Jenner Meletti

Da ballata yiddish a inno partigiano il lungo viaggio di Bella ciao
Il brano fu portato in America da un musicista tzigano originario di Odessa
Ne esiste anche una versione operaia cantata dalle mondine dopo la guerra

"Nel giugno del 2006 ero al quartiere latino di Parigi, in un negozietto di dischi. Vedo un cd con il titolo: "Klezmer - Yiddish swing music", venti brani di varie orchestre. Lo compro, pagando due euro. Dopo qualche settimana lo ascolto, mentre vado a lavorare in macchina. E all'improvviso, senza accorgermene, mi metto a cantare "Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao...". Insomma, la musica era proprio quella di Bella ciao, la canzone dei partigiani. Mi fermo, leggo il titolo e l'esecutore del pezzo. C'è scritto: "Koilen (3'.30) - Mishka Ziganoff 1919". E allora ho cominciato il mio viaggio nel mondo yiddish e nella musica klezmer. Volevo sapere come una musica popolare ebraica nata nell'Europa dell'Est e poi emigrata negli Stati Uniti agli inizi del '900 fosse diventata la base dell'inno partigiano".

È stata scritta tante volte, la "vera storia di Bella ciao". Ma Fausto Giovannardi, ingegnere a Borgo San Lorenzo e turista per caso a Parigi, ha scoperto un tassello importante: già nel 1919 il ritornello della canzone era suonato e inciso a New York. "Come poi sia arrivato in Italia - dice l'ingegnere - non è dato sapere. Forse l'ha portato un emigrante italiano tornato dagli Stati Uniti. Con quel cd in mano, copia dell'incisione del 1919, mi sono dato da fare e ho trovato un aiuto prezioso da parte di tanti docenti inglesi e americani. Martin Schwartz dell'università della California a Berkeley mi ha spiegato che la melodia di Koilen ha un distinto suono russo ed è forse originata da una canzone folk yiddish. Rod Hamilton, della The British Library di Londra sostiene che Mishka Ziganoff era un ebreo originario dell'est Europa, probabilmente russo e la canzone Koilen è una versione della canzone yiddish "Dus Zekele Koilen", una piccola borsa di carbone, di cui esistono almeno due registrazioni, una del 1921 di Abraham Moskowitz e una del 1922 di Morris Goldstein. Da Cornelius Van Sliedregt, musicista dell'olandese KLZMR band, ho la conferma che Koilen (ma anche koilin, koyln o koylyn) è stata registrata da Mishka Ziganoff (ma anche Tziganoff o Tsiganoff) nell'ottobre del 1919 a New York.

Dice anche che è un pezzo basato su una canzone yiddish il cui titolo completo è "the little bag of coal", "la piccola borsa di carbone".

Più di un anno di lavoro. "La Maxwell Street Klezmer Band di Harvard Terrace, negli Stati Uniti, ha in repertorio "Koylin" e trovare lo spartito diventa semplice. Provo a suonare la melodia... È proprio la Koilen di Mishka Tsiganoff. Ma resta un dubbio. Come può uno che si chiama Tsiganoff (tzigano) essere ebreo? La risposta arriva da Ernie Gruner, un australiano capobanda Klezmer: Mishka Tsiganoff era un "Cristian gypsy accordionist", un fisarmonicista zingaro cristiano, nato a Odessa, che aprì un ristorante a New York: parlava correttamente l'yiddish e lavorava come musicista klezmer". Del resto, la storia di Bella ciao è sempre stata travagliata. La canzone diventa inno "ufficiale" della Resistenza solo vent'anni dopo la fine della guerra.

"Prima del '45 la cantavano - dice Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea all'università di Catania - solo alcuni gruppi di partigiani nel modenese e attorno a Bologna. La canzone più amata dai partigiani era "Fischia il vento". Ma era troppo "comunista". Innanzitutto era innestata sull'aria di una canzonetta sovietica del 1938, dedicata alla bella Katiuscia. E le parole non si prestavano ad equivoci. "Fischia il vento / infuria la bufera /scarpe rotte e pur bisogna andar / a conquistare la rossa primavera / dove sorge il sol dell'avvenir". E così, mentre stanno iniziando i governi di centro sinistra, Bella ciao quasi cancella Fischia il vento. Era politicamente corretta e con il suo riferimento all'"invasor" andava bene non solo al Psi, ma anche alla Dc e persino alle Forze armate. Questa "vittoria" di Bella ciao è stata studiata bene da Cesare Bermani, autore di uno scritto pionieristico sul canto sociale in Italia, che ha parlato di "invenzione di una tradizione". E poi, a consacrare il tutto, è arrivata Giovanna Daffini".

La "voce delle mondine", a Gualtieri di Reggio Emilia nel 1962 davanti al microfono di Gianni Bosio e Roberto Leydi aveva cantato una versione di Bella Ciao nella quale non si parlava di invasori e di partigiani, ma di una giornata di lavoro delle mondine. Aveva detto che l'aveva imparata nelle risaie di Vercelli e Novara, dove era mondariso prima della seconda guerra mondiale. "Alla mattina, appena alzate / o bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / alla mattina, appena alzate / là giù in risaia ci tocca andar". "Ai ricercatori non parve vero - dice il professor Granozzi - di avere trovato l'anello di congiunzione fra un inno di lotta, espressione delle coscienza antifascista, e un precedente canto del lavoro proveniente dal mondo contadino.

"Bella ciao", in cui la canzone delle mondine apre il recital e quella dei partigiani lo chiude". I guai arrivano subito dopo. "Nel maggio 1965 - cito sempre il lavoro di Cesare Bermani - in una lettera all'Unità Vasco Scansani, anche lui di Gualtieri, racconta che le parole di Bella ciao delle mondine le ha scritte lui, non prima della guerra, ma nel 1951, in una gara fra cori di mondariso, e che la Daffini gli ha chiesto le parole. I ricercatori tornano al lavoro e dicono che comunque tracce di Bella ciao si trovano anche prima della seconda guerra. Forse la musica era presente in qualche canzone delle mondine, ma non c'erano certo le parole cantate dalla Daffini, scritte quando i tedeschi invasor erano stati cacciati da un bel pezzo dall'Italia". "Una mattina mi sono alzata..."

Fino a quando ci sarà ricordo dei "ribelli per amore", si alzeranno le note di Bella Ciao, diventato inno quando già da anni i partigiani avevano consegnato le armi. "Bella Ciao? Forse le cantavano - dice William Michelini, gappista, presidente dell'Anpi di Bologna - quelli che erano in alta montagna. Noi gappisti di città e partigiani di pianura, gomito a gomito con fascisti e nazisti, non potevamo certo metterci a cantare".

(Repubblica, 12 aprile 2008 )

Carlo Loiodice

Bella questa di "Bella ciao"!


Il 12 aprile scorso Jenner Meletti su Repubblica fa un piccolo grande scoop: “Bella ciao”, l’inno della Resistenza, viene dalla Russia: In particolare ha origini klezmer ed è così vecchia che ne esiste una registrazione del 1919.
- Sai che novità! – Avrà pensato qualcuno abituato a sentirla in versione marziale cantata da un coro di omoni o suonata da una banda militare con piatti e grancassa. Invece, chi l’ha sentita in versione mondina da Giovanna Daffini o da uno dei canzonieri che proliferavano negli anni ’70, avrà fatto 2 e 2 4, concludendo che l’anonimo autore del testo resistenziale si fosse rifatto a un precedente canto di lavoro. Prova, in entrambi i casi, che la filologia non è roba per il primo dilettante che passa.

Dilettante è, senza dubbio, Fausto Giovannardi, presentato nell’articolo come “ingegnere a Borgo San Lorenzo e turista per caso a Parigi”, entrambe qualità rispettabilissime. Ciò di cui dubito è la sua capacità di ricavare dall’ascolto note sul pentagramma. Se lo avesse fatto, si sarebbe reso conto dell’insensatezza di tutto il meccanismo che ha messo in moto.
Che quella dei giornali sia oramai una capacità dimidiata d’informare lo sappiamo da quando Internet ci ha messo in mano strumenti nuovi di ricerca personale. Il che dovrebbe indurre i giornalisti della carta stampata a differenti e nuove modalità di comportamento. Qui la notizia era di quelle che richiedevano una prova provata, e sarebbe stato sufficiente rendere scaricabile o solo ascoltabile un file audio in margine all’articolo.
A quella notizia io ho creduto. Non per dabbenaggine, ma perché so da sempre che nella musica popolare transiti, prestiti e contaminazioni sono all’ordine del giorno.
“Amor dammi quel fazzolettino” è piuttosto conosciuta. Meno nota al grande pubblico è una canzone calabrese, “Riturnella”, in cui è presente il tema del fazzoletto dell’innamorata, con lavatura e stiratura. Ora, se può essere fonte di appagamento di curiosità il sapere chi ha avuto per primo quell’idea, bisogna poi trovare le tracce della avvenuta comunicazione, qualora s’intenda dimostrare che c’è stato prestito o plagio.
Ma perché voler dimostrare ciò a tutti i costi? Il tarlo che ci rode sta, a mio avviso, nel “diritto d’autore”. Questo non esiste da sempre, ma da quando c’è, ha provocato un esito contrario allo scopo originario di proteggere moralmente ed economicamente gli autori. Omero, Dante e Shakespeare non sono tutelati dalla SIAE, ma copiarli è praticamente impossibile. Li si cita. Il che ne mantiene la gloria, assegnando un credito al citante. Per contro, fra gli iscritti alle varie SIAE, il gioco è a copiare il più possibile, inserendo quel minimo di variazioni formali che consentano poi all’avvocato una plausibile strategia difensiva in caso di controversia.
Molti ricordano un caso di oltre una quindicina di anni fa. Phil Collins ottiene un grande successo internazionale con “A groovy kind of love”, ma si becca un’accusa di plagio. Quella melodia l’aveva scritta prima il nostro Ivan Graziani: “Agnese dolce Agnese”. “Precisa ‘ntifica!” Avrebbe detto un personaggio di Camilleri. Possibile che il globale Collins avesse freddamente deciso di depredare il locale Graziani? Possibile. E che dire allora se veniamo a sapere che “A groovy kind of love” era uscita nel 1965 e che nel 1966 i Camaleonti, secondo l’uso dell’epoca, ne avevano pubblicato una cover in italiano? Allora è stato Graziani a copiare! Può essere. Ma in caso affermativo, da chi? Muzio Clementi nacque a Roma nel 1752 e morì in Inghilterra nel 1832. La sua fama è dovuta al fatto che tutti coloro che studiano pianoforte si esercitano con le sue “sonatine”. Ed è appunto la sonatina op. 35 n. 5 all’origine della trafila. Senza che per questo vada a Clementi alcun merito di originalità: si tratta di note che salgono e scendono lungo la scala, a beneficio di chi non ha ancora una mano ben sviluppata. Roba facile, insomma. Del resto, che Clementi si prestasse ad essere “ripreso”, lo aveva capito anche il grande Mozart, che gli scippò il tema della sonata in si bemolle maggiore per inserirlo nel “Flauto magico”.
Se plagiare nun sta bbene, il prestito può anche generare valore aggiunto. È il caso di quelle canzoni popolari che hanno usato arie d’opera o temi d’autore per inserirvi un testo d’occasione. Mi viene in mente la “Serenata de Pulecenella”, il cui testo fu inserito su una precedente aria di Domenico Cimarosa. Ma penso anche a prestiti interni alla stessa musica popolare: sull’aria di “Il feroce monarchico Bava” (fine Ottocento) nel 1969 furono scritte le strofe della “Ballata del Pinelli”… Per non parlare di “Maremma amara”, canzone popolare toscana sulla cui aria, in epoca napoleonica, Anton Francesco Menchi scrisse “Partire partirò, partir bisogna”, contro la coscrizione obbligatoria.
E torniamo a “Bella ciao”. Che non l’abbia scritta Stravinskij è evidente. Un chitarrista alle prime armi può accompagnarla usando soltanto tre accordi e la melodia non fa uso neppure di tutte e sette le note (manca il settimo grado della scala). Se ripensiamo alla “Biblioteca di Babele” di Borges, in cui possono esistere due libri che differiscono per un solo carattere, come non ritenere possibile che due canzoni, pur avendo ciascuna una propria identità emotiva, contengano quasi, sottolineo quasi, le stesse note? Normalmente, tra composizione originale e parodia, la distinzione è netta: è originale la composizione che non assomiglia ad altro; è parodia la composizione il cui modello originale si riconosce sin troppo bene. Affermo questo nella consapevolezza di dire quasi una scempiaggine. Vero è che la “Divina commedia” è opera originale. Ma la sua originalità non consiste nell’aver usato parole e frasi mai lette prima. Anzi, il livello di allusività è altissimo. Solo che allude semplicemente all’universo. Al contrario, in una parodia, l’universo non c’entra e c’entra solo l’opera originale a cui si fa riferimento. La stragrande maggioranza delle opere – segnatamente le canzoni – stanno sulla sterminata fascia che separa l’originalità dalla parodicità.
Ecco un esempio dalla tradizione letteraria.

Dante Alighieri:
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende
.
(Inferno, canto V)
Ugo Foscolo:
Piango la patria mia che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende.
(Ultime lettere di Jacopo Ortis).
Non parodia ma allusione, rimando semantico, relazioni tra significanti. Come in questo caso più recente e meno impegnativo.
Ah che bello ‘o café / sulo a Napule ‘o sanno fa’. (Domenico Modugno).
Ah che bbello ‘o café / pure ‘n carcere ‘o sanno fa’. (Fabrizio De André).
Una mattina mi son svegliata [alzata]


Può essere l’inizio di qualunque cosa. E non è affatto detto che chi ha scritto “Bella ciao” volesse assolutamente evocare una vera o presunta canzone delle mondine. Così non è detto che - se accettiamo la versione di Vasco Scansani, il quale ne rivendica la paternità - l’eventuale falso d’autore spacciato come autentico popolare dalla Daffini voglia intenzionalmente richiamare un legame politico-affettivo tra Resistenza e lavoro. Siamo ancora nella biblioteca di Babele. Le lettere dell’alfabeto sono ventisei, le note musicali sono sette (allarghiamo con qualche fonema in più nel primo caso e con qualche alterazione in più nel secondo); le parole sono molte ma non infinite; le lingue sono molte ma non infinite; i dialetti sono tanti ma nemmeno essi infiniti. Dunque esiste, non frequente ma nemmeno così rara, la possibilità statistica di coincidenze. Storici e filologi si occuperanno poi di vedere se certe suggestioni richiamate dalle coincidenze hanno una base materiale verificabile.
E tutto questo finché le coincidenze sono macroscopiche o almeno intriganti. Ma… Una mattina mi son svegliato e ho… acceso la radio. Alla fine del GR delle 8 su Radio1, c’è il magazine “Inviato speciale”. Fra i titoli sento annunciare un servizio sulle presunte origini yiddish di “Bella ciao” e mi metto in ascolto. La notizia non è nuova. Siamo al giorno 26 aprile e su Repubblica l’avevamo letta il 12. Ma tant’è… Questa volta però possiamo giovarci del sonoro. E per quanto i montatori del servizio abbiano fatto di tutto per disturbare la percezione della musica, mi sono impuntato e, a scopo di verifica, ho cercato di riascoltare la trasmissione sul web. Si trova da qui. Si preme il pulsante ‘ascolta’ e ci si porta a circa dieci minuti dall’inizio.
E qual non fu il mio stupore nel verificare… Forse ci siamo capiti… Chi non ama o non conosce il blues dice che tutti i blues si somigliano. Chi non conosce o non ama il liscio, ritiene che valzer e mazurka siano la stessa cosa perché entrambi in 3/4. Ed è quello che è capitato al nostro ingegnere viaggiatore, che ha scambiato un cocomero per un melone, mettendosi poi in giro a scomodare testimoni ed esperti; i quali, per non rischiare la brutta figura o subito o più tardi, hanno risposto con mani avanti e piaggeria. Il giornalista ha fatto il resto.
Registrazione e trascrizione alla mano, è facile dimostrare che “Il sacchetto di carbone”, ossia il brano inciso da Misha Tziganov nel 1919 non è, né ha a che vedere con “Bella ciao”. Mi piacerebbe simulare una procedura legale come quelle che si attivano per l’accusa di plagio, per vedere chi risulterebbe condannato e chi assolto. Provo a spiegarmi a un tanto al chilo. Consideriamo le parole: “Una mattina mi son svegliata / o bella ciao* bella ciao bella ciao ciao ciao / una mattina… ecc." Dopo l’asterisco le sillabe non coincidono più con le note. I tre ‘ciao’ di fila andrebbero cantati su tre mi, dei quali non c’è traccia; e andrebbero armonizzati con un accordo di mi - la7 nelle esecuzioni più raffinate -, entrambi gli acccordi incompatibili con il do naturale su cui appoggia la melodia klezmer in quel punto. Quel che segue, ancorché ascoltato confusamente, non mi pare nemmeno degno di esser preso in esame.
Eppure tutti gridano al prodigio e si fanno in quattro per cercare ragioni e motivi per provare qualcosa che non è avvenuto. Certo i migranti migrano e portano con sé anche le loro musiche. Ed è interessante ricostruire certi percorsi. Ad esempio, sarebbe interessante approfondire il fenomeno del successo di “Bella ciao” nella versione celtica e “sparata” dei Modena City Ramblers. Forse testimonianza vivente di una frase che il protagonista Mario dice al poeta Neruda nel film “Il postino” di Massimo Troisi: “La poesia non è di chi la scrive, ma è di chi gli serve”.

da www.carmillaonline.com

Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: un saggio di Cesare Bermani

Cesare Bermani (Novara, 1937), tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, studioso delle tradizioni popolari, del movimento operaio e della Resistenza, affronta nuovamente la storia di Bella Ciao, in un lavoro pubblicato da Interlinea (2020).

Un saggio che pur fissando le origini di questo canto addirittura all’Ottocento, ne segue l’evoluzione fino a quando si è affermato come canto partigiano.
Era, infatti, l’inno di combattimento della Brigata Maiella operante in Abbruzzo nel 1944 e dai suoi componenti portata successivamente al Nord quando, dopo la liberazione del Centro Italia, aderirono come volontari al Corpo italiano di liberazione aggregato all’esercito regolare.
Fu l’antropologo scomparso nel 2011 Alberto Mario Cirese, scrive Bermani, ad avere il merito “di essersi per primo interessato di Bella ciao e aver notato come fosse un riadattamento della canzone epicolirica che Costantino Nigra” (uomo del Risorgimento, fedelissimo di Cavour, diplomatico, poeta e ricercatore di canti popolari) “ha chiamato Fior di tomba, canto diffuso in tutta Italia, entrato stabilmente nel repertorio militare sin dalla guerra del 1915-1918”.
Bermani scrive che per un “non breve periodo, la canzone è stata ignorata dai libri di storia e dai canzonieri della Resistenza, ciò che ha permesso alla bufala che non sia stata cantata nei mesi della lotta partigiana di giungere sino a oggi, accreditata purtroppo anche da giornalisti studiosi quali Bepi De Marzi, Arrigo Petacco, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, tanto da poter essere ribadita nel 2018 anche dal giornalista Luigi Morrone”.
In base a sue ricerche e ad altre di Gianni Bosio e  Franco Coggiola degli anni Sessanta e Settanta, è invece emerso anche “che una Bella ciao partigiana era stata cantata dall’aprile-maggio 1944 nella zona di Montefiorino (Modena), divenendo popolarissima durante la Repubblica partigiana, vissuta cinquanta giorni, dalla metà di giugno  all ’inizio di agosto del 1944”.
Bermani -come ricordavamo prima- scrive della versione della canzone,che nacque in Abruzzo tra i partigiani della Brigata Maiella, “dove la Resistenza ha avuto una connotazione ben diversa che al Nord, in una formazione partigiana non garibaldina ed è un canto contro l’invasore tedesco. Se Fischia il vento fu la canzone più cantata della Resistenza, tuttavia anche Bella ciao fu cantata dalle formazioni partigiane che dal Centro Italia salirono al Nord affiancate agli Alleati. Ed è a essa, oggi identificata come la canzone della Resistenza italiana, che è toccato poi di diventare l’inno di tutti i ribelli del mondo”.

L’incontro tra i partigiani risalenti dal Centro e quelli del Nord in terra emiliana diventa un cruciale momento di scambio e contaminazione culturale, tant’è che e fu proprio a Reggio Emilia che l’allora partigiano Vasco Scanzani imparò la Bella ciao  partigiana per poi trasformarla, nel 1951, nel canto di lavoro delle mondine.
Bermani dà conto anche di Rinaldo Salvadori, paroliere e conzonettista toscano (un “fenomeno di frontiera” tra musica popolare e leggera), che nel 1944 pubblicò testo e musica di Bella ciao molto simile a quella che conosciamo oggi noi: il che aggiunge un’altro rivolo alla ricerca della”origine” e della sua “autorialità”.
Nel dopoguerra, a conferma della sua essenza stessa di fenomeno di frontiera in grado di unire venne adottato da tutto l’arco costituzionale  testimone di una Resistenza plurale e non esclusiva di nessuno. Inoltre, pur in asseza dei social, ebbe una vasta diffusione nel mondo “attraverso i Festival della gioventù” e divenne anche “una delle canzoni della rivoluzione cubana, cantata dalle Milicias Nacionales Revolucionarias costituite il 26 ottobre del 1959”.
Fino a diventare un vero e proprio simbolo di Resistenza in ogni angolo del pianeta in cui c’è qualcuno che lotta per la libertà.
Un canto, come scrive Bermani, che “è così amato da chi vuole la libertà e contemporaneamente avversato da ogni genere di reazionario”. 

grazie anche a: Vito Bubbico e Giornalemio.it

 

A proposito delle origini yiddish del canto: qui.

 

 

Bella ciao: 20 versioni: qui