erano tenuti, infatti, accuratamente divisi. Abbiamo persino "integrato" il testo del Trattato con le estensioni previste da leggi successive, tanto che aggiungemmo il palazzo dei "convertendi" di via della Conciliazione (scambio di note tra ambasciate nel 1937), i terreni e i fabbricati allegati alla villa Barberini di Castelgandolfo (legge del 21 marzo del 1950, numero 178), i terreni della radio vaticana (circa 541 ettari tra Ponte Galeria e la via Pontina, un'estensione di terreno veramente spropositata che non giustifica l'estensione del privilegio della extraterritorialità con la sola scusa di costruirci i centri trasmittenti e riceventi della radio vaticana). Il fatto che abbiamo parlato dei beni extraterritoriali del Vaticano ha fatto scrivere all'Osservatore che L'Europeo compie operazioni anticulturali e che non c'è oggi nessuno «che voglia seriamente riaprire la questione romana», chiusa nel 1929 con il famoso "indennizzo" d'un miliardo (in titoli di Stato) e 750 milioni (in lire) e che fu definito (fatte le debite proporzioni si tratta dell'equivalente di circa 2.000 miliardi odierni - del 1977! n.d.r. -) da Pio XI «limitato allo stretto necessario». Per molto tempo alcuni circoli cattolici si chiesero che fine avesse fatto quella somma, pagata quasi come risarcimento di danni di guerra. Ma, a parte ciò, quel che asserisce L'Osservatore Romano sulla questione romana non è del tutto esatto. Il pomeriggio del 2 dicembre scorso, durante la discussione sul progetto di legge sul nuovo Concordato, proprio un democristiano, campione della destra cattolica, l'onorevole Giuseppe Costamagna, piemontese, ha dichiarato: «Io, come cattolico, chiedo la modifica del Trattato, strappato da Mussolini con un baratto che ripugna alle coscienze: concedere molto con il Concordato e poco con il Trattato. Il mondo cattolico italiano, a fronte di modifiche al Concordato, dovrebbe chiedere la modifica del Trattato per accordare alla Santa Sede un territorio degno delle sue esigenze e comunque non inferiore a quello che è riconosciuto a Stati come il Principato di Monaco e la Repubblica di San Marino, che hanno certo minori tradizioni storiche della Santa Sede. Solo a questo modo si potrebbe rimediare all'ingiustizia perpetrata nel 1929». Questa stravagante omelia dell'onorevole Costamagna fu seguita, con buona pace dell'Osservatore, da nutriti applausi. L'operazione "anticulturale" dell'Europeo è proseguita, secondo L'Osservatore Romano, quando s'è parlato di "Impero vaticano", "confondendo" i beni della Santa Sede come tale e quelli che fanno capo agli enti ecclesiastici maggiori e minori. Allora, di chi sono in realtà questi beni immobili? Se, come sostiene la voce ufficiale del Vaticano, fossero realmente distinti, bisognerebbe aprire una lunga discussione sulla figura della "devoluzione canonica". Prendiamo, per esempio, i "frati bigi", ovvero la "congregazione dei frati della carità". La congregazione è stata sciolta con decreto della "Sacra Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari" il 15 febbraio del 1972 e i beni sono stati "devoluti" canonicamente alla Santa Sede. Concretamente, è finito sotto l'ala della Santa Sede un enorme complesso situato fra via Tasso e viale Manzoni. Con atto del 2 maggio 1975, la Santa Sede vendette il tutto alla "Edif", una società immobiliare controllata da una società fantasma panamense, per 1 miliardo e 50 milioni. Già un anno prima, però, la "Edif aveva ottenuto il possesso di fatto dell'immobile. Fu una compravendita veramente singolare: insieme alla Santa Sede, che "canonicamente" era divenuta proprietaria del bene, erano presenti anche i resti di quei "frati bigi", che per il nostro diritto civile erano ancora i legittimi intestatari del patrimonio della congregazione appena disciolta. A questo punto ci si chiede come fu spartito il miliardo. Se fosse vero quello che sostiene oggi L'Osservatore, c'è da ritenere che il miliardo sia stato poi diviso fra i singoli frati. In realtà, il miliardo è finito nelle casse vaticane grazie a questa "devoluzione canonica". Queste "devoluzioni" equivalgono a veri e propri passaggi di ricchezze fra "enti" che la stessa Santa Sede si affanna a dichiarare separati fra loro. Ed è sorprendente, a questo punto, che su questi passaggi di ricchezza non ci siano né controlli né imposte. Di casi come quello dei "frati bigi" se ne contano a decine. Ma ci sono anche altre forme di mascheramento, ancora più elementari. Per esempio, è sempre la Santa Sede che compare sotto l'etichetta di "Luoghi pii dei catecumeni", "Luoghi pii dei catecumeni e neofiti", "Pio istituto dei catecumeni e neofiti", "Casa pia dei catecumeni e neofiti". Quest'ultima, che viene definita «ente avente personalità giuridica riconosciuta», è presieduta da «sua eminenza cardinale Ugo Poletti, vicario generale di sua santità papa Paolo VI». Un anno fa vendette un enorme complesso di fabbricati e giardini in via in Selci al "Credito Artigiano" di Milano e alla "Nibbio spa" per un miliardo e 150 milioni. Dato che il piano regolatore vieta l'insediamento di uffici in quel punto del centro storico, perché il "Credito Artigiano" s'è sacrificato, sia pure per una cifra insignificante? La risposta è agevole: una parte del "Credito" è controllata dal Vaticano. Già nell'assemblea dei soci del 1971, monsignor Ferdinando Maggioni, dopo avere ringraziato dirigenti, funzionari e impiegati per l'opera svolta, assicurava all'istituto di credito «l'assistenza della divina provvidenza». La stessa esenzione fiscale che, di fatto, accompagna le "devoluzioni canoniche" protegge anche i lasciti e le donazioni che piovono nelle casse del Vaticano. Il 26 giugno del 1974 la Santa Sede ha venduto per 280 milioni uno stabile di sei piani e 103 vani in via di Priscilla 14 alla "Delta Tau" srl, una società creata ad hoc. Com'era giunto lo stabile alla Santa Sede (che qui compare a proposito come Santa Sede Pontificia opera di assistenza)? Attraverso un "legato" di suor Maria della Croce, al secolo Valeria Cavalieri, con testamento segreto del 28 maggio del 1962, depositato il 9 giugno del '63 al consolato d'Italia a Rio de Janeiro. Dopo la morte di suor Maria, il lascito fu autorizzato nel 1969 dal presidente Saragat e accettato subito dalla Santa Sede. Tutto ciò avvenne assolutamente gratis. Una parte dell'isolato di via della Dataria, quello che fa angolo con la via San Vincenzo, fu venduto dalla Santa Sede il 30 dicembre 1972 alla "Dataria sas" di Roberto Palea & C., di Torino, per 170 milioni. Un regalo. Alla Santa Sede d'altra parte non era costato nulla perché le era arrivato dalla pietà della signora Elvira Mannoni fu Tobia, maritata Francesco Rosi Bernardini, il 29 luglio 1921. Per non doverci pagare sopra nemmeno l'Invim, che sarebbe entrato in vigore il primo gennaio 1973, la Santa Sede s'affrettò a liberarsene. Citiamo altri tre casi, recentissimi, di lasciti immobiliari gratuiti. L'8 aprile 1975, una certa Olga Zayo dona alla Santa Sede un complesso immobiliare in via delle Nespole (quartiere Centocelle). Il 9 luglio '76 la Santa Sede, questa volta sotto l'etichetta di "Amministrazione patrimonio della Sede Apostolica", accetta una donazione da parte dei monsignori Giuseppe e Giovanni De Andrea. Si tratta di un appartamento al quarto piano, scala A interno 12, via del Mascherino 12. La donazione è stata autorizzata dalle firme di Leone e Cossiga il 21 febbraio dell'anno scorso, "udito il Consiglio di Stato". Poiché sono stati invocati i benefici fiscali previsti dalla legge perché la donazione è stata fatta a "fini di culto e religione" (oltre all'Invim non pagata, trattandosi di beni della Santa Sede) e queste motivazioni sono state accolte a occhi chiusi da Leone nel decreto da lui firmato, vorremmo essere sicuri che la presidenza della Repubblica o il ministero degli Interni ci garantissero che in questo appartamento del quarto piano sia presto aperta una parrocchia o, almeno, un centro di esercizi spirituali. Il 6 agosto del 1976, infine, la Santa Sede accetta una cospicua donazione dai fratelli Letizia, Giuseppina, Domitilla e Luigi Mollari. È un terreno di venti ettari con fabbricati rurali in località "La Mandria" sulla via Laurentina, al numero civico 1351. Vengono invocati gli stessi benefici. A proposito di questa donazione ci sono da registrare due novità. La prima, che come in innumerevoli altri casi, la perizia dei beni donati è inattendibile: solo 500 milioni. La seconda, che il decreto del presidente Leone impone alla Santa Sede di rivendere il tutto entro 5 anni. Saremmo curiosi di sapere: con quale criterio sarà poi effettuata questa vendita? Quale sarà l'utile che ne ricaverà alla fine il Vaticano, che pure ha ricevuto gratis "La Mandria"? Quali «esercizi di culto, di religione, di istruzione, assistenza, apostolato, evangelizzazione, misericordia» vi eserciterà mai la Santa Sede per giustificare in qualche modo le esenzioni fiscali ottenute accettando la donazione? Dice ancora L'Osservatore Romano nel suo editoriale che «risulta positivamente che parecchi istituti religiosi che hanno case a Roma, amareggiati e afflitti per difficoltà di ogni genere, sono del parere che converrebbe loro stabilire la propria sede in altri Paesi». A parte il tono vagamente intimidatorio del capoverso, esso contiene un'inesattezza: nessun istituto, per quanto "amareggiato", potrebbe lasciare Roma, a meno che la Santa Sede non dia la sua autorizzazione. Allo stesso modo, qualunque istituto voglia compiere un'operazione di compravendita, non può farlo senza l'autorizzazione che, secondo i casi, viene concessa dalla Santa Sede attraverso la "Sacra congregatio clericis", la "Sacra congregatio pro religiosis et institutis saecularibus", l'"Istituto di Propaganda Fide", o l'intervento diretto e personale di cardinali. L'autorizzazione non solo è obbligatoria (e ciò dimostra la nostra tesi di una stretta connessione, almeno sul piano della gestione patrimoniale, tra gli enti ecclesiastici e la stessa Santa Sede) ma è anche costosa: per ottenerla, l'ente, l'istituto, il collegio, la casa pia, devono, in latino, «implorare umilmente» la Santa Sede attraverso una serie di passaggi gerarchici, motivare con abbondanza di particolari l' "implorazione", assicurare che, sotto sotto, non vi saranno «inhonestos usus», e pagare intorno alle 200 mila lire di tasse varie, di «libellarum italicarum». Dunque, non è vero che la Santa Sede ignora gli affari dei suoi enti. Essa ne è tanto coinvolta che addirittura tiene a mettere in bella evidenza in calce alle autorizzazioni di ritenersi, «in forza della sua speciale natura di Ente di diritto pubblico ecclesiastico», non responsabile «né economicamente, né civilmente» per atti compiuti da ricorrenti o da terzi. Con questa formuletta, per esempio, la Santa Sede si sente in diritto di non essere chiamata a rispondere degli abusi edilizi compiuti in seguito alle spericolate transazioni effettuate dalle sue congregazioni. Ad aggravare la situazione, la Santa Sede, che pure segue fino a un certo momento tutta l'operazione condotta dall'ente ecclesiastico, una volta chiusa la partita si disinteressa completamente di controllare se gli impegni presi dall'ente siano poi stati rispettati. Per esempio, la "Veneranda confraternita del santissimo rosario di Besazio, diocesi di Lugano", s'era impegnata a reinvestire il ricavato della vendita di due palazzi in via Sant'Andrea delle Fratte (160 milioni) nella città di Roma. Ma a Roma i "venerabili di Besazio" non hanno reinvestito una lira. Che siano finiti in Svizzera? Altre volte, la Santa Sede (è il caso della vendita di un palazzetto in vicolo Scanderbeg) si riserva in caso di eventuali controversie, a scanso di grane ed equivoci, la competenza del «foro della Città del Vaticano». L'Osservatore Romano prende poi spunto dalla destinazione del ricavato della vendita di un edificio in via dell'Umiltà per dimostrare come il denaro che affluisce alle casse vaticane venga poi reimpiegato in lodevoli servizi sociali. Con quel denaro, infatti (550 milioni), è stata finanziata una parte dei 99 alloggi popolari nella frazione periferica di Acilia. La precisazione serve a poco. Prima di tutto, nessuno potrà mai dimostrare che proprio quei 550 milioni furono effettivamente utilizzati a quello scopo (all'epoca, quest'opera di misericordia passò sotto silenzio, né la Santa Sede reclamizzò la vendita al Banco di Roma). In secondo luogo, la cosa non fa che gettare luce su quello che noi consideriamo uno dei problemi più scottanti che sono a monte del "riciclaggio" dei beni immobili del Vaticano. Gli antichi inquilini di via dell'Umiltà furono allontanati con delle buonuscite. Al loro posto, mentre sono ancora in corso i lavori di ristrutturazione, andranno probabilmente alcuni uffici dello stesso Banco di Roma. I vecchi inquilini si sono dunque trasformati, anche se non proprio fisicamente, in quei pendolari di periferia, simbolo dell'esodo forzato verso le cinture cittadine più esterne, del progressivo snaturamento del centro storico, causa ulteriore degli affanni del comune, gravato dalle spese e dai problemi creati da questo artificiale sconvolgimento del tessuto urbano. Invece di ammantarsi dei panni del buon filantropo, perché L'Osservatore Romano non ha fatto cenno al grande edificio di via della Dataria, edificio "extraterritoriale", ceduto all'agenzia di informazioni giornalistiche Ansa? Perché, oltre a non essere edificio accatastato in quanto "extraterritoriale", la cessione del complesso alla Santa Sede non è costata una lira. Innanzitutto, grazie all'articolo 2 del Dpr 29 settembre 1973, numero 601, il reddito dei fabbricati "extraterritoriali" è esente dall'imposta locale sui redditi (Ilor) e dall'imposta sul reddito delle persone giuridiche. Inoltre, l'incremento di valore dei fabbricati di questa natura non è soggetto all'imposta conosciuta come Invim. Questo, dall'entrata in vigore delle nuove norme tributarie. Prima, la Santa Sede era esente dall'imposta sui fabbricati "extraterritoriali" grazie all'articolo 78 del Tu 29 gennaio 1958, numero 645. Oltre a tutto, l'atto di compravendita non è costato all'Ansa nulla di imposta di registro: è stato tassato a "tassa fissa" di duemila lire ai «sensi dell'articolo 1, ultimo comma della tariffa, parte prima, allegata alla legge di registro, di cui al Dpr del 26 ottobre 1972, numero 634, che richiama l'articolo 16 del Trattato»; come se non bastasse, anche per il «secondo comma dell'articolo 17 della legge istitutiva dell'Iva, perché trattasi di cessione di un bene effettuata occasionalmente nel territorio dello Stato da soggetto residente all'estero a soggetto residente nello Stato italiano che ha acquistato e utilizza il bene nell'esercizio dell'impresa». A questo punto L'Osservatore Romano potrebbe nuovamente accusarci di confondere i beni "extraterritoriali" con gli altri. Per questi "altri" le agevolazioni fiscali sono: l'imposta sul reddito delle persone giuridiche è ridotta della metà grazie al richiamo che l'articolo 6, lettera H, del Dpr del 29 settembre 1973, numero 601, fa dell'articolo 29, lettera H, del Concordato. «In nome della Santissima Trinità», questo articolo 29 equiparava i «fini di culto e religione» ai «fini di beneficenza e istruzione». Nei casi in cui intervengano "donazioni" fra enti ecclesiastici, entrano poi in gioco le esenzioni dall'Invim, dall'imposta di registro, nonché gli altri benefici fiscali previsti dal decreto legge 9 aprile 1925, numero 380, e dall'articolo 9 della legge 12 maggio 1949, numero 206. In sostanza, costa solo il notaio, e la pazienza di attendere il decreto del presidente della Repubblica che "controlla" il rispetto dei fini «religiosi, di culto, di apostolato, di evangelizzazione degli infedeli», eccetera. I fulmini dell'Osservatore, riveduti e corretti dalla segreteria di Stato, intendevano incenerire L'Europeo già una settimana dopo la pubblicazione dell'inchiesta. Invece, le "paginate di nomi" pubblicate non sono state inutili. Tutte le nostre tesi, scaturite dall'esame dei dati e dei documenti, restano valide. L'impero vaticano è ancora enorme. Se si pensa che l'inchiesta era limitata alla città di Roma, non riusciamo nemmeno ad immaginare cosa sia il resto d'Italia. Gli esempi di ristrutturazione, riciclaggio e rinnovo degli edifici una volta adibiti a vere opere di religione confermano che il potere temporale della Chiesa si appoggia e si ramifica grazie alle solite complicità: chi porta alle casse della Santa Sede i mezzi per rinsaldarne il potere finanziario sono sempre le banche, le grandi società immobiliari, le società assicuratrici, il capitale tradizionalmente vicino agli ambienti della curia. Non ci si può non scandalizzare del fatto che, nonostante i tempi nuovi, le pressioni e le ansie di rinnovamento che provengono dallo stesso interno della Chiesa, essa alla fine si comporti con le ottiche di una multinazionale. Tra l'investimento misericordioso e quello redditizio, la Chiesa sceglie tuttora il secondo. Per mantenere e sviluppare questo potere temporale, il Vaticano non ha dovuto nemmeno aguzzare troppo l'ingegno delle gerarchie. La strada gli è sempre stata spianata dalle carenze legislative dello Stato italiano, dalla sudditanza degli istituti di credito a tradizione cattolica, dalla colpevole arrendevolezza del mondo laico, dalla sostanziale inutilità dei formalismi delle procedure di controllo.
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