Togliatti: intervista a Nuovi argomenti (1956)


Che cosa significa, secondo voi, la condanna del culto della personalità in URSS? Quali ne sono i motivi interni, esterni, politici, sociali, economici, psicologici, storici?

La condanna del culto della personalità pronunciata dai comunisti dell’Unione Sovietica e le critiche all’opera di Stalin significano esattamente, secondo me, quello che dai dirigenti comunisti sovietici è stato detto e viene ripetuto: né più né meno di questo. In guardia, dunque, contro due direzioni sbagliate.Il primo, il più grossolano e persino ridicolo, è di ritenere - o fingere di ritenere - che formulando quella condanna e queste critiche i comunisti sovietici siano passati alle posizioni, se non dell’anticomunismo, per lo meno di chi non ha mai né approvato né capito la loro azione. Voglio dire ch’essi abbiano buttato a mare, o si accingano a buttare a mare, tutte le loro posizioni di principio e pratiche, tutto il loro passato, tutto ciò che hanno affermato, sostenuto, difeso, attuato in tanti decenni del loro lavoro. Comprendo benissimo che questa sia la interpretazione che del XX Congresso dànno gli alfieri dell’anticomunismo, ma non c’è motivo, per cui dobbiamo dar loro retta oggi, più di quanto non l’abbiamo data ieri. E del resto essi scoprono il loro giuoco, forzandolo sino alla esasperazione, come sempre, e mettendo così in mostra la mala fede.
Non escludo, però, e lo voglio dire apertamente, che vi sia anche chi in perfetta buona fede scivoli su quella posizione e incominci a domandare se, date quelle critiche a Stalin, e dato che fu Stalin il principale esponente della politica comunista per un intero periodo, non sia oggi da mettere in dubbio la giustezza di tutti i principali momenti di quella politica, a partire, poniamo, dalla opposizione decisa ai piani dell’imperialismo in questo dopoguerra, risalendo su su, attraverso Yalta e Teheran, al patto di non aggressione con la Germania del 1939, alla guerra di Spagna, ecc., ecc. E, in altro campo, alle direttive per la costruzione economica socialista e alla lotta contro chi la ostacolava e, infine, una volta preso l’avvio - perché no? - sino agli atti decisivi della rivoluzione d’Ottobre, che furono la presa del potere da parte dei soviet degli operai, contadini e soldati, lo scioglimento dell’Assemblea costituente e la creazione di una nuova struttura politica della società. A coloro che in buona fede accennassero a intender le cose in questo modo, dovremmo dire che sbagliano. Naturalmente, su tutti gli atti attraverso i quali i comunisti sovietici sono giunti alla conquista del potere e alla creazione dell’attuale loro ordinamento sociale è sempre possibile si discuta e per molto tempo si discuterà, senza dubbio, allo scopo di precisarne il carattere, il contenuto e le conseguenze, allo scopo di valutarli storicamente nel modo più esatto.
I compagni sovietici stanno oggi liberando la loro storiografia da errori ed esagerazioni che vi si erano introdotti per esaltare oltre il merito la figura di Stalin e questo consentirà un giudizio storico sempre più esatto. Non è escluso, anzi è facilmente prevedibile che vengano corretti molti giudizi, che vengano precisate le critiche a determinate debolezze, errori, aspetti negativi dell’azione svolta in momenti determinati. Sarebbe però un grave errore ritenere che questa particolare revisione, la quale tende a collocare tutti gli uomini e tutti gli avvenimenti nella loro giusta luce, comporti, da parte dei comunisti sovietici, una radicale ripulsa o una critica radicale, distruttiva, dell’azione loro, così come si è sviluppata per oramai più che mezzo secolo. Quest’azione rimane, nella linea del suo sviluppo attraverso le successive tappe che tutti conoscono, il primo grande modello storico di conseguente attività rivoluzionaria per l’avvento della classe operaia alla direzione della società e per la costruzione di una società socialista. (…) Bisogna dunque abituarsi a pensare che le critiche a Stalin e al culto della sua persona significano, per i compagni sovietici, esattamente ciò che essi sinora hanno detto.

E che cosa, precisamente?

Che in conseguenza degli errori di Stalin e del culto della sua persona si erano accumulati elementi negativi, si erano create situazioni sfavorevoli e anche nettamente cattive in differenti settori della vita e della società sovietica, in differenti parti dell’attività del partito e dello Stato. Non è però semplice ridurre tutti questi momenti negativi sotto un solo concetto generale, perché anche in questo caso si corre il rischio della eccessiva, arbitraria e falsa generalizzazione, cioè il rischio di giudicare cattiva, da respingersi, da criticarsi, tutta la realtà economica, sociale e culturale sovietica, il che è un ritmo alle consuete idiozie reazionarie. (…)


La legittimità del potere è il grande problema del diritto pubblico; e il pensiero politico moderno tende a indicare la fonte della legittimità nella volontà popolare. Le democrazie parlamentari di tipo occidentale ritengono che la volontà popolare abbia bisogno, per esprimersi, della pluralità dei partiti. Ritenete che il potere in regime di partito unico con elezioni senza scelta fra governo e opposizione sia legittimo?


Partiamo pure, se si vuole, dall’esame della legittimità del potere e della sua fonte, ma cerchiamo di liberarci dal formalismo ipocrita col quale trattano questa questione gli apologeti della «civiltà occidentale». Abbiamo letto Stato e rivoluzione, né abbiamo dimenticato la sostanza di quell’insegnamento, per fortuna nostra! Non è la critica degli errori di Stalin che ce la farà dimenticare. Nella realtà delle cosiddette civiltà occidentali la fonte della legittimità del potere non è affatto la volontà popolare. La volontà popolare è, nel migliore dei casi, uno dei fattori che contribuiscono, esprimendosi periodicamente con le elezioni, a determinare una parte degli indirizzi governativi. Nelle elezioni, però (e valga pure l’esempio dell’Italia, tipico, per alcuni aspetti), entra in azione un molteplice sistema di pressioni, intimidazioni, esortazioni, falsificazioni, artifici legali e illegali, per cui l’espressione della volontà popolare viene ad essere assai gravemente limitata e falsificata. E il sistema opera nelle mani e a favore non solo di chi sta in quel momento al governo, quanto di chi detiene nella società il potere reale, che è dato dalla ricchezza, dalla proprietà dei mezzi di produzione e di scambio, e da ciò che ne deriva, incominciando dall’effettiva direzione della vita politica, sino alla immancabile protezione delle autorità religiose e di tutti gli altri gangli di potere che esistono in una società capitalistica. Noi sosteniamo che oggi, dati gli sviluppi e la forza attuale del movimento democratico e socialista, si possono operare strappi assai larghi in questo sistema che impedisce la libera espressione della volontà popolare, e si può quindi aprire un varco sempre più ampio alla manifestazione di questa volontà.
Per questo ci muoviamo sul terreno democratico e senza uscire da questo terreno riteniamo possibili sempre nuovi sviluppi. Ciò non vuol dire, però, che non vediamo le cose come sono e che del modo come si svolge la vita democratica del mondo occidentale (guai, poi, a spingersi un po’ troppo in là, in questo mondo, sino a trovarvi la Spagna, o la Turchia, o il Sud America, o il Portogallo, o il sistema elettorale discriminato degli Stati Uniti d’America, ecc. ecc.) noi ci dobbiamo fare un feticcio, il modello universale e assoluto della democrazia! Anzi, noi continuiamo a pensare che la democrazia di tipo occidentale è una democrazia limitata, imperfetta, per molte cose falsa, che richiede di essere sviluppata e perfezionata attraverso una serie di riforme economiche e politiche.


Anche se, dunque, giungeremo alla conclusione che il XX Congresso apre un nuovo processo di sviluppo democratico nell’Unione Sovietica, siamo ben lontani dal pensare e riteniamo sia errato pensare che questo sviluppo possa o debba compiersi con un ritorno a istituti di tipo «occidentale». La legittimità del potere, nell’Unione Sovietica, ha la sua fonte prima nella rivoluzione. Questa ha dato il potere alla classe operaia, che era minoranza ma è riuscita, risolvendo i grandi problemi nazionali e sociali che si ponevano, a raccogliere via via attorno a sé tutte le masse popolari, trasformare la struttura economica del paese, creare, far funzionare e progredire una società nuova, costruita secondo i princípi socialisti. Dimenticare la rivoluzione, non tener conto della nuova struttura sociale, dimenticare, cioè, tutto ciò che è proprio dell’Unione Sovietica e poi fare un confronto puramente esteriore con i modi della vita politica nei paesi capitalistici è un trucco e niente più. Ma questo primo richiamo alla realtà non basta. La società sovietica ha avuto, sin dall’inizio, una sua struttura politica democratica, fondata, precisamente, sull’esistenza e sul funzionamento dei «soviet» (consigli di operai, contadini, lavoratori, soldati).
Il sistema dei soviet è, come tale, molto più democratico e progredito di qualsiasi sistema democratico tradizionale, e questo per due motivi. Il primo è che fa penetrare la vita democratica in tutte le parti costitutive della società, partendo dalle unità lavorative di base per risalire, grado a grado, sino alle grandi assemblee cittadine, regionali e nazionali; il secondo è che avvicina le elementari cellule della vita democratica alle unità produttive e quindi supera quell’aspetto negativo delle tradizionali organizzazioni democratiche che consiste nella separazione tra il mondo della produzione e quello della politica e quindi nel carattere esteriore, formale, della libertà.

È possibile che nel funzionamento del sistema sovietico vi sia stato un arresto, un inciampo, da cui sia derivata una limitazione della democrazia sovietica?

Non solo è possibile, ma al XX Congresso la cosa è stata riconosciuta apertamente. La vita democratica sovietica è stata limitata, in parte soffocata, dal sopravvento di metodi di direzione burocratica, autoritaria e dalle violazioni della legalità del regime. In linea di teoria, questa è una cosa possibile, perché un regime socialista non è garantito di per sé da errori e pericoli. Chi lo ritenesse cadrebbe in un infantilismo ingenuo.
La società socialista è una società non soltanto composta di uomini, ma una società in sviluppo, nella quale continuano a esistere contrasti oggettivi e soggettivi, ed è soggetta alle vicende della storia. In linea di fatto, si tratterà di vedere come e perché una limitazione della vita democratica sovietica abbia potuto compiersi, ma, qualunque sia la risposta che si giunga a dare a questa questione, è per noi fuori dubbio che non si potrà mai concludere alla necessità di un ritorno alle forme di organizzazione delle società capitalistiche. (…)
Vi sono stati lunghi periodi di tempo in cui la classe operaia, che aveva preso il potere con la rivoluzione, e il partito che la dirigeva, si trovarono di fronte a situazioni così gravi, a difficoltà e a tali e tanti nemici esterni ed interni, da sconfiggersi ad ogni costo, che l’unità della direzione politica e dell’azione dovette essere mantenuta e fu mantenuta con mezzi eccezionali. Guai se non si fosse fatto così!
Il grave errore commesso da Stalin fu di aver illecitamente esteso questo sistema (peggiorandolo, anzi, perché il rispetto della legalità rivoluzionaria era sempre stato richiesto, nei primi tempi, da Lenin, anche se allora i limiti di questa legalità erano forzatamente assai ristretti) alle situazioni successive, quando non era più necessario e diventava quindi soltanto la base di un potere personale. E l’errore dei suoi collaboratori fu di non essersene accorti a tempo, di averlo lasciato fare sino al punto in cui la correzione non era più possibile senza danno per tutti.

Ritenete che la dittatura personale di Stalin si sia verificata contro e fuori delle tradizioni storiche e politiche russe o sia invece uno sviluppo di tali tradizioni? La dittatura personale di Stalin si giovò, per affermarsi, e per mantenersi, di un insieme di misure coercitive che in Occidente, a partire dalla rivoluzione francese, viene chiamato «terrore». Ritenete che questo «terrore» fosse una necessità?

A queste due domande risponderò assieme perché, a parte la loro formulazione concreta, che limiterebbe la ricerca a temi di ordine particolare, essi consentono, se si supera questa limitazione, di affrontare la questione che logicamente si presenta a questo punto, e cioè come, nella società sovietica, gli errori denunciati dal XX Congresso abbiano potuto essere compiuti e quindi abbia potuto crearsi, e durare un assai lungo periodo di tempo, una situazione in cui la vita democratica e la legalità socialista subivano continue, gravi ed estese violazioni.
A questa si innesta, com’è ben comprensibile, la questione tanto della corresponsabilità, per questi errori, di tutto il gruppo dirigente politico, compresi i compagni che oggi hanno avuto l’iniziativa sia della denuncia che della correzione del male che prima era stato fatto, quanto delle conseguenze di questo male.


A proposito di questa corresponsabilità, due spiegazioni sono state avanzate. Una è la più evidente ed è stata affacciata da noi stessi, nelle discussioni che hanno avuto luogo nel nostro partito. È stata formulata anche dal compagno Courtade, in una serie di articoli sulla Humanité, ed ora, se si deve credere a ciò cheriferiscono i giornalisti, pure dal compagno Krusciov, rispondendo a una domanda rivoltagli in un ricevimento. L’allontanamento di Stalin dal potere, quando apparve la gravità degli errori ch’egli stava compiendo, era «giuridicamente possibile», ma impossibile in pratica, perché se la questione fosse stata posta ne sarebbe risultato un conflitto, e questo conflitto avrebbe probabilmente compromesso le sorti della rivoluzione e dello Stato, contro il quale erano puntate le armi da tutte le parti del mondo. Basta aver avuto un contatto anche superficiale con l’opinione pubblica sovietica negli anni in cui Stalin era alla testa del paese e aver seguito la situazione internazionale di quegli anni per essere in grado di riconoscere che la costatazione è verissima. Oggi, per esempio, i dirigenti sovietici denunciano precisi errori e un momento di scoraggiamento di Stalin all’inizio della guerra. Ma in quel giorno chi, nell’URSS, avrebbe compreso e accettato, non dico un allontanamento di Stalin, ma anche solo una limitazione del suo potere? Sarebbe stato un crollo, se si fosse vista o intuita una cosa simile. E lo stesso in altri momenti. La constatazione fatta da Krusciov, dunque, spiega, sì, lo stato di necessità in cui si trovavano coloro che avrebbero voluto correggere la situazione che si era creata, ma è, nello stesso tempo, una constatazione che complica il quadro, e in sostanza lo aggrava.
Si è costretti ad ammettere che gli errori che Stalin commetteva, o erano ignorati dalla grande massa dei quadri dirigenti del paese e quindi dal popolo, e questo non pare verosimile; oppure non erano considerati errori da questa massa di quadri e quindi dall’opinione pubblica, da essi orientata e diretta. Come si vede, io escludo la spiegazione dell’impossibilità di un cambiamento causata solo dalla presenza di un apparato militare, poliziesco, terroristico che controllasse la situazione con i suoi mezzi. Questo stesso apparato era composto e diretto da uomini, che in un momento grave come quello dell’attacco di Hitler, per esempio, sarebbero stati dominati anch’essi da reazioni elementari, se si fosse aperta una crisi profonda. Molto più giusto mi pare riconoscere che, nonostante gli errori che commetteva, Stalin aveva il consenso di una grandissima parte del paese e prima di tutto dei suoi quadri dirigenti e anche delle masse. Era questa la conseguenza del fatto che Stalin non commise solo degli errori, ma fece anche molte cose buone, «fece moltissimo per l’URSS», «era il più convinto dei marxisti e saldo nella sua fiducia nel popolo».
Ha riconosciuto questo lo stesso compagno Krusciov, nelle dichiarazioni riferite sopra, correggendo così lo strano ma comprensibile sbaglio, che venne fatto, secondo me, al XX Congresso, di tacere questi meriti di Stalin. Ma questo non spiega tutto, e non spiega tutto appunto per la gravità degli errori che oggi vengono denunciati. La spiegazione non si può trovare se non in una attenta indagine del modo come al sistema caratterizzato dagli errori di Stalin si giunse. Solo così si potrà comprendere come questi errori non fossero soltanto qualcosa di personale, ma investissero in modo profondo la realtà della vita sovietica. Un’altra spiegazione del perché non si poté giungere prima alle necessarie correzioni è stata data, se non erro, dallo stesso Krusciov, affermando che se queste correzioni non poterono farsi è perché la posizione dei dirigenti del partito e dello Stato verso gli errori di Stalin non fu eguale in tutti i periodi.
Vi furono dunque dei momenti in cui attorno a Stalin vi fu un’ampia solidarietà degli altri, e questa solidarietà era l’espressione, precisamente, di quel consenso di cui sopra parlavamo. E qui bisogna riconoscere, apertamente e senza esitazione, che, mentre il XX Congresso ha dato un contributo enorme all’impostazione e soluzione di molti seri e nuovi problemi del movimento democratico e socialista, mentre segna una tappa importantissima nello sviluppo della società sovietica, non può invece venire considerata soddisfacente la posizione che è stata presa al congresso e che oggi viene ampiamente sviluppata nella stampa sovietica per quanto riguarda gli errori di Stalin e le cause e condizioni che li resero possibili.
La causa di tutto starebbe nel «culto della personalità», e nel culto di una persona che aveva determinati e gravi difetti, mancava di modestia, tendeva al potere personale e alle volte sbagliava per incompetenza, non era leale nelle realzioni con gli altri dirigenti, aveva una smania di grandezza e un eccessivo amore di se stesso, era sospettoso sino all’estremo, e alla fine, attraverso l’esercizio del potere personale, giunse a distaccarsi dal popolo, a trascurare il suo lavoro e a soggiacere persino a una forma evidente di mania di persecuzione. I dirigenti sovietici attuali hanno conosciuto Stalin assai più di noi (di alcuni contatti avuti con lui avrò forse modo di parlare in altra occasione), e noi quindi dobbiamo loro credere quando a questo modo oggi ce lo descrivono. Possiamo soltanto pensare, tra di noi, che, poiché era così, a parte l’impossibilità di fare un cambio a tempo, di cui già si è parlato, avrebbero per lo meno potuto essere più prudenti in quella esaltazione pubblica e solenne delle qualità di quest’uomo, cui ci avevano abituato.
È vero che oggi si criticano, ed è il loro grande merito, ma in questa critica un poco del loro prestigio va senza dubbio perduto. Ma a parte questo, sino a che ci si limita, in sostanza, a denunciare, come causa di tutto, i difetti personali di Stalin, si rimane nell’ambito del «culto della personalità». Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo; ora, tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell’altro siamo fuori del criterio di giudizio che è proprio del marxismo. Sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica poté giungere e giunse a certe forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità che si era tracciata, e persino di degenerazione. Lo studio dovrà essere fatto seguendo le diverse tappe di sviluppo di questa società, e sono prima di tutti i compagni sovietici che debbono farlo, perché conoscono le cose meglio di noi, che possiamo sbagliare per parziale o errata conoscenza dei fatti. A noi torna a mente, anzitutto, che Lenin, negli ultimi suoi discorsi e scritti, aveva posto l’accento sul pericolo di burocratizzazione che minacciava la nuova società.
Ci sembra fuori dubbio che gli errori di Stalin furono legati a un eccessivo aumento del peso degli apparati burocratici nella vita economica e politica sovietica, e forse prima di tutto nella vita del partito. E qui è assai difficile dire quale fosse la cuasa, quale la conseguenza. L’una cosa venne ad essere, a poco a poco, l’espressione dell’altra.

Questo peso eccessivo della burocrazia è anche da riferirsi a una tradizione, proveniente dalle forme di organizzazione politica e dal costume della vecchia Russia?

Forse non lo si può escludere e credo vi siano accenni di Lenin in questo senso; si tenga però presente che dopo la rivoluzione il personale dirigente cambiò totalmente o quasi, e a noi, poi, non interessa tanto valutare il residuo del vecchio, quanto il fatto che un nuovo tipo di direzione burocratica sia venuto insorgendo dal seno della nuova classe dirigente, nel momento in cui essa assolveva compiti del tutto nuovi. I primi anni dopo la rivoluzione, poi, furono anni aspri, terribili, di sovrumane difficoltà oggettive, di intervento straniero, di guerra e di guerra civile. Furono allora assolutamente necessari, tanto un massimo di centralizzazione del potere, quanto l’adozione di misure repressive radicali per schiacciarela controrivoluzione. Era inevitabile, in questo periodo, che avvenisse come in guerra: se un compito non viene eseguito, il responsabile è sottoposto a uno sbrigativo giudizio!
Lo stesso Lenin, come risulta da una lettera da lui indirizzata a Dzerginski e ora resa pubblica, prevedeva si dovesse fare una svolta quando la controrivoluzione e l’intervento straniero fossero stati del tutto sconfitti, il che avvenne qualche anno prima della sua morte. Si dovrà vedere se questa svolta venne compiuta o se, quasi per forza di inerzia, non si consolidò una parte di ciò che avrebbe dovuto venire modificato o abbandonato. In questo momento, poi, si scatenò la lotta dei gruppi che contestavano la possibilità di una edificazione economica socialista e questo non poté non avere una estesa influenza su tutta la vita sovietica.Anche questa lotta ebbe il carattere di un vero combattimento, dal cui esito dipendevano le sorti del potere, e che si doveva quindi vincere ad ogni costo.
È in questo periodo che Stalin ebbe una parte positiva, e attorno a lui si unirono le forze sane del partito. Ora si potrà osservare che si unirono attorno a lui in modo tale, e guidate da lui accettarono tali modificazioni nel funzionamento del partito e dei suoi organi dirigenti, tale nuova funzione degli apparati diretti dall’alto, per cui o non poterono più opporsi quando incominciarono a venire alla luce le cose cattive, oppurenon compresero nemmeno bene, all’inizio, che si trattasse di cose cattive. Forse non si sbaglia affermando che è dal partito che ebbero inizio le dannose limitazioni del regime democratico e il sopravvento graduale di forme di organizzazione burocratica. Ma più importante mi pare debba essere l’esame attento di ciò che avvenne in seguito, quando fu realizzato il primo piano quinquennale e fu attuata la collettivizzazione dell’agricoltura.
Qui si toccano infatti vere questioni di principio. I successi ottenuti furono qualcosa di molto grande, di grandioso, anzi. Fu creata una grande industria socialista, e fu creata senza aiuti o crediti dall’estero, attraverso un impegno e uno sviluppo delle forze interne della nuova società. Fu trasformata, anche se in modo meno sicuro, attraverso notevoli difficoltà, fretta eccessiva ed errori, la struttura sociale delle campagne. I risultati ottenuti erano qualcosa che mai al mondo era stata veduta, che fuori dell’Unione Sovietica pochi avevano creduto possibile. Furono una conferma clamorosa della vittoria rivoluzionaria dell’ottobre, e della giusta linea politica sostenuta contro oppositori e nemici d’ogni sorta. Furono però anche l’inizio di alcuni orientamenti sbagliati, e che dovevano avere, in seguito, gravi conseguenze cattive. nell’esaltazione dei successi ottenuti prevalse, soprattutto nella propaganda corrente, ma anche nelle impostazioni generali, una tendenza alla esagerazione, a considerare oramai risolti tutti i problemi, superate le contraddizioni oggettive, le difficoltà, i contrasti che pure sono sempre inerenti alla costruzione di una società socialista. Queste contraddizioni oggettive, queste difficoltà, questi contrasti, sono spesso, nel corso della costruzione di una società socialista, molto gravi, e non possono venire superati se non vengono riconsociuti in modo aperto, chiamando le stesse masse operaie e lavoratrici ad affrontarli e risolverli con il loro lavoro, con la loro opera creativa.
Ne derivarono due principali conseguenze, credo. La prima fu un isterilimento dell’attività delle masse, nei luoghi e negli organismi (di partito, sindacali, di fabbrica, sovietici) dove le reali e nuove difficoltà della situazione avrebbero dovuto venire affrontate, e dove invece incominciarono a prevalere scritti e discorsi pieni di dichiarazioni pompose, di frasi fatte, ecc.; ma in realtà freddi e inefficaci, perché privi di contatto con la vita. Il vero dibattito creativo a poco a poco venne scomparendo, e quindi la stessa attività delle masse a ridursi, muovendosi più per direttiva dall’alto che per stimolo proprio.
Ma la seconda conseguenza fu più grave ancora ed è che quando la realtà riprendeva i suoi diritti, e le difficoltà venivano fuori, come conseguenza degli squilibri e dei contrasti che tuttora erano nelle cose, si manifestò e a poco a poco finì per prevalere su tutto la tendenza a considerare che sempre e in ogni caso il male, l’arresto nell’applicazione del piano, la difficoltà negli approvvigionamenti, nell’afflusso delle materie prime, nello sviluppo delle diverse parti dell’industria o dell’agricoltura, ecc. ecc., fossero dovuti al sabotaggio, all’opera del nemico di classe, di gruppi controrivoluzionari operanti clandestinamente, e così via. Non è che queste cose non ci fossero. Ci furono anche queste cose.
L’Unione Sovietica era circondata da nemici spietati, pronti a ricorrere a tutti i mezzi per recarle danno e frenarne l’ascesa; ma quell’errato indirizzo nei giudizi sulla situazione oggettiva fece perdere il senso del limite, fece smarrire la nozione della frontiera che separa il buono dal cattivo, l’amico dal nemico, la incapacità o la debolezza dalla ostilità consapevole e dal tradimento, il contrasto e le difficoltàche sgorgano dalle cose, dall’atto ostile di chi congiura per rovinarti. Bisogna però cercare in profondo per comprendere come queste posizioni potessero venire accettate e diventare popolari, e una delle direzioni della ricerca dovrà essere quella da noi indicata, se si vuole capire tutto.
Stalin fu ad un tempo espressione e autore di una situazione, e lo fu tanto perché dimostratosi il più esperto organizzatore e dirigente di un apparato di tipo burocratico nel momento in cui questo prese il sopravvento sulle forme di vita democratica, quanto per aver dato una giustificazione dottrinale di quello che in realtà era un indirizzo errato e sul quale poi si resse, fino ad assumere forme degenerative, il suo potere personale. Tutto questo spiega quel consenso che vi fu attorno a lui, che durò sino alla sua scomparsa e forse tuttora conserva qualche efficacia. Non si dimentichi, poi, che anche quando si stabilì questo suo potere, i successi della società sovietica non mancarono. Vi furono nel campo economico, in quello politico, in quello culturale, in quello militare, in quello dei rapporti internazionali. Nessuno potrà negare che l’Unione Sovietica del 1953 era incomparabilmente più forte, più sviluppata in tutte le direzioni, più solida all’interno e più autorevole di fronte all’estero di quanto non fosse, per esempio, all’epoca del primo piano quinquennale. Come mai tanti errori non impedirono tanti successi? Anche qui, sono i dirigenti sovietici che debbono dare la risposta, comprendendo che questo è oggi uno dei problemi che assillano i militanti sinceri del movimento operaio internazionale.

Fino a che punto, da quale momento ed entro quali limiti gli errori di Stalin compromisero la linea politica del partito, crearono difficoltà sussidiarie e quale peso ebbero queste difficoltà, e come si riuscì, nonostante quegli errori, a progredire?

Sulla base di ciò che conosciamo, noi possiamo fare solo alcune affermazioni generali, disposti a rivederle se necessario. Ci sembra debba essere riconosciuto che la linea seguita nella costruzione socialista continuò a essere giusta, anche se gli errori che vengono denunciati sono tali che non possono non avere seriamente limitato i successi nella sua applicazione. Questo è però uno dei punti su cui saranno necessarie le maggiori spiegazioni, perché la restrizione e in qualche caso persino la scomparsa della vita democratica è cosa essenziale per la validità di una politica.
Ci sembra, ad ogni modo, incontrovertibile che la burocratizzazione del partito, degli organi dello Stato, dei sindacati, e soprattutto degli organi periferici, che sono i più importanti, deve avere frenato, limitato, compresso, il pensiero creativo del partito, l’attività delle masse, il funzionamento democratico dello Stato e lo slancio costruttivo di tutta la società, con evidenti danni reali. D’altra parte, gli stessi successi ottenuti, e in pace e in guerra e dopo la guerra, sono la prova di una impressionante capacità di lavoro, di entusiasmo e di sacrificio delle masse popolari in qualsiasi situazione, di una loro adesione continua agli scopi che la politica del partito poneva a tutto il paese, e che attraverso l’opera loro vennero realizzati.
È difficile dire, per esempio, quale altro popolo sarebbe stato capace di resistere, riprendersi e poi vincere con Hitler nei sobborghi di Mosca e poi sul Volga, e con le strettezze terribili del periodo di guerra.
Si deve dunque concludere che la sostanza del regime socialista non andò perduta, perché non andò perduta nessuna delle precedenti conquiste, né, soprattutto, l’adesione al regime delle masse di operai, contadini, intellettuali che formano la società sovietica. Questa stessa adesione sta a provare che, nonostante tutto, questa società manteneva il suo fondamentale carattere democratico.