Colloquio con Vittorio Foa l'Espresso, 20 marzo 1997 Nei giorni radiosi della Costituente su tutto fecero pace i comunisti, i cattolici e i laici. Ma come toccarono la Chiesa, fu guerra. «Quello sull'articolo 7 fu l'unico, vero conflitto che divise i padri della Costituzione», conferma mezzo secolo dopo Vittorio Foa, anche lui padre insigne della nostra Carta, dall'alto dei suoi 87 anni. Foa era stato otto anni in prigione, poi partigiano con Giustizia e libertà. Nella Costituente entrò con il Partito d'azione. Poi fu socialista, di quelli anti Pietro Nenni. Poi socialista del Psiup, contro il centrosinistra. Poi fondatore del Pdup-Manifesto, contro il compromesso storico. Quasi sempre dalla parte di chi perde. Solo nella Costituente entrò da vincitore, con i partiti antifascisti uniti. Fino a quel drammatico 25 marzo della divisione sull'articolo 5 poi divenuto 7. Foa votò contro. E stravinsero gli altri, i democristiani, con i comunisti di Palmiro Togliatti passati all'improvviso dalla loro parte.Ma, da bravo nipote di rabbino ebreo, Foa è come Salomone. Giudica le cose con sapienza e distanza. «Certo quello fu un giorno cupo», ricorda. «Non era l'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione che ci pesava di più. Sapevamo già che l'articolo 7 sarebbe comunque passato, anche senza l'appoggio dei comunisti, sia pure per pochi voti di scarto. Era la svolta del PCI che ci umiliava.» Fu quella dei comunisti davvero una "resa a discrezione", una "capitolazione"? Così la definì Piero Calamandrei, costituzionalista principe del suo partito. «Togliatti la vedeva in modo diverso. Ma tra noi laici c'era sgomento. Non solo la DC aveva vinto, ma il fronte d'opposizione era stato spaccato, per la prima volta nella Costituente. Più che battuti dal voto, ci vedevamo sconfitti nei nostri stessi principii fondanti e unificanti, di laicità.» Vi aspettavate il voltafaccia del PCI? «Sì, un qualche timore era nell'aria. Ma fino all'ultimo non volevamo crederci. Nemmeno i socialisti se l'aspettavano. Nonostante il patto d'unità d'azione col PCI, non furono preavvertiti. Prima che Togliatti facesse il discorso della svolta, tutti gli oratori comunisti s'erano pronunciati per il no.» E i laici liberali? Gente di vecchio stampo come Vittorio Emanuele Orlando, Meuccio Ruini, Carlo Sforza? Quasi tutti votarono con la DC. Solo Benedetto Croce si pronunciò contro "il giogo pretesco". «Al momento del voto anche Croce si diede malato. La corrente laica si scoprì molto più fragile di quanto si pensasse. Eravamo convinti che il Risorgimento e Porta Pia avessero assicurato l'autonomia dello Stato italiano dalla Santa Sede. E che il Concordato del 1929 tra Stato e Chiesa fosse semplicemente un prodotto della dittatura fascista: da superare per tornare sulla strada maestra della laicità. A 50 anni di distanza, devo ammettere che sbagliammo a leggere così il 1929.» Invece come andava letto? «Nel 1929 io avevo 19 anni, il mio ambiente era la Torino liberale. Ricordo bene le mie sensazioni di allora: erano due e tra loro opposte. Da un lato mi sembrava che col Concordato Mussolini svendesse l'Italia al papa: l'Italia che a Porta Pia aveva conquistato Roma! Dall'altro lato sentivo che per il fascismo quella non era una sconfitta, ma un grande successo. Ecco, nel 1947 noi laici eravamo ancora fermi lì: a questi due giudizi tra loro contraddittori.» Mentre oggi? «Oggi è più chiaro che il 1929 è stato un'altra cosa: una tappa decisiva della riconquista dell'Italia da parte del cattolicesimo politico. Quarant'anni di trionfo democristiano stanno lì a provarlo. E non è mica detto che questa pagina sia chiusa.» Togliatti ebbe più fiuto di voi? «Allora il suo voltafaccia lo giudicammo da un altro punto di vista. Lelio Basso, che era con me nel Partito d'azione, ci riferì che Togliatti gli aveva confidato d'essersi deciso a votare l'articolo 7 in cambio dell'assicurazione di un posto del PCI nel governo per altri vent'anni.» Quando invece fu buttato fuori neanche due mesi dopo. «Appunto. Togliatti può anche aver detto quella cosa. Ma non era la sua motivazione vera. Noi però ci cascammo. I nostri giudizi erano rozzi. Riducevamo tutto a tatticismo. Era un po' un nostro difetto generale: tendevamo a sminuire le ragioni di chi era in disaccordo con noi.» Mentre quali erano le ragioni vere di Togliatti? «Mi sfugge tuttora il processo d'elaborazione che portò il capo del PCI a mutare la sua decisione di voto. Ma le motivazioni mi paiono oggi più chiare. Certo tutto avvenne piuttosto rapidamente. Ancora il 20 marzo, appena cinque giorni prima della votazione finale, Giancarlo Pajetta intervenne in aula per confermare e motivare il no dei comunisti.» Però proprio quello stesso giorno monsignor Domenico Tardini, braccio destro politico del papa, confidava a un emissario degli Usa d'esser certo che i comunisti avrebbero votato sì. «In Vaticano ne sapevano più e prima di noi. Non escludo che Togliatti avesse percorso due vie di elaborazione parallele. Una dentro il partito, attestata fino all'ultimo sul no. Un'altra con quei suoi comunisti cattolici tipo Franco Rodano, che a loro volta avevano canali in Vaticano. Questo gli consentì d'intuire l'essenziale e di decidere di conseguenza. C'è una frase, nel suo discorso della sera del 25 marzo, quando annunciò il voto favorevole del PCI all'articolo 7, che ritengo una frase di verità.» Perché di verità? «Perché svela come Togliatti vedeva davvero le cose. Il vero scontro, disse, non è tra democristiani e sinistra, bensì tra la Costituente e "l'altra parte contraente e firmataria dei patti del Laterano". Come dire: qui continua quello stesso confronto tra Stato e Chiesa che è alla base del Concordato. Togliatti coglieva nel segno. Lui sapeva della pressione fortissima che il Vaticano stava esercitando perché i patti del 1929 fossero inclusi così com'erano, compresi i loro tratti illiberali, nella nuova Costituzione italiana.» Si sapeva che il Vaticano esercitava pressione in primo luogo sulla DC e sul capo del governo De Gasperi? «Oggi lo sappiamo più di allora. C'è una lettera del 15 marzo 1947 scritta a De Gasperi dal presidente dell'Azione cattolica, Vittorino Veronese, che è, tragica nella sua brutalità. Come scrivesse sotto dettatura, Veronese intimava al capo del governo di dar corso al "desiderio preciso della stessa autorità ecclesiastica", e arrivava a minacciare che "dipenderà da tale votazione la preferenza dei cattolici stessi nelle future elezioni politiche". In altre parole , il Vaticano avrebbe annientato la DC, se solo questa avesse ceduto sull'articolo 7 nella formulazione a esso gradita. De Gasperi intimamente non sopportava queste pressioni. E lo fece intuire nel suo discorso del 25 marzo: quando chiese che si votasse l'articolo 7 non per obbedire alle pretese della Chiesa, ma, al contrario, per portare la gerarchia ecclesiastica a promettere fedeltà alla nuova Repubblica, in forza del giuramento imposto a ogni nuovo vescovo proprio dal Concordato.» Tra De Gasperi e Giuseppe Dossetti lei chi preferiva? «De Gasperi. Anche Dossetti intervenne a sostegno dell'articolo 7, con un discorso lunghissimo ed estremamente tecnico. Ma anche con un'impronta confessionale e clericale molto più marcata di quella dei vecchi popolari. Stando alle sue argomentazioni, Dossetti era capace di giustificare tutte le discriminazioni religiose a danno dei non cattolici.» Tornando a Togliatti, il suo sì all'articolo 7 era dunque un messaggio che egli voleva mandare alla Chiesa, prima che alla DC? «Penso che Togliatti volesse far capire alla Chiesa che in Italia i comunisti erano sinceramente per la pace religiosa. Non per ottenere di stare al governo, come un po' tutti pensavamo allora. Ma per disarmare l'aggressività della Chiesa di papa Eugenio Pacelli nei confronti del comunismo italiano. In quei mesi di divisione dell'Europa in blocchi, Togliatti voleva mostrare alla Chiesa che i comunisti italiani non erano antireligiosi come quelli dell'Est.» Ma come riuscì questa operazione? «Non riuscì. La previsione di Togliatti si rivelò errata. Invece di allentare la sua ostilità anticomunista, il Vaticano la scatenò. Raddoppiò le pressioni sulla politica italiana, mirate a spaccare l'unità delle classi popolari. Tra il '48 e il '53 l'anticomunismo della Chiesa toccò punte esasperate, quasi da oscuramento della ragione, con l'Azione cattolica e i gesuiti in fila d'assalto.» All'epoca circolava un'altra spiegazione della svolta del PCI: Togliatti votava l'articolo 7 e in cambio De Gasperi ritirava la minaccia di un referendum sulla Costituzione, che avrebbe rimesso in forse la stessa scelta repubblicana. «Questa storia della pattuizione la misero in giro i democristiani. Ma io non ci ho mai creduto. La DC non aveva né la forza, né l'interesse di riaprire la questione istituzionale tra repubblica e monarchia. Nel '47 l'opzione monarchica era uscita di scena per sempre. Sono convinto che già nel referendum del 2 giugno 1946 i milioni, molti dei quali democristiani, che votarono per la monarchia esprimevano più un'Italia moderata che non un'Italia legittimista sabauda. Sostenendo l'articolo 7, la DC dava al suo elettorato un segnale forte di continuità e di unità ricomposta, nel grande partito della Chiesa.» All'indomani del voto, su "Rinascita", Franco Rodano giustificò il sì del PCI all'articolo 7 in nome dell'unità delle classi popolari, cattoliche comprese, contro «i gruppi egemonici ecclesiastici e altoborghesi.» «Bassa propaganda. Come poteva Rodano parlare di "unità delle classi popolari" quando anche lui aveva fatto di tutto per spaccare la sinistra e gli stessi comunisti? E come poteva liquidare come "radicali piccolo borghesi alleati dei clericali" noi azionisti e socialisti che ci eravamo opposti all'articolo 7? Togliatti aveva in testa ben altra cosa che questi teoremi di bassa lega. Ma anche la propaganda aveva il suo peso. A forza di dirlo ci convincemmo tutti che con l'articolo 7 il Concordato era stato elevato al rango della Costituzione. Ma non era così. Le sue clausole possono essere tutte modificate con procedure di legge ordinaria. È così che sta scritto. Ma ancor oggi non ci si fa molto caso. Si è sempre drammatizzata la questione più di quanto meriti.» È corretto concludere che con l'articolo 7 Togliatti inaugurò quella politica di alleanza tra le due Chiese che sarebbe divenuta una costante della politica comunista? «Penso di sì. Il 25 marzo 1947 Togliatti non ne fece mistero: era come se lui fosse l'Italia e il suo interlocutore il papa. Poi negli anni '70 venne il compromesso storico. Anch'esso progetto d'alleanza tra due Chiese, due visioni etiche.» E oggi? Ci risiamo? Postcomunisti, più postdemocristiani, più quel discepolo di Dossetti che è Romano Prodi...«No. Dal 1992 è cambiato tutto. Il cattolicesimo politico non è più quello; e non solo perché è sparita la DC. Anche la Chiesa non è più la stessa, nonostante il papa persista nel vecchio pregiudizio, speculare a quello laico, secondo cui per salvare la religione bisogna contrastare la modernità (e modernità vuol dire donna, vero problema irrisolto di questo pontificato). I comunisti, poi, non solo sono cambiati, ma hanno voluto seriamente rinnovarsi, fin troppo direi, al punto di buttare a mare con l'acqua anche il bambino. Quanto a Prodi, non vorrei che si scambiasse per rinascita del dossettismo quello che è solo un certo clima amicale emiliano. Sarò ottimista o ingenuo, chissà. Ma sento che qualcosa di nuovo e di buono ci verrà presto da parte dei cattolici. Quelli che oggi sono i più silenziosi.»
(Note di un protagonista laico sulla discussione tenuta in sede di Assemblea costituente in merito al Concordato, e sul voto con il quale nel 1947 cattolici e comunisti, a grande maggioranza, approvano l'art. 7 della Costituzione).
Per capire quali sono stati i veri motivi che hanno portato all'approvazione a grande maggioranza, coll'appoggio dei comunisti, dell'art. 7 della costituzione (o anche, più modestamente, per capire quanto sia difficile arrivare a capire dal di fuori questi veri motivi) non bisogna cercare la spiegazione nella teatrale parata oratoria che nelle sedute plenarie dell'assemblea costituente, dal 4 al 25 marzo 1947, ha preceduto quel voto; ma bisogna risalire alle discussioni preparatorie, appartate e spoglie di pubblicità e di solennità (più che discussioni, conversazioni e contrattazioni intercorse, "de plano et sine strepitu", tra brava gente seduta allo stesso tavolino), che hanno preso le mosse dalla prima sottocommissione (sedute del 21 novembre e 18 dicembre 1946), sono passate attraverso la commissione dei Settantacinque (seduta del 23 gennaio 1947) e solo alla fine sono sboccate, per il solenne collaudo, all'assemblea plenaria.
È noto, infatti, che gli articoli del progetto di costituzione sottoposto all'approvazione della costituente non sono usciti tutti in un colpo da un'unica ispirazione e da un proposito concorde; ma sono stati faticosamente aggiustati ad uno ad uno per graduali approssimazioni, attraverso una serie di contrasti, di adattamenti e di ritocchi, fino a trovare il punto di incontro e di equilibrio tra esigenze e ideologie divergenti e spesso antitetiche.
La discussione dalla quale è nata, nella prima sottocommissione, la formula dell'art. 5 (che è poi passata quasi immutata nell'art. 7 della Costituzione) porta nei resoconti parlamentari questo titolo piuttosto scolorito e scolastico: "Discussione sullo Stato come ordinamento giuridico, e i suoi rapporti con gli altri ordinamenti". Ma in realtà il "punctum pruriens" che si nascondeva dietro questa intitolazione anodina era quello delle relazioni tra Stato e Chiesa; e proprio in vista di questa questione scottante la democrazia cristiana aveva abilmente concentrato in questa prima sottocommissione, composta in tutto di diciotto deputati, i suoi rappresentanti più qualificati per destrezza parlamentare, come il presidente della stessa sotto-commissione avvocato Tupini, o per dottrina giuridica e fervore religioso, come i professori Dossetti, La Pira, Moro e Caristia, e gli avvocati Corsanego e Merlin.
Di fronte a questa compatta pattuglia democristiana (sette su diciotto, col vantaggio del presidente) i comunisti erano soltanto tre: Marchesi, Togliatti e la deputatessa Iotti; buoni ma pochi. Gli altri otto appartenevano a tutti gli altri partiti messi insieme: i socialisti Amadei, Basso e Mancini; il repubblicano De Vita; il demolaburista Cevolotto; i liberali Grassi e Lucifero; il qualunquista Mastroianni.
È facile intendere come in questo frazionamento di tendenze eterogenee, il gruppo cattolico, col suo fervente zelo e la sua raffinata abilità manovriera, fosse riuscito a ottenere fino dalla partenza un netto vantaggio sul gruppo che si può chiamare, per intenderci, «laicista» il quale, non potendo contare sui due liberali e sul qualunquista (che, sommandosi coi democristiani, bastavano a formar la maggioranza: dieci su diciotto), si riduceva, anche se i comunisti avessero fatto blocco con esso, a otto su diciotto. In realtà i tre comunisti, fino dall'inizio dei lavori della sottocommissione, fecero parte a sé: e nel contrasto tra le due tendenze, quella confessionale, di cui fu relatore il deputato Dossetti, e quella laicista, di cui fu relatore il deputato Cevolotto, assunsero, specialmente per bocca di Togliatti, una posizione, si direbbe, di centro.[...]
Il gioco delle parti
La scontrosa intransigenza dei cattolici, la subitanea capitolazione dei comunisti: quali furono i veri motivi di questi opposti atteggiamenti?
È largamente diffusa nel pubblico l'opinione che il voto dei comunisti sia stato il risultato di una contrattazione extraparlamentare avvenuta tra le direzioni dei due partiti: un "do ut des", nel quale i comunisti avrebbero avuto dai democristiani, in cambio del loro voto favorevole, non so bene quali assicurazioni o vantaggi in altri campi. Un giornalista francese, la sera stessa della votazione, mi domandò se era vero che i comunisti avessero comprato con quel loro voto il silenzio del governo sulla faccenda del cosiddetto «tesoro di Dongo»... Fantasticherie. Tutto può darsi in politica; ma se debbo giudicare dalle chiare apparenze, quali nel giorno della votazione poterono esser valutate da tutti gli osservatori presenti nell'aula, ho l'impressione che la improvvisa decisione dei comunisti di votare a favore dell'art. 7 sia stata una sorpresa anche per i democristiani: e non una gradita sorpresa. Da diversi deputati cattolici, che ho ragione di ritener sinceri, mi fu assicurato che essi prima del discorso di Togliatti erano convinti che l'art. 7 sarebbe passato con pochi voti, coi soli voti dei democristiani e delle destre, e che i comunisti avrebbero votato contro: e di tale opinione rimasero fino a quando quel discorso arrivò alla inaspettata perorazione.
No, il voto favorevole dato dai comunisti alla formula confessionale proposta dai cattolici è stato un dono senza contrattazione e talmente gratuito, che i cattolici non solo non avevano fatto nulla per procurarselo, ma avevano fatto tutto quanto era in loro per liberarsene. Essi speravano di poter riuscire a portare alla vittoria il loro articolo colle sole loro schiere, colle milizie della fede, senza ricorrere ad impure alleanze contaminatrici (pensate alla umiliazione che avrebbe provato Goffredo Buglione se per liberare il Santo Sepolcro avesse dovuto farsi dare una mano da un esercito di saraceni...). In tale speranza essi avevano cercato di chiudere il varco, a cominciar dalle discussioni preparatorie, ad ogni tentativo di soluzioni intermedie. E nonostante questo, all'ultimo momento, i comunisti hanno voluto a tutti i costi regalare ai cattolici quel contributo di voti che questi avevano fatto di tutto per respingere, ed hanno ottenuto così che i cattolici non possano più sventolare di fronte agli elettori il vanto di essere riusciti a salvare la religione con le loro sole forze...
Si è pensato che in questo reciproco atteggiamento dei due partiti molto abbian giuocato considerazioni di carattere elettorale.
Togliatti nel suo discorso volle metter su questo punto le mani avanti; e dichiarò che nella decisione di votare a favore dell'art. 7 il calcolo elettorale non entrava per nulla. Ma questa frase suscitò, nell'aula, una di quelle reazioni clamorose di incredulità che nello stile dei resoconti parlamentari possono essere qualificate, secondo i casi, come «"mormorii"», o come «"rumori"» o anche come «"ilarità"». In realtà tutta l'attività dell'assemblea costituente è stata ed è inquinata da questi struggenti patemi d'animo, collettivi ed individuali che si chiamano nel gergo politico le «preoccupazioni elettoralistiche». E' stato detto, con una frase che ha fatto fortuna, che una costituzione per essere buona «dovrebbe essere presbite», cioè guardar lontano, verso il remoto avvenire; ma la nostra costituzione purtroppo, rischia di nascere miope, se non cieca addirittura, come le talpe. Gran parte di coloro che la preparano non vedono molto al di là del proprio naso: e la punta del naso è, per molti uomini politici, segnata dalla data delle prossime elezioni.
Ora non si può escludere che proprio questa miopia sia stata una delle cause determinanti del voto sull'art. 7. I democristiani assaporavano già quale irresistibile argomento di propaganda avrebbe potuto essere nella prossima campagna elettorale il vanto di essersi trovati soli a difendere la religione contro i nemici coalizzati di essa e specialmente contro i comunisti. Tutti ricordano con quale abilità e con quale fortuna nelle elezioni del 2 giugno i democristiani si servirono a proprio vantaggio di questo argomento: è quindi verosimile che essi abbiano adottato sull'art. 7 un atteggiamento intransigente proprio per costringere le sinistre, e specialmente i comunisti, a votar contro, e ad attirarsi così la taccia compromettente di nemici della Chiesa.
Ma i comunisti (questa potrebbe essere una spiegazione) hanno capito il gioco e l'hanno sventato: votando a favore dell'art. 7 hanno spezzato in mano dei democristiani l'arma più potente che questi stavano affilando contro di loro per la prossima lotta elettorale. Questa è stata del resto la spiegazione che un deputato comunista mi ha dato, sia pure in tono scherzoso, del loro voltafaccia:
- Abbiamo voluto evitare che nella prossima campagna elettorale i democristiani ci possano rappresentare come anticlericali...
- Ma non temete che così qualcuno possa combattervi come alleati dei clericali?
- Certo questo accadrà. Ma saranno voti che andranno ai socialisti... [...]
Pace religiosa e pace politica
Ma potrebbe anche darsi che le vere ragioni del voto sull'art. 7 siano state più profonde: e attinenti a considerazioni più serie che non siano i calcoli contingenti di politica elettorale.
Intanto non sembra che si possa spiegare soltanto con calcoli di ordine elettorale l'intransigenza dei democristiani sulla formulazione dell'art. 7, la quale per molti di essi più che come voluta dal di dentro, può meglio spiegarsi quando si consideri come derivante da una imposizione esterna. Durante i lavori preparatori dell'art. 7 ho avuto la sensazione, parlando confidenzialmente con qualcuno dei deputati democristiani (tra i quali sono numerosi non solo i valentuomini, ma anche i repubblicani schietti), che essi si rendessero perfettamente conto dell'irriducibile contrasto che passa tra la confessionalità dello Stato, consacrata, auspice il fascismo, nei Patti Lateranensi, e il principio della Libertà di coscienza, che non può non essere uno dei caposaldi della repubblica italiana, se essa dev'essere una vera democrazia; e che nel sostenere quella formula intransigente dell'art. 7, che introduce di straforo nella costituzione repubblicana la religione di Stato, provassero un certo disagio e una certa perplessità di coscienza. Nelle dichiarazioni degli oratori democristiani, quali sono registrate nei resoconti sommari si trova ripetuto che nessuno di loro è fautore dello Stato confessionale; qualcuno si è dichiarato contrario all'idea di una religione di Stato (cfr. le dichiarazioni dell'on. Cappi nella seduta del 23 gennaio 1947); e qua e là si è affacciata la loro, sia pur cautamente, la fiducia che la Santa Sede sarà disposta domani a riprendere in esame le disposizioni dei Patti Lateranensi che sono in contrasto (anche i ciechi lo vedono) colla costituzione della Repubblica. Sarebbe bastato un passo di più per arrivare ad un accordo che avrebbe salvato la pace religiosa e insieme la sincerità democratica della costituzione. Ma questo passo i democristiani non hanno voluto farlo: non hanno voluto o "non hanno potuto"? Non posso dimenticare che, dopo un discorso nel quale un oratore di sinistra ebbe ad affermare che in Italia la pace religiosa esiste ormai, più che per merito dei Patti Lateranensi, in virtù della lotta clandestina in cui i cattolici si sono trovati uniti colle altre forze popolari a combattere per la libertà, un deputato democristiano, commosso da quella invocazione di una lotta combattuta in comune da tutta la democrazia, ebbe a dirmi queste parole: Forse avete ragione. Ma è la Santa Sede che si è ostinata a voler così!
L'art. 7 non sarebbe dunque nato dall'interno dell'assemblea, ma dal suggerimento irresistibile di una potenza esterna; non dalla sovranità del popolo italiano, ma da un'altra sovranità che lo stesso art. 7 riconosce e proclama come contrapposta a quella della Repubblica.
Questa fu in sostanza l'impressione che si ebbe dalla tagliente ed aspra dichiarazione di voto fatta, nella seduta del 25 marzo, dal presidente De Gasperi: il quale disse, o fece intendere, che in Italia dal mantenimento della pace "religiosa" dipende il mantenimento della pace "politica"; e che, se si vuole evitare alla Repubblica ancora debole il pericolo che deriverebbe da una rottura della pace politica, non c'è altro da fare che accettare senza discutere la formula perentoria dell'art. 7, in mancanza di che la vita stessa della Repubblica non sarebbe più garantita...
Proprio su questo piano l'on. Togliatti pose, nella stessa seduta, la sua replica: - Abbiamo capito, onorevole De Gasperi, abbiamo capito. - Il voto dei comunisti favorevole all'art. 7 poté così essere abilmente presentato, più che come un espediente di politica interna, come un sacrificio imposto dalla necessità di salvare la Repubblica dalle minacce esterne.
Non so quanto di vero e quanto di esagerato vi sia in questa alquanto drammatica interpretazione del voto sull'art. 7. Certo è che più volte, nell'imminenza di quella votazione, si è sentito dire che se l'art. 7 non fosse stato approvato nella forma voluta dai cattolici, essi, d'accordo colle destre, avrebbero chiesto e ottenuto che la costituzione fosse sottoposta a nuovo "referendum" finale e che fosse rimessa così in discussione anche la questione istituzionale; e si è sentito dire altresì che se la Repubblica italiana, nella gravissima crisi che la travaglia, vuole ancora contare sull'appoggio della finanza americana, bisogna che dia l'impressione di saper conservare quella stabilità politica che, come si è detto, non è separabile dalla pace religiosa... L'approvazione dell'art. 7 sarebbe stata insomma non solo la condizione per il mantenimento della Repubblica, ma anche il prezzo del pane che impedirà al popolo italiano di morir di fame...
da Il Ponte, anno III, n. 4, aprile 1947 e Argomenti Radicali, febbraio-maggio 1980, n. 15 |