|
Alberto Burgos
Breve storia del PCI |
Nel 1921 si tenne a Livorno il XVII Congresso
del Partito Socialista: la frazione comunista guidata da Amadeo
Bordiga e Antonio Gramsci,
che non riteneva più possibile continuare a rimanere nel
vecchio partito, abbandonò i lavori e il 21 gennaio si
riunì nel congresso fondativo del Partito Comunista
d'Italia - sezione dell'Internazionale Comunista.
Su
come si realizzò la scissione, gli stessi Gramsci e Togliatti espressero più tardi un giudizio parzialmente autocritico,
e in effetti nel breve periodo essa contribuì ad indebolire
ulteriormente la capacità di resistenza del proletariato
che, pur continuando in gran parte a far riferimento al PSI, rimase
disorientato dalla durissima lotta intestina apertasi a sinistra.
Il
primo Segretario del partito fu Amadeo Bordiga, ma la sua direzione,
settaria ed estremista,
fu messa sotto accusa al III congresso del PCd'I (Lione, 1926)
ed egli fu estromesso dal gruppo dirigente: prevalse, cioè,
la linea elaborata da Gramsci e Palmiro Togliatti nelle Tesi
di Lione, dove si ponevano le premesse per la
costruzione di un partito di massa e veniva svolta un'acuta analisi
del fascismo, cogliendone le tendenze all'imperialismo e alla
guerra. Questo ragionamento venne poi ripreso da Togliatti qualche
anno più tardi in quella che resta sicuramente la riflessione
più lucida sul regime, Le lezioni sul fascismo:
qui troviamo una delle più limpide definizioni del fascismo,
"regime reazionario di massa".
Con
le leggi speciali, "fascistissime", del 1926 tutti i partiti e
i sindacati furono dichiarati illegali e anche il PCd'I fu parzialmente
decapitato, coi suoi dirigenti imprigionati o inviati al confino:
lo stesso Gramsci restò in carcere dieci anni e morì
subito dopo essere stato liberato, nel 1937; molti quadri, però,
riuscirono ad espatriare, concentrandosi soprattutto a Parigi
e a Mosca e il PCd'I si organizzò nella clandestinità:
nonostante la repressione fascista riuscì a sopravvivere,
e fu anzi l'unica forza politica antifascista che per tutto il
ventennio continuò tenacemente ad operare. Questo fu dovuto
essenzialmente a due fattori: il grande spirito di sacrificio
e la ferrea organizzazione del partito leninista, ovvero la capacità,
che il PCd'I conservò anche nei momenti più difficili,
di mantenere profondi legami con il popolo.
Di rilievo alcuni momenti di forte tensione all'interno del gruppo
dirigente: nel 1938, dopo la firma del patto di non aggressione
fra URSS e Germania, alcuni esponenti di primo piano come Umberto
Terracini
e Camilla Ravera
giudicarono inaccettabile questo accordo e furono espulsi dal
partito (salvo venir riammessi appena finita la guerra). Prima
ancora Gramsci aveva esplicitamente dissentito
sul modo in cui veniva gestito il PCUS dopo la morte di Lenin
e per questa ragione, pur mantenendo formalmente la carica di
Segretario, fu di fatto emarginato: evidentemente la grande acutezza
di Gramsci, oltre al fatto che si trovava in carcere, gli aveva
consentito di cogliere nel Testamento di Lenin ciò che altri non seppero o non vollero vedere.
Assai
numerosi furono i militanti comunisti che accorsero nelle Brigate
Internazionali, formatesi in appoggio della Repubblica
durante la guerra
civile spagnola, e molti dirigenti del PCd'I ebbero
un ruolo di primissimo piano (oltre a Togliatti, Luigi Longo,
Vittorio Vidali - il leggendario Carlos, comandante il 5° Regimiento - Giuliano Pajetta
e tanti altri).
Decisivo fu il contributo dei comunisti durante la Resistenza:
le Brigate Garibaldi furono le principali
formazioni combattenti (a cui si affiancarono i raggruppamenti
organizzati da Giustizia e Libertà, dal PSI e dalla DC,
e quelli senza uno specifico orientamento politico) e dei circa
45.000 partigiani morti oltre 30.000 erano comunisti.
I
partiti antifascisti:
Democrazia
cristiana: fu costituita nel 1942 da dirigenti del disciolto
Partito
Popolare Italiano, la formazione cattolica fondata
nel 1919 da don Luigi Sturzo; nel 1994 si è
sciolta, e i suoi dirigenti hanno dato vita a varie formazioni,
legate alla coalizione di centrosinistra (in particolare il PPI,
poi Margherita, e l'UDEUR) o a quella di centrodestra (CCD, CDU, riunitesi
nell'UDC).
Partito
d’Azione: fu fondato da Mazzini nel 1853 con
un programma repubblicano, laico e riformista: ad esso si ispirarono
i gruppi dell’area liberale e socialista (soprattutto il
movimento Giustizia e libertà) che nel
1942 si costituirono in Partito; nell’immediato dopoguerra
questa forza si sciolse: l’ala più moderata, guidata
da Ugo La Malfa, confluì nel rinato Partito
Repubblicano Italiano, mentre gli esponenti della sinistra
entrarono nel PCI o nel PSI.
Partito Democratico del Lavoro: formazione minore
di tipo liberal-socialista che ebbe brevissima vita.
Partito Liberale Italiano: fondato nel 1942 ispirandosi
al liberalismo post-risorgimentale, nel 1956 vide la scissione
della sua ala sinistra che formò il Partito
Radicale; guidato per molti anni da Giovanni Malagodi,
si è sciolto nel 1994. Va precisato che il PLI fu un partito
decisamente conservatore, assai distante dal liberalismo progressista
di Gobetti (1901-1926) e della sua Rivoluzione
Liberale.
Partito Socialista Italiano: fondato nel 1892
come Partito dei Lavoratori Italiani, l’anno successivo
prese il nome di PSI; ne fece parte anche Mussolini (che addirittura
fu direttore de l'Avanti!) fino allo scoppio della prima
guerra mondiale; i suoi capi storici furono Filippo Turati
durante il fascismo e Pietro Nenni nel dopoguerra,
e subì la scissione dell’ala destra nel 1947 (da
cui nacque il Partito Socialdemocratico
di Saragat) e di quella sinistra nel 1964 (PSIUP);
guidato dal 1976 al 1993 da Bettino Craxi, dimessosi
in seguito a Tangentopoli, si è sciolto, disperdendosi
in varie formazioni, nel 1994. Una ricchissima bibliografia sul
socialismo in: socialisti.net/.
Con
il rientro in Italia nel 1944 di Palmiro Togliatti da Mosca, il PCI (il nuovo nome fu adottato dopo lo scioglimento
del Komintern, nel '43) si conquistò subito un ruolo primario
nel processo politico: in un famoso discorso tenuto a Salerno
(marzo 1944) Togliatti propose, vincendo anche forti riserve interne,
di rinviare senz’altro a guerra finita il dibattito sulla
questione istituzionale (sì o no alla monarchia), poiché
era assolutamente vitale che tutti gli italiani fossero uniti
intorno all'obiettivo principale, la cacciata e la sconfitta dei
tedeschi (svolta di Salerno). Malgrado la contrarietà
di azionisti e socialisti questa linea fu adottata da tutto il
CLN e non mancò di dare i suoi frutti.
Togliatti non solo aveva ben presente le priorità assolute
di quel momento, ma aveva intuito i possibili scenari del dopoguerra,
in cui il PCI avrebbe dovuto certamente mantenere la propria natura
di partito rivoluzionario e di classe, ma assumendo altresì
il ruolo di grande forza nazionale, con robusti legami con tutto
il tessuto sociale e in grado di far fronte anche ai più
delicati compiti di governo.
Era il partito nuovo, solido, flessibile,
determinato, moderno, fedele alla concezione leninista ma proiettato
nel futuro e, soprattutto, concentrato nell'analisi della situazione
italiana: un'elaborazione che andrà precisandosi sempre
meglio, anche in virtù del contributo teorico fondamentale
contenuto nelle pagine, densissime e uniche, scritte da Gramsci:
quei Quaderni
del carcere che restano una delle grandi opere
del pensiero novecentesco.
Nel
1947, nel clima della Guerra
fredda, le fortissime pressioni dell'amministrazione
americana portarono De Gasperi a rompere l'unità nazionale
e il PCI fu estromesso dal governo e confinato all'opposizione:
nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948 si ebbe la conferma del nuovo corso politico, con la clamorosa
e schiacciante vittoria della DC sul Fronte Popolare formato da comunisti e socialisti. Anni dopo Giorgio Amendola,
uno dei principali dirigenti comunisti, riflettendo su questa
sconfitta mise in evidenza il grave errore commesso dal PCI: nei
comizi del Fronte le piazze erano sempre colme, l'entusiasmo era
enorme, e si ebbe una sopravvalutazione del consenso alla sinistra.
In realtà il paese non poteva non essere ancora fortemente
condizionato da vent'anni in cui cultura e informazione erano
totalmente gestite dal regime fascista: Togliatti, giustamente
preoccupato di creare nel paese un clima di coesione nazionale
nella delicata fase della ricostruzione, da Ministro
della Giustizia fu il principale promotore dei provvedimenti
di amnistia nei confronti degli ex fascisti,
ma rimase irrisolto il problema della cospicua presenza negli
apparati dello Stato di uomini legati al vecchio regime e ben
decisi a riciclarsi (e saranno tremendi i guasti provocati negli
anni '60 e '70 da questo connubio tra fascisti e democristiani; un fatto sul quale da oltre vent'anni si sta sorvolando).
La nuova
Italia, dunque, nasceva dopo un lungo periodo di
dittatura e una sanguinosa guerra civile, con una Costituzione avanzatissima, frutto della straordinaria lucidità e lungimiranza
dei membri dell'Assemblea Costituente (presieduta dal comunista
Umberto Terracini), ma la logica dei blocchi
definita a Yalta condizionò per oltre cinquant'anni la
vita politica italiana, appunto impedendo che al governo vi fosse
il fisiologico avvicendamento tra forze conservatrici e progressiste,
come avveniva normalmente in Germania, nel Regno Unito, in Scandinavia.
Il fattore K (Komintern, Kommunist,
ecc.) come asse della politica italiana. In realtà la stragrande
maggioranza del PCI aveva accettato completamente le regole del
gioco democratico, ritenendo improponibili in una società
matura metodi insurrezionali e soluzioni analoghe (dittatura del
proletariato, monopartitismo) a quelle volute dai partiti comunisti
al potere. Anche sotto questo aspetto è significativo ciò
che avvenne, proprio nel '48, in seguito all'attentato in cui
Togliatti fu gravemente ferito: le sue prime parole furono "mantenete
la calma!", tuttavia in tutto il paese vi fu praticamente
un moto insurrezionale, e, ad esempio, a Genova ci vollero tutto
il prestigio e l'autorità di Giancarlo Pajetta per convincere
i partigiani, che avevano di fatto preso il controllo armato della
città, a rimettere il potere alle istituzioni.
Nonostante l'elaborazione togliattiana della via italiana
al socialismo - una linea decisamente eccentrica rispetto
all'asfittica ortodossia imperante a Mosca - l'isolamento del
PCI fu accentuato dalla formazione di governi di centrosinistra (DC, PSI, PSDI, poi allargati al PRI e in seguito anche al PLI).
Fu in ogni caso una stagione di grandi trasformazioni e novità,
con l'Italia investita dal miracolo
economico, ma anche percorsa da importanti cambiamenti
nel costume e nella vita civile.
Spesso si è dipinto il PCI come una chiesa, con i suoi
adepti che fedelmente seguivano la dottrina imposta dall'alto
(celebre l'arguzia di Giovanni Guareschi - uno dei pochi intelligenti
umoristi di destra - che ironizzando sui cambiamenti di linea
immaginava i disciplinati militanti comunisti sconvolti da un
brusco richiamo dall'alto: "Contrordine, compagni!"):
che vi siano stati anche elementi di questo tipo è vero,
e ne scrisse accuratamente anche Gramsci a proposito dei tre
elementi che costituiscono un partito di massa (il
gruppo dirigente, una massa disciplinata ma non particolarmente
colta, i quadri intermedi: v. Il partito politico nella
breve raccolta di scritti gramsciani); ma la forza e la credibilità del PCI non risiedevano
solo nella straordinaria capacità di mobilitazione, che
vedeva l'apice nelle Feste de l'Unità e nel continuo lavoro per creare consenso intorno alle lotte popolari
(talvolta con una modernissima capacità comunicativa, espressa
soprattutto nei manifesti),
ma soprattutto nell'essere davvero quell'intellettuale
collettivo immaginato da Gramsci, cioè un
organismo di massa che, pur tra mille contraddizioni, cercava
senza sosta di migliorare se stesso e il proprio senso di aderenza
alla realtà, utilizzando il marxismo come un metodo critico e non come formulario di ricette.
Non a caso i migliori intellettuali dell'epoca aderirono al PCI
o gli furono vicini: scrittori, cineasti, editori, artisti, studiosi;
solo alcuni nomi: Calvino, Malaparte, Pavese, Sciascia, Antonioni,
De Sica, Pontecorvo, Visconti, Einaudi, Feltrinelli, Guttuso,
Sapegno. Non fu sempre un idillio, naturalmente, e in taluni casi
ci furono scintille: come nel caso dell'aspra polemica fra Elio
Vittorini e Togliatti sul ruolo degli intellettuali o in seguito
all'invasione sovietica dell'Ungheria.
Quanto il PCI fosse partito di lotta e di governo lo si può verificare sotto due profili: nelle regioni
rosse, in cui comunisti e socialisti hanno tradizionalmente
avuto la maggioranza e hanno amministrato egregiamente; e nell'instancabile
attività nelle fabbriche e nelle campagne (quello che allora
veniva definito il "lavoro di massa"), dove
i comunisti - sia detto senza alcuna retorica - erano sempre in
prima fila nella difesa dei diritti e nelle rivendicazioni; spesso
pagando di persona con discriminazioni e licenziamenti: esemplare
il caso della Fiat, dov'era stata allestito un apposito reparto
confino in cui si cercava di isolare gli operai della Fiom,
tutti accuratamente schedati. Per non parlare dei nutriti dossier
allestiti dai carabinieri e dai servizi, e delle decine di morti
provocati da un uso irresponsabile delle forze dell'ordine in
occasione di lotte sociali, attività in cui si distinse
il Ministro democristiano Scelba, con la sua cele(b)re questura...
Con la morte di Stalin (1953) in URSS cominciò un ripensamento
di fondo su come il partito e lo stato erano stati gestiti, e
il nuovo segretario del PCUS, Nikita Krushëv,
nel celebre Rapporto segreto letto al XX Congresso
(1956)
attaccò aspramente il predecessore e il culto della
personalità costruito intorno a lui. Togliatti,
pur con la consueta prudenza, continuò nel tenace lavoro
di presa di distanza da Mosca, e in un'intervista alla rivista Nuovi Argomenti criticò il rapporto di Krushëv,
nel quale non veniva svolta un'analisi adeguata, organica, dello stalinismo:
questa riflessione trovò una formulazione più strutturata
in uno scritto steso da Togliatti proprio prima di morire, il
cosiddetto Memoriale
di Yalta, che il nuovo Segretario del PCI, Luigi Longo, decise subito di rendere pubblico, facendone
il punto di riferimento dell'autonomia del PCI.
Occorre però ricordare che nel '56 vi fu anche la drammatica
rivolta degli ungheresi contro il regime filosovietico e che il
PCI si schierò decisamente a fianco dell'URSS. L'allora
direttore de l'Unità,
Pietro Ingrao,
molti anni dopo confesserà di non perdonarsi quella posizione,
e anzi di considerare l'atteggiamento assunto dal PCI (che provocò l'uscita dal partito di molti militanti, soprattutto intellettuali) il più
grave errore commesso dal partito nella sua lunga, e gloriosa
storia: liberarsi dal legame col regime totalitario sovietico
- ormai privo da tempo di qualsiasi connotato comunista e rivoluzionario
- e imprimere una decisiva svolta all'elaborazione teorica e alla
pratica poteva significare far assumere al comunismo italiano
una prospettiva ben diversa dalla misera fine decretata nel 1989-91.
All'XI Congresso del PCI (1966) si manifestarono apertamente due
linee contrapposte: quella più moderata e che puntava addirittura
all'unificazione col PSI, e una di sinistra che rivendicava una
maggior severità nel giudizio sul centrosinistra. Gli esponenti
di punta di questo dibattito furono rispettivamente Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, ma nessuno dei due riuscì a far prevalere
le proprie tesi: la linea del PCI fu dunque determinata - secondo
un classico meccanismo politico - dal "centro", cioè
da chi, nel gruppo
dirigente (in particolare Longo, Giancarlo Pajetta ed Enrico Berlinguer),
riteneva che le posizioni più sbilanciate e radicali dovessero
essere riequilibrate da un orientamento "moderato" e
flessibile.
Nel
1968,
l'anno degli studenti, e nel 1969, l'anno dell'autunno
caldo (cioè la stagione dei rinnovi contrattuali
in cui riemerse, forte e decisa, la combattività operaia),
Longo intuì il nuovo potenziale di lotta e di cambiamento,
ma la deriva estremistica del movimento studentesco (e, viceversa,
un certo irrigidimento dei dirigenti intermedi del PCI) impedì
un vero dialogo, e, anzi, i gruppi della sinistra extraparlamentare
svolsero durissime azioni di critica nei confronti del PCI e della
CGIL. Non a caso le posizioni estremiste ebbero fortuna soprattutto
fra gli studenti: nelle fabbriche, dove pure vi erano state numerose
critiche a un certo attendismo delle vecchie Commissioni Interne
(gli organismi rappresentativi costituiti dai lavoratori), dirigenti
sindacali attenti e coraggiosi come Bruno Trentin capirono quanto fosse vitale cogliere i segnali di novità
e dare il massimo spazio alle istanze emergenti dalla "nuova"
classe operaia. E infatti la creazione dei nuovi strumenti di
rappresentanza dei lavoratori (Consigli di fabbrica eletti unitariamente reparto per reparto) consentì al sindacato
di mantenere ben saldi i legami di massa, trovando in ciò
l'elemento essenziale della propria forza e credibilità.
Tutti questi elementi critici (che, ripetiamo, portarono anche
importanti elementi di vivacità nella cultura politica
e civile) nella loro forma più esasperata erano riconducibili
da un lato a un'analisi sommaria delle società capitalistiche
e dall'altra a una critica liquidatoria di quanto aveva fatto
la sinistra storica, accusata di aver abbandonato l'idea della
rivoluzione e di aver tradito il marxismo, o perlomeno di averlo
sottoposto a un'inaccettabile revisione moderata e tesa
al compromesso (revisionismo).
La rottura, consumatasi nei primi anni '60, fra URSS e Cina,
si era appunto determinata su questioni ideologiche, con i sovietici
accusati di revisionismo, anche se, in realtà, il nodo
del dissidio era riconducibile alla competizione fra i due paesi
rispetto a chi dovesse esercitare la leadership sugli
altri partiti comunisti e, soprattutto, sui paesi
in via di sviluppo che, in opposizione ai paesi ricchi, avevano
ovviamente bisogno di partner forti e affidabili.
Gli esponenti di spicco del marxismo "critico", cioè
non legato all'ortodossia imposta da Mosca (ma anche da Pechino:
al burocratismo sovietico si opponeva un dogmatismo altrettanto
rigido, quasi che le parole d'ordine della Rivoluzione
culturale cinese potessero essere esportate in società
completamente diverse), in vario modo diedero un impulso formidabile
a queste controversie.
Il gruppo di studiosi conosciuto come Scuola
di Francoforte (Adorno,
Horkheimer,
Marcuse),
ma anche, in Francia, Althusser, Barthes, Lacan, Sartre, e negli Stati
Uniti economisti come Paul Sweezy e linguisti come Noam Chomsky,
sottoponevano a una critica spietata sia i meccanismi del capitalismo
sia la politica, ritenuta debole e inadeguata, dei partiti storici
della sinistra. In particolare veniva giudicata del tutto inefficace
la tendenza della sinistra a considerare quasi esclusivamente
i momenti "strutturali" dello scontro politico, cioè
quelli legati ai meccanismi dello sfruttamento e all'organizzazione
di classe della società, trascurando, invece, gli aspetti
"sovrastrutturali", soprattutto se riferiti ai dispositivi
- scuola, mass media - di formazione del consenso; ci fu chi addirittura
teorizzò il venir meno del ruolo rivoluzionario della classe
operaia, ormai coinvolta in modo subalterno nel sistema capitalistico
e comunque destinata ad essere "integrata". Studiosi come Wilhelm Reich ed Eric Fromm introdussero poi nel dibattito politico temi legati alla psicanalisi e, più in generale, al rapporto fra politica e psicologia: il primo, in particolare, col suo celebre La rivoluzione sessuale propose una discutibile ma stimolante sintesi fra marxismo e freudismo, contribuendo fortemente ad una presa di coscienza collettiva anche rispetto a problemi di natura non strettamente politica ma di grande rilevanza dal punto di vista della formazione culturale e ideologica, e dei comportamenti sociali.
Tali fermenti investirono prepotentemente anche il movimento operaio
italiano, che comunque già aveva cominciato a interrogarsi
su tali questioni, ad esempio nell'ambito di quella sinistra socialista
(che nel '64 aveva dato via al PSIUP) o comunista da cui avevano
preso le mosse importanti riviste come Quaderni Rossi, Contropiano, Problemi del Socialismo, Quaderni Piacentini,
Monthly Review (ed. italiana della rivista di Baran e Sweezy, uscita dal 1968 al 1987). Naturalmente anche
il PCI fu scosso da queste aspre discussioni e nel dibattito interno
ci fu una durissima contrapposizione fra i gruppi dirigenti e
l'agguerrito nucleo di militanti che si rifacevano alle posizioni
di Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Lucio Magri, promotori della rivista il Manifesto (quotidiano dal 1971): con la loro radiazione dal partito (1969)
la frattura divenne insanabile e per vari anni ci fu una variegata
e vivacissima costellazione di gruppetti alla "sinistra"
del PCI.
La grande forza di questo partito - fatta di idealità comuni,
organizzazione, energia, disciplina, spirito di sacrificio, concretezza
- talvolta gli fu quasi d'impaccio nel cogliere al volo le trasformazioni
della società. Come nel caso del divorzio:
malgrado le forti sollecitazioni di esponenti del mondo laico,
il PCI non volle impegnarsi convintamente in questa battaglia,
temendo che il paese fosse ancora troppo condizionato dalla cultura
democristiana e dalla Chiesa cattolica, e infatti furono un deputato
socialista e uno liberale, Fortuna e Baslini,
a presentare una legge in merito, che fu approvata; quando però
la DC e il MSI, guidati da Fanfani e Almirante,
tentarono di rimediare, lanciando con grande clamore il referendum
abrogativo (1974), il PCI mise in campo tutte le proprie risorse,
svolgendo un ruolo decisivo nel battere la destra.
Una vicenda analoga si svolse a proposito dell'aborto,
delicatissima questione che dal movimento femminista venne posta al centro di una battaglia
più generale contro l'oppressione e l'oscurantismo: ma
anche in questo caso la forza comunista fu essenziale (assai più
delle brucianti invettive di Pannella e dei radicali),
e vi fu un clamoroso no al tentativo del clerico-fascismo
di cancellare la legge 194 per via referendaria
(1978).
Agli inizi del 1968 un'altra importante vicenda scosse il movimento operaio internazionale: il tentativo di Dubcek e del gruppo dirigente riformista del Partito Comunista di imprimere una svolta antiautoritaria al regime di tipo sovietico che soffocava la Cecoslovacchia. È la Primavera di Praga, conclusasi tragicamente in seguito all'intervento militare dei paesi del Patto di Varsavia nell'agosto. Rispetto a questo ennesimo atto contrario a qualsiasi logica di progresso e di liberazione, il PCI non esitò ad esprimere il proprio "grave dissenso."
Sul piano elettorale il PCI registrò una crescita continua,
ma la pregiudiziale anticomunista degli altri partiti e i vincoli
internazionali dell'Italia all'interno della NATO (Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord) impedirono
che quei voti fossero efficacemente utilizzati nel governo del
paese. D'altra parte per moltissimi anni la peculiarità
della politica italiana fu proprio il "congelamento"
del PCI, cioè la conventio ad excludendum, l'accordo
per escludere dal potere la principale forza di opposizione (che
era anche il più grande partito comunista dell'occidente):
e proprio per impedire ad ogni costo che il PCI andasse al governo,
i servizi segreti statunitensi e italiani ispirarono, o addirittura
in taluni casi gestirono direttamente, la strategia
della tensione: un oscuro e complesso disegno - basato
sullo stragismo e le provocazioni - volto a creare un clima di permanente disordine
politico e sociale, tale da giustificare una forte svolta autoritaria.
Una stagione fitta di misteri,
depistaggi, regie occulte, disinformazione, servizi segreti fuori
da ogni controllo, sussulti golpisti, con la classe dirigente
- democristiani e socialisti in testa - inerte o complice.
Nel 1973, riflettendo sul processo che aveva portato al golpe
in Cile, Enrico Berlinguer,
Segretario del partito dal 1972 al 1984, prospettò una
svolta politica epocale che allontanasse questi rischi di degenerazione
del sistema democratico, e che doveva necessariamente fondarsi
sull'incontro fra le grandi forze politiche di ispirazione comunista,
socialista e cattolica: è la nota proposta di "compromesso
storico" tra PCI, PSI e DC.
Malgrado l’insuccesso di questa idea, Berlinguer proseguì
con determinazione nella messa a fuoco di una strategia in grado
di sbloccare una situazione politica pericolosamente stagnante:
sul piano internazionale la rottura con Mosca era di fatto consumata,
anche se non formalizzata, avendo il PCI da una parte rinunciato
alla prosecuzione di qualsiasi finanziamento (criticabile sul
piano politico, ma non illegale, dato che non vi era ancora la
legge che regolava l'erogazione di denaro ai partiti) e dall’altra
denunciato i "tratti illiberali" dei regimi
dell’est e proclamato la necessità di perseguire
una “terza via” rispetto al socialismo
reale dell'est e alle socialdemocrazie.
I partiti comunisti europei erano entità abbastanza modeste,
con l’eccezione di Italia, Francia e Spagna, ed è
a queste due realtà che si rivolse Berlinguer: i contatti
con i segretari del PCF e del PCE, Georges Marchais e Santiago
Carrillo, sembrarono in un primo tempo dare ottimi risultati,
tanto che per diverso tempo si parlò di eurocomunismo,
inteso come movimento dei partiti comunisti riformatori; in seguito,
tuttavia, sia nel PCF che nel PCE prevalsero nuovamente le istanze
conservatrici. Berlinguer addirittura arrivò a dichiarare
che tutto sommato si sentiva più sicuro sotto l’ombrello
della NATO.
Per quanto riguardava la realtà italiana il Segretario
del PCI fu il primo a denunciare l’esistenza di una “questione
morale” che esigeva una radicale trasformazione
dei rapporti, troppo spesso all’ombra della corruzione,
fra amministrazioni pubbliche, aziende, forze politiche. In verità
fu un appello che cadde nel vuoto, come pure non ebbe gran seguito
il richiamo a non restare imprigionati dall’esasperata logica
dei consumi e a ritrovare, di fronte ai gravi problemi economici,
un forte riferimento etico nell’austerità.
Questi sensibili elementi di apertura e di rinnovamento crearono
intorno ai comunisti un nuovo clima di consensi, e nelle elezioni
amministrative del 15 giugno 1975 il PCI aumentò
di oltre 6 punti, arrivando, col 33%, a un passo dal 35% della
DC: il risultato fece sì che le maggiori città italiane
(Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia) avessero
delle giunte “rosse”. Il sorpasso elettorale
sarebbe però avvenuto solo alle elezioni europee del 1984,
subito dopo la morte di Berlinguer, col PCI al 33,4% e la DC al 33%.
Ma furono anche gli
anni di piombo: alcune piccole frange della sinistra
extraparlamentare ritennero che la lotta politica così
com'era stata finora condotta, anche nelle forme più dure,
era del tutto inefficace e quindi l'unico modo di combattere il
capitalismo era la lotta armata. Un disegno che non poteva che
avere come uno dei bersagli principali proprio il PCI, nemmeno
più "revisionista" ma solamente "traditore".
Le principali vittime del terrorismo furono in verità uomini
dello Stato, imprenditori, giornalisti, ma quando in una fabbrica
di Genova il sindacalista comunista Guido
Rossa denunciò apertamente
alcune connivenze col terrorismo, le Brigate Rosse lo uccisero. E per tutto quel periodo - culminato nel momento
più difficile della storia repubblicana, il sequestro e
l'uccisione di Aldo Moro, 1978 - il PCI fu sicuramente
la forza politica più impegnata a contrastare il proliferare
della violenza e le trame eversive.
Quanto il PCI fosse ben radicato nella società, in particolare
fra le masse lavoratrici, lo si vide anche in due sfortunate battaglie:
alla fine del ‘79 la Fiat licenziò
61 operai accusandoli di aver commesso atti di violenza dentro
la fabbrica e nell’autunno dell’80 annunciò
la cassa integrazione per 24.000 lavoratori,
metà dei quali dopo un anno sarebbero stati licenziati.
Il sindacato rispose con lo sciopero a oltranza e lo stesso Berlinguer
andò davanti ai cancelli di Mirafiori a portare la solidarietà del PCI. Che la Fiat puntasse
a una resa dei conti divenne esplicito quando la direzione aziendale
annunciò la sospensione dei licenziamenti e la riduzione
del periodo di cassa integrazione: dopo quasi un mese di sciopero
c’era stanchezza fra i lavoratori e soprattutto paura per
il futuro, e molti premevano per sospendere la lotta e cercare
qualche compromesso; il colpo decisivo arrivò con la marcia
dei 40.000: a metà ottobre un imponente
corteo di capireparto, impiegati, dirigenti, insieme alle loro
famiglie, sfilò per le strade di Torino chiedendo di poter
tornare a lavorare e accusando i sindacati di portare alla rovina
l’economia. Non si era mai visto niente del genere, era
il segnale di una violenta spaccatura fra operai politicizzati
e lavoratori intermedi, e, soprattutto, di una generale perdita
di consenso da parte del sindacato: che infatti il giorno dopo
firmò un accordo che era un inevitabile atto di resa.
Una delle conseguenze fu che quando qualche anno più tardi
(1985) si andò al referendum per l’abolizione
della scala
mobile (in realtà si trattava di una consultazione
proposta proprio dal PCI per abrogare il disegno di legge
del governo Craxi che aveva di fatto eliminato la scala mobile):
la formidabile mobilitazione nelle fabbriche non riuscì a
coinvolgere positivamente il resto della società e
quasi il 55% degli italiani votò per la soppressione
di questo meccanismo.
In ogni caso tutta la politica italiana di quegli anni era come
bloccata tanto era condizionata dal fenomeno terroristico. E forse
è anche da questo non poter lavorare davvero per il cambiamento
che si è alimentata quella pratica deviata della politica
esplosa poi con Tangentopoli.
Un altro effetto collaterale della non alternanza fra chi aveva
sempre governato e chi no, coinvolse più direttamente il
PCI: il consociativismo, cioè il coinvolgimento
diretto delle forze dell'opposizione in decisioni a vari livelli:
e non sempre le scelte sono state le migliori.
Un
momento drammatico e decisivo fu la morte di Berlinguer,
nel giugno del 1984: i suoi funerali furono la più grande
manifestazione della storia italiana e videro l'immensa partecipazione
non solo del popolo comunista ma anche di cittadini i quali
vedevano scomparire uno dei pochi uomini politici che, per
serietà
e onestà, erano riusciti ad acquisire la fiducia della
gente. Qualcosa di simile era accaduto solo vent'anni prima,
ai funerali di Togliatti, con un milione di persone che piangevano
"l'idea che non muore".
Dal
punto di vista della sua fisionomia (anche fisica: nome, simbolo)
e del suo progetto per il futuro, la svolta decisiva è
stata impressa al PCI fra l''89 e il '91 da Achille Occhetto
(divenuto Segretario dopo che il partito era stato guidato per
un certo tempo da Alessandro Natta), il quale
decise, anche in relazione al crollo dell'URSS e dei regimi satelliti,
di accelerare la trasformazione del PCI: un dibattito senza precedenti,
appassionato e drammatico, attraversò il partito (su queste
vicende e quelle immediatamente successive molto interessante
la ricostruzione che ne fanno Oliviero e Alessio Diliberto in La fenice rossa, Robin ed., 1998) coinvolgendo centinaia
di migliaia di militanti, quelli per il sì, cioè
favorevoli all'opzione apertamente socialdemocratica proposta
da Occhetto, e quelli per il no, convinti della necessità
di mantenere viva una forza comunista consapevole della propria storia (a sua volta il fronte del no era diviso fra chi stava già
preparando la scissione e chi invece decise di restare).
Al XX Congresso, 1991, il Partito Comunista Italiano si è
sciolto e ha promosso una nuova formazione, il Partito
Democratico della Sinistra (successivamente trasformatosi
ancora, assorbendo schegge socialiste e cattoliche, in Democratici
di sinistra, e poi ancora, miscelando ex comunisti - ma molto ex - e democristiani, in PD), mentre l'ala sinistra,
guidata da Garavini, Cossutta e Libertini, ha
dato vita al Partito della Rifondazione Comunista.
Ma occorre sottolineare che non tutti gli iscritti al PCI (circa
1.200.000) si ritrovarono poi nel PDS (e men che meno nei DS)
o in Rifondazione: il primo risultato della brillante operazione
di Occhetto fu che 350-400.000 militanti abbandonarono in brevissimo
tempo la vita politica attiva, seguiti più avanti da molti
altri.
Quando nel 1998 Fausto Bertinotti, segretario
di Rifondazione, decise di far cadere il governo Prodi, migliaia
di militanti comunisti si opposero a questa scelta avventuristica
e diedero vita al Partito
dei Comunisti Italiani.
E il triste seguito
(litigi, scissioni, arcobaleno, federazione minuscola) è noto. Una grottesca appendice: il PdCi dopo aver cambiato nome nel 2014 in PCd'I, due anni dopo ricambia nome, addirittura presentandosi come PCI.
Sul
retro delle tessere
del PCI venivano riportati alcuni punti fondamentali dello Statuto
del partito: qui riproduciamo quanto stampato sulle tessere del
1950 e del 1990, sottolineando che, ovviamente, nel corso degli
anni queste formulazioni sono molto cambiate, rispecchiando l'evoluzione
teorica e politica del PCI. Si noti, ad esempio, che nel 1950
veniva ancora usata l'espressione marxismo - leninismo,
poi abbandonata perché riferita all'irrigidimento ideologico
imposto da Stalin.
Il
Partito Comunista Italiano è l'organizzazione politica
dei lavoratori italiani i quali lottano in modo conseguente per
la distruzione di ogni residuo del fascismo, per l'indipendenza
e la libertà del Paese, per l'edificazione di un regime
democratico e progressivo, per il rinnovamento socialista della
società.
Ogni iscritto al Partito Comunista è tenuto:
- a partecipare regolarmente alle riunioni e a svolgere attività
di Partito secondo le direttive dell'organizzazione a cui è
iscritto;
- a migliorare di continuo la propria conoscenza della linea politica
del Partito e la propria capacità di lavorare per la sua
applicazione;
-
ad approfondire la conoscenza del marxismo-leninismo;
- ad osservare scrupolosamente la disciplina del partito;
- ad avere rapporti di lealtà e fraternità con gli
altri membri del Partito;
- ad avere una vita privata onesta, esemplare;
- ad esercitare la critica e l'autocritica per il miglioramento
della sua attività e di quella del Partito;
- a vigilare e difendere il Partito da ogni attacco;
- a fare con la parola e con l'esempio opera continua di proselitismo.
Il Partito Comunista è un partito di donne e di uomini che
lottano per la pace e la cooperazione fra i popoli, per l'affermazione
dei diritti di tutti gli individui e per il riscatto del lavoro
da ogni forma di opppressione e di sfruttamento...
|
|